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spostamenti da una regione all’altra dello stesso Paese, e le diverse visioni
giuridiche che definiscono gli immigrati rispetto ai cittadini nei vari Paesi.
Una distinzione invece meno ambigua e più consolidata, sia a livello scientifico
che nel linguaggio comune, è quella che definisce emigrazioni i movimenti di
uscita dal Paese d’origine, e immigrazione invece l’ingresso in un altro Paese.
L’ambiguità dei concetti di migrazione e migrante è dunque strettamente connessa
alla complessità del fenomeno in esame.
Nonostante la difficoltà di fornirne definizioni precise e univoche, le migrazioni
sono comunemente riconosciute come fenomeni di forte interesse sociologico
perché l’insediamento di un individuo o di un gruppo straniero su un territorio,
indipendentemente da quale sia l’accoglienza degli autoctoni, è destinato a
provocare sempre e comunque mutamenti profondi nella società ospite.
A tal proposito, possiamo affermare che le migrazioni sono un fatto sociale totale
in quanto provocano cambiamenti in tutte le sfere delle società d’accoglienza:
nella vita politica, economica, sociale, culturale, religiosa ecc.
È importante inoltre sottolineare che i processi di inserimento e di integrazione
sono processi in continua evoluzione, non cristallizzabili perché continuamente in
movimento, e capaci di ridisegnare il volto di una società.
1.2. L’immigrazione recente in Europa
Le migrazioni fanno parte della storia dell’umanità e hanno assunto connotazioni
diverse a seconda del luogo e del periodo storico. Guardando all’Europa e
riferendoci ad un passato relativamente recente, possiamo ricordare come il
grande sviluppo industriale dei primi anni del secolo diciannovesimo abbia spinto
milioni di persone delle zone più povere del vecchio continente ad immigrare
verso le Americhe. Dopo una pausa fra le due guerre mondiali, in cui furono
attuate in molti Paesi politiche restrittive in entrata e in uscita (per esempio, in
Italia il fascismo ostacolò le partenze), le migrazioni di massa ripresero questa
volta anche interne nel periodo della ricostruzione, fra il 1945 e i primi anni
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Cinquanta, alimentate dalla situazione disastrosa causata dagli avvenimenti bellici
e dirette soprattutto verso la Francia, la Svizzera e il Belgio, Paesi in cui la
richiesta di manodopera era molto alta. Esse proseguirono per tutto il periodo di
decollo economico contraddistinto dagli accordi intergovernativi per la fornitura
di lavoro per il Mercato Comune Europeo e dalla rapida regolarizzazione di chi
entrava clandestinamente in un altro Paese.
Indipendentemente dalla situazione interna e dalle politiche restrittive, l’Europa
divenne dopo la guerra meta di migranti provenienti da altre parti del mondo.
La situazione in Europa cambiò negli anni Settanta, quando, in seguito allo shock
petrolifero del 1973, alla crisi del modello di produzione industriale labour
intensive che aveva richiesto manodopera straniera in molti Paesi, ai cambiamenti
nei settori dell’industria classica fordista (crisi del tessile, dell’industria estrattiva
e di quella pesante in cui era stata impiegata in grande quantità la manodopera
immigrata), alcune strutture produttive vennero decentrate verso i Paesi del Terzo
Mondo; in questo modo l’offerta di lavoro locale divenne in alcuni luoghi da
insufficiente a sovrabbondante e incrementò la disoccupazione. I governi dei
grandi Stati europei (Germania, Inghilterra, Francia, Svizzera e Belgio), per far
fronte al problema della disoccupazione, presero a porre in atto politiche
migratorie restrittive, chiudendo le frontiere agli immigrati concepiti nella loro
qualità di “lavoratori”, anche se, indipendentemente dalle politiche interne
dell’Europa, i flussi migratori provenienti dagli altri continenti continuarono ad
aumentare. Infatti dagli atri continenti arrivarono a migliaia immigrati e profughi,
che si diressero soprattutto in Francia, Germania, Inghilterra e Olanda.
Il primo effetto delle politiche restrittive è stato il consolidamento delle comunità
fino a quel momento presenti, che insieme ai ricongiungimenti familiari, ha
definito il volto dell’attuale multietnicità europea. Il secondo effetto, che riguarda
da vicino il nostro Paese, è il coinvolgimento dell’Europa del Sud nel processo
migratorio: trovando chiuse le frontiere degli Stati più ricchi, i flussi migratori
hanno cominciato a dirigersi anche altrove, là dove il vuoto legislativo,
l’impreparazione e l’assenza di controlli hanno stimolato gli ingressi e quindi
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anche in Spagna, Grecia, Portogallo e Italia (indicata da un rapporto del 2004
delle Nazioni Unite come il Paese che è in assoluto in cima alle preferenze dei
migranti internazionali [Ambrosini 2005]).
Questi Paesi costituiscono quello che gli studiosi chiamano il modello di
immigrazione mediterraneo o Paesi di nuova immigrazione. È questo un modello
migratorio recente che comprende quattro Paesi che presentano tratti comuni nel
“vissuto migratorio”: anzitutto sono questi Paesi di recente immigrazione,
divenuti tali in seguito alle politiche restrittive applicate dagli altri Stati europei
dopo la crisi del sistema economico postfordista, ma continuano a rimanere
contemporaneamente Paesi di emigrazione. Infatti in questi quattro Stati, a partire
dagli anni Settanta e con più intensità e visibilità dagli anni Ottanta in poi,
l’immigrazione sostituisce progressivamente l'emigrazione (sebbene questa
seconda non scompaia del tutto e, anzi, resti strutturale tra le diverse aree dei
Paesi in questione).
I primi flussi di immigrazione per lavoro trovano la loro collocazione, almeno
inizialmente, soprattutto nel settore agricolo, e questo è un tratto particolarmente
evidente in alcune aree dell'Europa mediterranea e rappresenta una novità rispetto
ai flussi migratori Transoceanici o verso il Nord Europa. I Paesi di nuova
immigrazione, proprio a causa della novità del fenomeno, non avevano una
legislazione che regolamentasse gli ingressi, cosa che porterà al prodursi di
numerosi problemi per gli immigrati della prima ora. L’assenza di legislazione e
la successiva armonizzazione in ambito europeo saranno infatti determinanti nella
diffusione della clandestinità, altra caratteristica delle migrazioni contemporanee,
dal momento che le politiche restrittive porteranno molti ad entrare nel Paese
senza diritto o a non riuscire a regolarizzare la propria posizione in seguito.
Un ulteriore elemento che contraddistingue la collocazione lavorativa della
manodopera immigrata è l’occupazione nel settore terziario e, in particolar modo,
nel lavoro di cura e nei servizi alla persona. Tale elemento contribuisce a
determinare la composizione di genere della presenza migratoria, fatta per
percentuali significative da donne, spesso emigrate da sole. Nasce quindi quello
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che gli studiosi indicano come il fenomeno della femminilizzazione dei processi
migratori [Ambrosini 2005].
La presenza di lavoratori immigrati nell'agricoltura, nei servizi ed in altri settori e
mansioni di basso profilo o ad alto tasso di informalità o scarsa strutturazione,
determinano un ulteriore importante fattore in quanto l’immigrazione non è
determinata dalla piena occupazione: disoccupazione e occupazione di
manodopera immigrata convivono.
Con l’ingresso dei Paesi di nuova immigrazione è dunque cresciuto il numero
degli Stati interessati al fenomeno, sia in entrata che in uscita, e da ciò deriva
l’eterogeneità delle lingue, culture, religioni e gruppi nazionali coinvolti
(globalizzazione delle migrazioni). I flussi più recenti in Europa, e in particolar
modo in Italia, sono molto variegati e nei processi migratori sono coinvolte tante
nazionalità diverse, tanto che in Italia riscontriamo, a partire dagli ultimi anni
Ottanta, un’estrema frammentazione delle aree di provenienza. Oltre ad essere
molto variegati, i recenti flussi in Europa sono anche molto più intensi che in
passato.
Da quando è iniziata la trasformazione del ruolo dell’Italia nel sistema migratorio
internazionale, la presenza straniera predominante proviene dai Paesi in via di
sviluppo dell’Asia e dell’Africa e dall’Europa dell’Est, mentre è diminuito il peso
relativo dei cittadini provenienti dai Paesi più sviluppati. In Italia si è verificato
infatti un progressivo mutamento delle aree di provenienza: in termini relativi, è
cresciuto il numero degli immigrati provenienti dai Paesi in via di sviluppo e
dall’Europa Orientale, mentre è andato sempre più diminuendo il numero di
coloro che provengono da Paesi sviluppati, nonostante il loro volume sia
aumentato in termini assoluti a causa della maggiore integrazione economica tra
l’Italia e gli altri Paesi occidentali. [Zurru 2002]
Riassumendo, le caratteristiche principali delle migrazioni contemporanee
nell’Europa Occidentale sono: l’accelerazione delle migrazioni; l’incremento
della dimensione quantitativa in quanto i flussi si sono intensificati, sono diventati
massicci e non accennano a diminuire; la differenziazione delle migrazioni, nel
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senso che non troviamo più solo migranti per lavoro, ma anche altre sono le cause
che mettono in moto questi processi; la femminilizzazione e la clandestinità.
[Ambrosini 2005].
Infine, si può segnalare che i movimenti attuali, portando gente di continenti e
culture lontane, provocano l’incontro tra culture molto diverse, mentre nelle
migrazioni precedenti, in cui i migranti erano europei che si spostavano
prevalentemente in Europa, non vi era la diversità di culture che riscontriamo
oggi.
1.3. I protagonisti delle migrazioni contemporanee. Caratteristiche e immagini
degli immigrati nell’Italia di oggi
L’immigrazione è una fenomeno sociale complesso, in quanto, mentre da una
parte permangono dei rapporti tra gli immigrati e i parenti nelle società di origine
(legami transnazionali), dall’altra, dal contatto tra immigrati e popolazione
autoctona si formano nuovi rapporti. I principali attori di questo complesso
fenomeno sociale sono tre: i migranti con i loro legami in patria e la spinta ad
integrarsi, le società riceventi con le loro modalità d’assimilazione, le società
d’origine con le loro problematiche che inducono molti a partire.
In genere gli spostamenti massicci sono dovuti alla situazione di forte disagio che
le persone vivono nelle società d’origine; è la mancanza cioè di benessere
economico, di libertà e di diritti riconosciuti e tutelati che spinge quasi sempre le
persone a lasciare il proprio Paese. Si può constatare come quasi la metà (45,9%)
delle migrazioni avvenga oggi a livello planetario tra Paesi in via di sviluppo
[Ambrosini 2005]; sappiamo inoltre che la spinta ad emigrare deriva spesso dalla
presenza di conflitti bellici nel proprio Paese [Zurru 2002].