2
testi canonici, per stabilire la formule iconografiche fu utilizzato anche un certo
numero di testi apocrifi. Con l’andare del tempo, le omelie, la poesia liturgica, le
vite dei santi, riti liturgici e gli scritti didattici o mistici, cominciarono a rivestire un
ruolo di sempre maggior importanza come fonte letteraria dell’iconografia
bizantina.
La pittura bizantina, in particolare la pittura d’icone, fu vista come un’espressione
artistica rimasta inalterata per secoli, principalmente a causa della sua iconografia
pietrificata. Il tradizionalismo di tale iconografia trovava spiegazione nella visione
bizantina per cui l’immutabilità è alla base del mondo reale e le rappresentazioni
comunemente accettate del passato cristiano erano state fissate una volta per tutte.
Da ciò si inferì che le formule iconografiche tradizionali erano d’impaccio alla
libertà dell’ artista e che una volta adottata una certa forma, essa veniva tramandata
di secolo in secolo soltanto con minime variazioni, non percepibili da un occhio
inesperto. E’ in questo contesto, si pensò, che vanno compresi l’origine e l’uso
continuo per secoli di manuali per pittori, le hermeneiae, in cui venivano fornite
precise istruzioni su come si dovessero dipingere i santi e le scene della storia
cristiana ( l’ hermeneiae più nota fu compilata all’inizio del XVIII secolo dal pittore
Dionisio di Furnà). Nei decenni passati, con i difensori della conoscenza dell’arte
bizantina in Occidente, le teorie sulla rigidità della sua iconografia sono state
modificate e alcune concezioni sbagliate sono state abbandonate.
Le regole dell’iconografia bizantina, infatti, cambiarono nel tempo, sebbene i
cambiamenti siano avvenuti in misura più contenuta che nel caso dell’arte
medievale e, in particolare, dell’arte occidentale più recente. La letteratura
ecclesiastica bizantina ebbe i suoi poeti dotati, predicatori eloquenti e abili autori di
vite di eremiti e martiri, i cui testi erano una costante fonte di arricchimento dei
manuali per pittori. Inoltre, alcuni dettagli occasionali erano presi anche dalla vita
quotidiana. La verità e la ricchezza dell’iconografia bizantina furono in parte il
risultato dell’attività di botteghe locali, che seguivano delle formule specifiche per
conto proprio. Del resto, gli Stati indipendenti all’interno della Chiesa orientale,
come la Russia, la Serbia o la Bulgaria, produssero novità che riflettevano le
predilezioni dei loro popoli ortodossi. Né i manuali ostacolavano la via verso
concezioni più libere: le istruzioni riguardo alla raffigurazione di certi santi e di
certe composizioni erano abbastanza generiche e gli artisti bizantini godevano di un
considerevole grado di libertà, purché osservassero le regole iconografiche di base.
3
1.1 L' ICONA
Secondo la tradizione, la prima icona fu scritta/dipinta da St. Luka.
Le icone si dicono scritte perché sono, per la teologia, scritture sacre. Esse, infatti,
rappresentano la fede della Chiesa. Ad esempio, la fonte di luce in un'icona è Dio
dentro ed intorno al santo. Nella fede ortodossa, l'icona è parte integrante della
celebrazione. Si tratta di un'arte liturgica che non può essere isolata dal suo contesto
ecclesiale: la scrittura ed il suo ampio commentario innografico è ricca di dottrina e
di spiritualità. Le immagini (icona, eikôn in greco significa immagine) apparvero
molto presto nel mondo cristiano attraverso le catacombe quale arte funeraria
caratterizzata dalla gioia della risurrezione. La sua tecnica risale a prima dello
Scisma d’Oriente, cioè all'arte romana ed ellenistica e si limita a cristianizzarla
tramite il gioco dei segni e dei simboli. A partite dal IV e V secolo l'icona include i
simboli nei volti, mentre la teologia trinitaria include l'essere nella comunione.
Tuttavia una corrente ostile alle immagini persiste nel cristianesimo, attinge
argomenti di interdizione dall'Antico Testamento e dalla paura (talvolta giustificata)
per l'idolatria, spingendosi fino a uno spiritualismo dematerializzante: altro
argomento contro le immagini è il carattere panumano di Cristo, da cui
l'impossibilità di rappresentarlo.
La crisi esplode intorno al 726 D.C. e va avanti fino all'843 D.C. , quanto alcuni
imperatori, ingaggiano una lotta contro il monachesimo perché, di fatto, limita il
loro potere e sembra compromettere la vita sociale. ”La profezia del Regno di Dio,
testimonianza di un Signore crocifisso” è l'ideale monastico che si inscrive
nell'icona. L'ampia politica di secolarizzazione appoggiata dall'esercito e dai teologi
spiritualisti sfocia nell’iconoclastia. La crisi ha permesso di fondare e purificare la
venerazione delle sacre immagini. Contro una concezione puramente speculativa
della trascendenza, la Chiesa sottolinea che il Dio vivente trascende la sua stessa
trascendenza per rivelarsi in un volto d'uomo. L'icona per eccellenza, quella di
Cristo, si giustifica con l'Incarnazione, anche perché il Figlio non è solo la Parola,
ma anche l'Immagine (consustanziale) del Padre, "fonte della divinità". « Nei tempi
antichi - scrive san Giovanni Damasceno - Dio, incorporeo e senza forma, non
poteva essere raffigurato sotto nessun aspetto; ma ora, poiché Dio è stato visto
mediante la carne ed è vissuto in comunanza di vita con gli uomini, io raffiguro ciò
4
che di Dio è stato visto »
1
. Perché, così come il Verbo si è fatto carne, la carne si è
fatta Verbo.
Il Damasceno respinge l'obiezione di chi considera la materia indegna e sottolinea
che la grazia, in Cristo, ha penetrato la materia e ha liberato la sua potenziale
sacramentalità. « Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, che è
diventato materia a causa mia… Venero la materia attraverso la quale è avvenuta la
mia salvezza, poiché essa è piena di potenza e di grazia divina »
2
.
Così, « quando colui che è immenso e sussistente nella forma di Dio si è invece
ristretto alla misura e alla grandezza, dopo aver preso la forma di schiavo...
riproduci la sua forma su di un quadro, ed esponi alla vista colui che ha accettato di
essere visto. Di lui riproduci l'inesprimibile condiscendenza… »
3
.
Questo è l'argomento fondamentale da Dionigi l'Areopagita a Teodoro Studita: in
Cristo l'invisibile si fa vedere perché il Segreto è anche Amore. Antinomia che
doveva sistematizzare nel XIV secolo San Gregorio Palamas, per il quale Dio è
totalmente inaccessibile - essenza o sovraessenza - eppure si rende totalmente
partecipabile nelle sue "energie".
Da qui l'importanza nella teologia dell'icona del tema della trasfigurazione e
dell'immagine "non fatta da mano d'uomo".
«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in
disparte, su un alto monte » (la tradizione ha precisato che si trattava del Tabor), « e
fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero
candide come la luce ». Una variante dice: « come la neve » (Mt 17,1-2). Luca
precisa: « candida e sfolgorante » (9,29).
Quando un cristiano, monaco o laico non importa, accede al ministero di
iconografo, il sacerdote recita su di lui l'essenziale dell'ufficio della Trasfigurazione.
I teologi dell'icona non hanno cessato di commentare i testi evangelici consacrati a
questo episodio. Dice Atanasio il Sinaita: « Cosa c'è di più sconvolgente di
vedere Dio nella forma di un uomo, il volto risplendente, radiante più del sole? »
4
.
In Cristo, d'altra parte, il tempo è ricapitolato e l'icona implica memoria e
anticipazione, una sorta di visione che guida la mano dell'artista. "Cristo stesso ha
1
Giovanni Damasceno, Contro coloro che rigettano le sacre icone. Discorsi apologetici contro coloro che calunniano
le sacre immagini, I, 16, tr. it. di V. Fazzo, Roma 1983, p. 45.
2
Giovanni Damasceno, Contro coloro che rigettano le sacre icone. Discorsi apologetici contro coloro che calunniano
le sacre immagini, I, 16, tr. it. di V. Fazzo, Roma 1983, pp. 45-46.
3
Giovanni Damasceno, Contro coloro che rigettano le sacre icone. I, 8, ibid., p. 37.
4
Omelia sulla Trasfigurazione, 1376, pg 84.
5
trasmesso la sua immagine alla Chiesa", scriveva all'inizio della crisi iconoclasta
Giorgio di Cipro (Nouthesia, ed. Mélioniransky, p. XXIII). La memoria di questo
volto - il Santo Volto - è evocata da due racconti significativi: in occidente, quella
del velo con cui Veronica (da vera in latino e eikôn, "immagine", in greco) avrebbe
asciugato il volto di Gesù durante la Via Crucis; in oriente, quella del Mandylion,
un velo anch'esso, sul quale Gesù avrebbe volontariamente impresso la sua
immagine rispondendo al desiderio del re Abgar di Edessa, ammalato.
Effettivamente qualche cosa è stata scoperta ad Edessa nel VI secolo e
trionfalmente portata a Costantinopoli nel 944, qualcosa che ha precisato fin nei
particolari la rappresentazione di Cristo. Un sudario forse, di cui non si può dire
esattamente che legame avesse con la Sindone di Torino, tanto studiata oggi. Più
ampiamente il Volto di Cristo è detto acheropita, "non fatto da mano d'uomo", così
come Maria concepisce in modo verginale, perché la mano dell'artista, se questi si è
preparato con la preghiera e il digiuno, è guidata miracolosamente dallo Spirito
5
.
La proibizione di rappresentare Dio (nell'Esodo e nel Deuteronomio) non vale più
non solo per Cristo. Non vale neanche per sua Madre, per i suoi amici, le membra
del suo Corpo sacramentale. L'uomo creato "ad immagine" di Dio è predestinato a
diventare «conforme all'immagine del Figlio suo» (Rm 8,29), «trasformato in quella
medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore»
(2 Cor 3,18). Egli si deve rinnovare sempre «all'immagine del suo Creatore» (Col
3,10). Fondata nell'incarnazione del Figlio eterno, l'icona si moltiplica tramite la
santificazione degli uomini nello Spirito: le icone della Madre di Dio e del santi
anticipano la trasfigurazione finale: «quando si manifesterà Cristo, la vostra vita,
allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3,4).
È quanto riassume meravigliosamente il ritornello liturgico (kontakion) della
Domenica dell'Ortodossia, prima domenica di Quaresima in cui la Chiesa celebra
solennemente il ristabilimento definitivo del culto delle sacre immagini (dall’ 843):
«L'incircoscrivibile Verbo del Padre, incarnandosi da te, Madre di Dio, è stato
circoscritto, e, riportato all'antica forma dell'immagine deturpata (cioè l'uomo), fusa
con la divina bellezza»
6
.
5
Giorgio di Pisidia, Poemi, in « Studia Patristica et Byzantina », 1960, p, 91.
6
tr. it. Anthologhion II. Roma 2000, p. 596.
6
I teologi dell'icona hanno chiaramente distinto l'icona dall'idolo, sottolineando che
l'icona non pretende affatto di afferrare colui (o colei) che rappresenta: "immagine
artificiale", l'icona non è niente della stessa natura del suo modello. Non appartiene
all'ordine magico del possesso, ma all'ordine propriamente cristiano della
comunione. Non rientra nella categoria del sacramento in cui la materia riceve una
forza santificante, ma rimanda alla categoria della relazione, di un incontro
interpersonale.
Il prototipo, che è divino/umano (Cristo) oppure l'umano deificato (il santo) sfugge
ad ogni opacità e separazione. Al contrario si rende presente e accogliente
nell'immagine che rappresenta la sua "somiglianza". La presenza iconica è dunque
una trasparenza personale, «secondo la somiglianza dell'ipostasi»
7
, cioè della
persona allo stesso tempo unica e in comunione. L'icona permette l'incontro degli
sguardi (da cui l'importanza della pupilla dell'occhio, [Strana coincidenza:
Guillaume Apollinaire nella poesia "Zone" all'inizio della Raccolta Alcools scrive: «
Pupilla, Cristo dell'occhio »] proprio come punto della trascendenza) in cui, più che
guardare, sono io ad essere guardato.
“Sono guardato da uno sguardo di santità, uno sguardo al di là della morte che mi
trascina verso questo aldilà. Uno sguardo da risorto che sveglia in me la mia
resurrezione e l'immagine di Dio come una chiamata alla libertà e all'amore.
L'iscrizione del Nome sull'icona (épigraphé) sottolinea questa relazione con la
persona rappresentata”. Così san Teodoro Studita afferma che l'icona di Cristo è
Cristo, senza la minima confusione magica: «l'immagine di Cristo secondo la
relazione» (Antirrheticus I, 11).
L'icona esige dunque un elemento ritrattistico, alcuni "caratteri" concreti che
distinguono tale individuo « dagli altri individui della stessa specie » (Antirrheticus
III,1,34). La circoscrizione, cioè la possibilità stessa di rappresentare, è « composta
di alcune proprietà » (Antirrheticus III 1, 17). Il paradosso tipico della fede cristiana
è che Cristo da una parte «ricapitola», racchiude in sé tutta l'umanità, eppure la sua
umanità, d'altra parte, sussiste e si lascia vedere « in un individuo preciso »
(atomos) (Antirrheticus II, 18). Ecco perché, nelle icone, da una parte il bambino
Gesù è rappresentato con una fronte alta, segno della Sapienza, e dall'altra l'ipostasi
del Verbo è circoscritta nei tratti individuali di un volto d'uomo. L'arte dell'icona
unisce realismo e astrazione per suggerire, con S. Giovanni, l'identità dell'
7
Teodoro Studita, Antirrheticus II, 3,1
7
umiliazione e dell'elevazione, la morte in croce come vittoria sulla morte. Né
dolorismo dunque, né trionfalismo secondo una concezione umana della gloria.
Nell'essenziale, questa teologia dell'icona ha trovato la sua sintesi nella definizione
(l'horos) del Settimo Concilio Ecumenico, o Concilio di Nicea II (787). Il "modello
rappresentato" deve accordarsi con il Vangelo e l'icona per eccellenza, quella di
Cristo, «serve a confermate l'Incarnazione, reale e non illusoria, del Verbo di Dio».
Così scrittura e icona «rimandano l'una all'altra». Le immagini rinviano
significativamente al mistero della Croce - sempre, contro l'idolo, questa identità
della gloria e della Croce - e di tutto l'insieme del culto di cui l'icona, come abbiamo
detto, fa parte integrante. I gesti e i segni che avvolgono l'icona - il bacio, l'inchino,
la candela e l'incenso - non significano affatto adorazione, che «si deve solo alla
divinità», ma sono i segni della stessa venerazione accordata alla Croce e al
Vangelo. Per due volte l'horos, riprendendo una formula di san Basilio, ricorda che
«coloro che guardano le icone sono guidati al ricordo e al desiderio dei prototipi» e
che «l'onore reso all'icona riguarda il prototipo», di modo che «chi si inchina
davanti all'icona lo fa davanti all'ipostasi (la persona) di colui che vi è
rappresentato».
Attraverso la crisi iconoclasta, l'arte dell'icona si è dunque precisata e purificata per
suggerire, nell'uomo e nel cosmo, la luce trasfigurante del Regno, “quel Regno che
è in noi e in mezzo a noi”, dice Gesù.
La santità anticipa questo regno di cui aspettiamo e prepariamo la piena
manifestazione nella Gerusalemme nuova, la città cubica dalle mura di pietre
preziose che uniscono la più alta densità e la luminosità più grande. Questa luce è
l'essenza della bellezza e la bellezza è un Nome divino, un' "energia" tramite la
quale Dio si "estasia" nella sua creazione; offuscata dalla nostra cecità, è
pienamente ritrovata, diffusa da Cristo, non solo sul Tabor, ma nella notte del
Getsemani e del Golgota.
Si conosce la leggenda della "scelta della fede" da parte di Vladimir, gran principe
di Kyiev, alla fine del X secolo. Si convinse di aderire al cristianesimo di Bisanzio a
causa di ciò che raccontarono i suoi inviati: avevano visto una liturgia nella chiesa
di Santa Sofia, e davanti a tale bellezza non sapevano più, dicevano, se erano in
cielo o sulla terra.
Dunque la bellezza è criterio e prova della verità. Anche nel XX secolo, un grande
scienziato e teologo russo, Pavel Florenskij, scriveva che la Trinità di Rubliev è
8
prova dell'esistenza di Dio. Tale bellezza non è una categoria estetica ma
ontologica, perché nella teologia orientale l'essere ha la sua fonte nella comunione,
l'iconografo è tenuto quindi ad una grande responsabilità ed una grande sobrietà.
Deve superare ogni soggettivismo, ritirarsi nella preghiera, nel digiuno, unire
l'intelligenza e il cuore, favorire nel silenzio l'in- contro con colui o colei che sta per
rappresentare sull'icona. Regole precise determinano la composizione delle scene e
permettono di riconoscere i volti. Il genio creatore, liberato dai fantasmi individuali,
non perde niente: basta pensare alle opere straordinarie di un Teofane il Greco, o a
quelle completamente differenti di un Mahmoud Zibawi, stili iconografici così
diversi secondo la loro epoca e il loro luogo.
Tutto nell'atteggiamento e nell'espressione del personaggio rappresentato deve
indicare la sua intima partecipazione alla "luce taborica". Il corpo, esageratamente
lungo, non è che uno slancio verso il volto segreto, il volto interiore, aperto
simultaneamente a Dio e al prossimo; ed il volto stesso diventa « tutto sguardo »
(Pseudo-Macario, Prima Omelia, 2).
Il più delle volte la rappresentazione è frontale, in segno di presenza e di
accoglienza. Le rocce, come tanti piani, suggeriscono il deserto di questo mondo,
ma per la grazia della santità questo deserto fiorisce in vegetazioni fantastiche. Gli
animali sono stilizzati secondo la loro essenza paradisiaca come nell'arte celtica o in
quella degli sciti. Le architetture, sempre in secondo piano, diventano un gioco
surrealista, sfida evangelica alla pesantezza e alla potenza di questo mondo.
Certo, la rappresentazione della gloria non può che essere simbolica. Ma è
l'originalità di questa arte che fa sì che il simbolo si incorpori al volto e che
l'eternità si inserisca all'infinito nella comunione delle persone senza
spersonalizzare.
Il Concilio Quinisesto (692) riunitosi in oriente, ha proposto che i simboli della
prima arte cristiana (l'Agnello ad esempio), venissero sostituiti da ciò che essi
prefiguravano, ossia il volto umano di Cristo […].
La Gerusalemme nuova, sulla quale si apre l'icona, «non ha bisogno della luce del
sole, né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è
l'Agnello» (Ap 21,23).
Nell'icona, dunque, la luce non proviene da un punto preciso: è diffusa dappertutto
senza creare ombre, come se tutto fosse interiormente illuminato dal sole. Spesso la
prospettiva è rovesciata: le linee non convergono verso un punto di fuga, lì dove si
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chiude lo spazio decaduto che separa e imprigiona, ma si dilatano verso la luce, « di
gloria in gloria ».
Quando l'icona descrive una scena, contrae in una simultaneità liturgica vari
momenti spesso lontani nel tempo. Nell'icona della Natività, ad esempio, si vede,
come in un'armonia gioiosa, l'annuncio degli angeli ai pastori, la cavalcata dei tre
Magi, il Bambino nella grotta (anticipazione della discesa agli inferi del Sabato
santo), ed in braccio alle donne che lo lavano in un modo quasi battesimale. L'icona
non ha soltanto un valore pedagogico, ma anche "misterico", dischiude una
benedizione della Chiesa. Si apre così alla teologia un altra prospettiva oltre a
quella del concetto.
L'arte dell'icona non è affatto estranea alla tradizione occidentale, almeno fino al
Trecento. Dopo, l'occidente che scopre esplora e libera l'umano, preferisce a
quest'arte della trasfigurazione un'arte dell'esodo in cui si esprimono le ricerche, le
angosce, la sensualità, anche le intuizioni dell'umanità, intuizioni che a volte
ritrovano spontaneamente lo spirito dell'icona, da Fra' Angelico a Rembrandt e
Rouault. Oggi il fallimento di una certa arte "religiosa", sentimentalista e pietista,
apre all'icona le chiese cattoliche e anche alcuni templi protestanti. L'icona allo
stesso tempo corrisponde alla cultura dell'immagine e la esorcizza («guardare un
icona è un digiuno degli occhi»). Apre alla teologia delle vie nuove, sostituendo il
concetto che vuole possedere, con il volto che chiama alla comunione.