Il secondo capitolo è dedicato allo sviluppo delle ferrovie
italiane dalle loro origini fino all’Unità, con la costruzione delle
prime tratte ferroviarie ed i risvolti sul piano economico.
Il terzo capitolo prosegue nel trattare dell’evoluzione delle
nostre ferrovie, concentrando l’attenzione sugli ultimi decenni
del XIX secolo, e terminando la trattazione all’anno 1905, anno in
cui la gestione passò allo Stato.
Capitolo 1
L’ECONOMIA IN ITALIA DALL’UNITA’ AL
NOVECENTO.
1.1 Introduzione.
La situazione italiana si presentava, all’indomani dell’Unità,
molto difficile, in quanto vi erano numerosi problemi che andavano
affrontati e risolti.
Il problema immediato riguardava l’organizzazione del
nuovo Stato, se non si voleva compromettere la sua sopravvivenza,
poiché ciascuna delle regioni, che ora componeva il Regno d’Italia,
aveva costituito fino a poco tempo prima un organismo statale a se
stante, con struttura, tradizione, interessi ed esigenze proprie.
Occorreva ridurre ad unità ben otto sistemi metrici e
monetari diversi, urgeva amalgamare e fondere tante legislazioni
diverse, tenti sistemi amministrativi non identici, che il dislivello tra
regione e regione era sensibile: non si poteva mettere sullo stesso
piano la Lombardia, che aveva fruito di amministrazioni avvedute
ed oneste, con lo Stato Pontificio ed il Regno Borbonico che si erano
retti sull’arbitrio e sulla corruzione, su economie del tutto arretrate
che producevano redditi individuali che a stento potevano garantire
la sopravvivenza.
Accanto ai problemi di carattere organizzativo ed
amministrativo erano inoltre presenti i problemi di politica estera, e
cioè dell’annessione delle regioni Veneto e Lazio, rimaste ancora
sotto la sovranità austriaca e pontificia.
A tutto ciò bisogna aggiungere che l’Italia, nel 1861, era un
paese prevalentemente agricolo, mentre l’Europa occidentale era
decisamente avviata all’industrializzazione.
1.2. Popolazione.
L’Italia manifesta, nei primi due decenni dopo il
raggiungimento dell’Unità, una stazionarietà nello sviluppo
demografico della maggior parte dei suoi centri abitati; la
popolazione di quasi tutti gli attuali capoluoghi di provincia oscilla,
intorno al 1881, tra i 15.000 ed i 30.000 abitanti.
Questo arresto nello sviluppo demografico delle città è un
indice quanto mai significativo della stazionarietà di tutta la vita
economica e sociale di una gran parte delle regioni italiane, in cui le
città seguitano ad essere non solo il centro amministrativo,
giudiziario ed ecclesiastico, ma anche economico della campagna
circostante.
Dopo questi due decenni di stazionarietà demografica, la
popolazione iniziò a crescere sensibilmente fino al 1911, questa
crescita però non fu adeguata alle risorse produttive ed alle risorse
dei posti di lavoro disponibili nel Paese.1
1) G. Luzzato, Storia economica dell’età moderna e contemporanea, Padova, 1960.
L’aumento di popolazione fu dovuto essenzialmente alla
crescita naturale, cioè ad un’eccedenza delle nascite sulle morti.
Assistiamo ad una riduzione dei tassi di mortalità e natalità,
riduzione che ebbe luogo prima nelle regioni settentrionali e poi sui
estese a quelle meridionali. I motivi delle minori mortalità erano da
ricercarsi nel miglioramento delle condizioni economiche ed
igieniche delle famiglie, specie nel Nord, e nella riduzione della
mortalità per malattie infettive e parassitarie dell’apparato
respiratorio e digerente.
Il problema fu più scottante per le regioni meridionali,
dove si aveva una diffusa povertà, e meno per le regioni
settentrionali dove negli ultimi decenni dell’ottocento era iniziato un
intenso sviluppo economico.
La crescita demografica significò che l’offerta di
manodopera superò la possibilità di impiego, per cui molti italiani
prima partirono per trovare lavoro nei paesi europei e poi nei paesi
d’oltre oceano.
Il fenomeno dell’emigrazione cominciò ad avere
consistenza economica e sociale proprio dopo l’Unità nazionale.
I motivi dell’espatrio furono diversi a seconda delle regioni
di partenza; si emigrava dalle regioni del Nord per migliorare la
situazione economica raggiunta.
Si partiva dal meridione per sfuggire dalla disoccupazione
ed alla miseria in cui vivevano operai agricoli e fittavoli, stimolati
dall’esempio e dal richiamo degli amici e parenti partiti per primi. 2
2) F. Balletta, Storia Economica sec. XXVIII-XX, Napoli, 1991.
1.3. Agricoltura.
Nel 1861, quando si realizzò l’unità politica della penisola,
il 57% del prodotto interno lordo derivava dall’agricoltura (il 20% si
ricavava dal settore industriale e il 23% dall’attività terziaria), dove
lavorava il 70% della popolazione attiva (il 18% nelle industrie e il
12% nell’attività terziaria) .
Molti politici e studiosi italiani, considerando la bontà del
clima e l’antica civiltà del paese, sperarono in una rapida crescita
della produzione agricola. Le speranze, purtroppo, furono deluse,
poiché, fino al 1890, non si ebbero grandi innovazioni della tecnica
agraria e la produzione rimase quasi stazionaria. Un miglioramento
si registrò solo nell’ultimo ventennio che precedette lo scoppio della
prima guerra mondiale.
Da un esame più minuzioso della produzione agricola si
rileva che, nel primo decennio dell’unità, si registrò un lieve
aumento della produzione dei cereali (grano, mais, avena e riso).
La crescita rallentò nel decennio 1870-1881 e si trasformò
in declino nel decennio successivo. Declino solo in parte compensato
dall’aumento della produzione di agrumi e vino, che venivano
esportati in altri paesi europei e negli Stati Uniti.
Anche la produzione specializzata di maggior valore,
costituita dai bachi da seta allevati in diverse regioni
(principalmente in Piemonte ed in Lombardia), subì un calo dal
1880 in poi.
La crisi derivò maggiormente dalla riduzione dei prezzi
agricoli: i cerali furono colpiti dalla concorrenza dell’America del
Nord e della Russia, il riso dalla concorrenza indiana, e i bachi da
seta da quella della Cina e del Giappone.
Il peso di tale concorrenza fu sentito in molti paesi europei,
tuttavia, in Italia, fu più grave, poiché venne proprio quando fu
abolito (1881) il corso forzoso delle banconote (introdotto nel 1866),
creando un rafforzamento della moneta e un incoraggiamento alle
importazioni.
Per difendersi dalla concorrenza si fece ricorso all’aumento
dei dazi doganali.
Un primo aumento si ebbe nel 1878, ma servì a proteggere
principalmente i prodotti industriali; un secondo si ebbe con la
revisione della tariffa doganale approvata nell’aprile del 1887, che
inasprì ulteriormente i dazi sull’importazione dei prodotti
industriali e fu moderatamente protezionistica solo per alcuni
prodotti dell’agricoltura (cereali e formaggi).
La conseguenza immediata della seconda revisione della
tariffa doganale fu la rottura dei rapporti commerciali con la Francia,
che era la maggiore importatrice dei prodotti italiani.
Dovendo rinnovare il trattato commerciale fra i due paesi,
stipulato nel 1881, i rappresentati dei rispettivi governi non
trovarono un accordo circa il documento base sul quale avviare la
discussione.
Alla vigilia della scadenza del trattato, la Francia decise di
applicare le tariffe di guerra e l’Italia applicò dazi di rappresaglia.
Nel marzo del 1888, l’Italia e la Francia entrarono in piena
guerra commerciale, tanto che, nel giro di pochi anni, gli scambi tra i
due paesi si ridussero alla metà.
La più danneggiata fu l’Italia, che vide dimezzate le
esportazioni di molti prodotti agricoli: vino, seta, riso, bestiame e
formaggio. Le perdite furono solo parzialmente compensate
dall’aumento delle esportazioni dirette in Svizzera, Belgio, Olanda e
Inghilterra.
Indice significativo della crisi agricola italiana fu la
notevole crescita dell’emigrazione verso i paesi transoceanici.
Dal 1896 in poi si assistette ad una crescita sensibile della
produzione agricola italiana: il grano passò da 40 a 57 milioni di
quintali, il riso da 2 a 6 milioni, l’uva da 53 a 94 milioni, gli agrumi
da 5 a 10 milioni.
Un certo calo si ebbe solo nelle produzioni di olio d’oliva e
di bachi da seta. Le ragioni della crescita erano diverse: maggiore
impiego di concimi chimici e macchine agricole; le bonifiche delle
paludi ferraresi, che divennero fertilissime terre coltivate a
seminativi, il miglioramento delle vie di comunicazione interne,
specie con la costruzione di ferrovie e tramvie suburbane.
Positivamente influirono anche la ripresa delle relazioni
commerciali con la Francia e la riduzione delle tariffe doganali.
Durante l’800 non vi furono, in Italia, sostanziali
cambiamenti della struttura della proprietà fondiaria. Essa era
caratterizzata dall’esistenza del latifondo accanto a piccolissimi
appezzamenti, dai quali non si ricavava neanche il reddito per il
mantenimento delle famiglie dei proprietari.
Una certa trasformazione, nell’assetto fondiario, si ebbe
allorché furono messe in vendita, nel 1863, le terre sottratte alla
Chiesa e quelle demaniali (di cui il 40% nell’Italia centrale ed il 60%
in quella meridionale), con l’intento di risanare le finanze delle Stato
e allargare la classe dei piccoli proprietari terrieri.
Il risultato della vendita non portò sostanziali modifiche
nella distribuzione della proprietà. La maggior parte dei piccoli lotti
messi in vendita non avevano quel minimo di autonomia
indispensabile per la vita del proprietario.
Pertanto accadeva, spesso, che il contadino, non potendo
introdurre migliorie o non riuscendo a pagare allo Stato le rate del
prezzo di acquisto, era costretto a vendere la terra a qualche medio o
grosso proprietario, oppure veniva espropriato per morosità.
Così, quelle vendite contribuirono più ad allargare il
latifondo che a diffondere le piccole proprietà.
Inoltre, la vendita delle terre, specie nel quadriennio 1867-
1870, sottrasse all’agricoltura i pochi capitali disponibili che
sarebbero stati di grande utilità per migliorare le colture.
L’assetto fondiario italiano nel 1900 può essere così
delineato:
1) grandi latifondi (diffusi nella maremma toscana, nel Lazio, nelle
Puglie, in Basilicata, in Calabria ed in Sicilia) coltivati con limitati
capitali e con basso rendimento;
2) grandi proprietà (diffuse specie in Lombardia) gestite direttamente
dai proprietari con tecniche colturali moderne e larghi investimenti,
che davano un elevato rendimento per ettaro;
3) medie e piccole aziende (nelle zone costiere della Campania, della
Puglia, della Calabria e della Sicilia) che, per la fertilità delle terre,
davano un buon rendimento;
4) piccole o piccolissime proprietà con scarso rendimento.
Oltre a questa varietà, nella distribuzione della proprietà e nel
rendimento delle terre, il punto dolente dell’economia italiana, in
particolare dell’agricoltura, era rappresentato dal Mezzogiorno.
Il ritardo delle regioni meridionali, rispetto ai progressi
delle regioni settentrionali, era preesistente all’unità nazionale, ma si
accentuò successivamente.
Le tecniche colturali adottate erano arretrate, diffuso era
l’uso dell’aratro di legno, scarsa la concimazione e poco applicata la
rotazione.
In generale, la produttività era molto più bassa di quella
delle regioni del nord.
Dove l’agricoltura fu in grado di specializzarsi, come nelle
fertili terre costiere della Campania e della Sicilia, produttrici di
agrumi e vino, la crisi agraria del periodo 1880-1896 provocò un
netto calo delle esportazioni e una sensibile diminuzione dei redditi.
Superata la crisi non vi furono grandi iniziative per cercare
di incrementare la produzione agricola col miglioramento delle
tecniche di coltivazione. 3
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3) F. Balletta, Storia economica secoli XVIII-XX, Napoli, 1991.