Riassunto
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RIASSUNTO
L’introduzione e il mantenimento delle fasce vegetate tampone rientra all’interno
della legislazione e delle politiche dell’Unione Europea tra le cosiddette “Best
Management Practices” (BMP) con l’obiettivo di proteggere le acque superficiali e
sotterranee dall’inquinamento diffuso derivante dalle attività agricole. In ambito
nazionale i Piani di Sviluppo Rurale incentivano il mantenimento e la creazione di
fasce tampone con finalità ecologiche (salvaguardia e diffusione della biodiversità,
creazione di corridoi ecologici, miglioramento del paesaggio) e di tutela qualitativa
e quantitativa delle risorse idriche superficiali e profonde.
L’obiettivo primario della presente tesi è orientato alla identificazione dei principali
processi che determinano la circolazione e la trasformazione dei nutrienti azotati in
tipologie di fasce riparie poco studiate come quelle prospicienti fontanili e rogge.
Specificatamente si intende valutare la loro capacità tampone nei confronti degli
eccessi di nitrati derivanti dalle pratiche di fertilizzazione sia organica che di sintesi.
L’indagine è stata condotta nella Pianura Padana in cinque siti localizzati in un
contesto agricolo, dal 2008 al 2010. Il monitoraggio del livello di falda superficiale
e il campionamento delle acque sotterranee è stato effettuato nelle stazioni
sperimentali prescelte, con piezometri disposti in transetti trasversali tra il campo
coltivato e il fontanile. La determinazione analitica delle principali specie ioniche
contenute nei campioni acquosi è stata condotta in laboratorio utilizzando tecniche
spettrofotometriche e cromatografiche. Le aree sono state caratterizzate sia per
quanto riguarda gli aspetti idrologici che pedologici e vegetazionali. Lo studio delle
variazioni spaziali e temporali dei livelli idrici sub-superficiali e delle principali
specie ioniche, con particolare riferimento ai nitrati, è stato indirizzato alla
comprensione della natura biotica o abiotica dei principali processi implicati
nell’attenuazione dei nitrati presenti negli acquiferi sottostanti le fasce riparie. La
riduzione del nitrato è stata messa in relazione alle pratiche di fertilizzazione, al
regime idrologico e alla tipologia colturale.
I dati ottenuti evidenziano una situazione eterogenea di apporti di nitrato dal campo
coltivato con aumenti di concentrazione durante i periodi di fertilizzazione sia estivi
che invernali e/o in seguito ad eventi di pioggia. Sono stati registrati valori di
nitrato all’ingresso delle fasce oltre la soglia di potabilità delle acque (50 mg L
-1
),
livelli intorno alla soglia di attenzione (25 mg L
-1
), e casi in cui questa specie
azotata è risultata quasi assente. Il tipo di coltivazione, le caratteristiche idrologiche
e quelle pedologiche influiscono sulle concentrazioni in input dal campo.
L’andamento di alcune specie chimiche (NO
3
-
, O
2
, DOC, NH
4
+
, NO
2
, SO
4
=
)
suggerisce il ruolo importante della denitrificazione batterica nella rimozione del
nitrato. Tale processo, come dimostrato anche in letteratura, avviene in spazi
relativamente ristretti (hot spot) all’interno della fascia riparia, quando si verificano
le opportune condizioni come l’ipossia e una certa disponibilità di nitrato (hot
Riassunto
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moment). In alcuni siti si è osservata una completa rimozione del nitrato con
concentrazioni nell’acqua sotterranea inferiori a 1 mg L
-1
, in altri la diminuzione è
risultata più contenuta (20-50%). La differente efficienza di rimozione dell’azoto è
stata analizzata considerando diversi fattori ambientali come l’ampiezza della fascia
riparia, la morfologia del declivio, la soggiacenza della falda, la tipologia di suolo,
la permeabilità del suolo, la concentrazione di carbonio organico disciolto e la
percentuale di carbonio organico nel suolo. Uno degli elementi chiave è risultato
essere il tempo di permanenza dell'acqua perché favorisce l’interazione delle
popolazioni batteriche con i soluti e consente l’attivazione dei processi biologici.
Tutti i fattori che possono favorire un maggiore tempo di residenza o che sono in
grado di rallentare il flusso dell’acqua sotterranea, come declivi con lieve pendenza
e una bassa permeabilità dei suoli, possono contribuire a migliorare l'efficienza
delle fasce riparie nel tutelare la qualità delle acque favorendo il processo di
denitrificazione.
Dato che studi scientifici che dimostrino il valore ecosistemico delle fasce riparie
sono relativamente scarsi in Italia, i risultati di queste indagini costituiscono
un’importante verifica sperimentale del ruolo e dell’efficacia delle fasce tampone
vegetate lungo i corsi d’acqua del reticolo idrografico minore, naturale e artificiale,
della Pianura Padana. L’argomento è di grande attualità se si considera che la
realizzazione di fasce tampone vegetate nel bacino del fiume Po è prevista
nell’ambito delle attuali pianificazioni e programmazioni territoriali per favorire lo
sviluppo di un territorio più sostenibile dal punto di vista della tutela delle risorse
ambientali.
La presenza diffusa di fasce tampone in grado di intercettare i flussi drenati dai
campi agricoli potrebbe sicuramente evitare un ulteriore peggioramento della
qualità delle acque superficiali e, in una prospettiva ottimistica e a lungo termine,
potrebbe migliorare la qualità dei corsi d'acqua in un’ottica di risanamento previsto
dalla Direttiva Quadro sulle Acque.
Premessa
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PREMESSA
L’inquinamento azotato delle acque superficiali e sotterranee è un problema di
portata mondiale (Galloway, 2005). La contaminazione diffusa dovuta alle pratiche
agricole, in particolare all’uso di fertilizzanti di sintesi, ne rappresenta un caso
particolare ma decisamente significativo in grado di compromettere l’utilizzo delle
riserve di acqua potabile (Kapoor e Viraraghavan, 1997; Ward et al., 2005).
L’interesse non solo scientifico per i sistemi ripari si deve principalmente al
consenso condiviso sulle loro capacità di tamponamento degli eccessi di nutrienti e
di sedimenti (Muscutt et al., 1993; Osborne e Kovacic, 1993; Castelle et al., 1994)
di origine agricola (Peterjohn e Correll, 1984; Haycock et al.,1993; Schoonover et
al., 2005) o prodotti da altre attività umane (Peterson e Rolfe, 1992; Muscutt et al.,
1993; Osborne e Kovacic, 1993). Numerosi studi condotti in Europa e Stati Uniti
(Lowrance et al., 1992; Haycock e Pinay, 1993; Pinay e Burt, 2001; Sabater et al.,
2003, Hefting et al., 2005) hanno dimostrato che le zone riparie possono consentire
una sensibile riduzione del carico di azoto proveniente da fonti diffuse fino al 60-
90%. Ciò consente di proporre e impostare una strategia alternativa per la
protezione degli ambienti acquatici dall’inquinamento proveniente da sorgenti
diffuse, che consiste nel mantenere e/o aumentare la complessità naturale di
specifiche zone del bacino idrografico, come le fasce riparie, in quanto ritenute
cruciali nel ridurre il flusso di contaminanti dal bacino verso i corsi idrici che lo
drenano (Balestrini et al., 2010). Tuttavia, studiare gli ambienti di riva risulta
particolarmente complesso, i campi di indagine sono numerosi e altrettanti i dibattiti
aperti come dimostra la moltiplicazione delle pubblicazioni specializzate e delle
revisioni di letteratura occorsa negli ultimi decenni (fig. 1a). Nonostante le
numerose indagini condotte sull’efficienza delle fasce riparie come strumenti di
protezione della qualità delle acque e degli idroecosistemi (Correll, 1997; Parkin,
2004; Mander e Yoshihiko, 2005; Borin et al., 2005), molti aspetti legati a queste
problematiche non sono ancora spiegati in modo esauriente: l’estrema variabilità
degli ecotoni ripari, soprattutto in relazione ai processi biochimici e idrologici,
rende ostiche le previsioni sul loro efficace funzionamento come strumenti
ecologici di disinquinamento (Balestrini et al., 2011).
La variabilità delle condizioni e degli attributi ambientali si può cogliere a vari
livelli spazio-temporali, e produce altrettante eterogeneità strutturali e funzionali
che rendono lo studio delle fasce riparie una materia multidisciplinare, ossia
razionalizzabile usando vari contesti interpretativi (es. idrologico, ecologico,
paesaggistico e culturale) (Naiman et al., 2005). La situazione, inoltre, si complica a
causa delle discordanze tra le dinamiche istituzionali e quelle ecologiche, dei
disaccordi tra amministratori, portatori d’interessi e comunità scientifica, tra senso
comune ed esigenze economiche (Pellizoni e Osti, 2003; Olivieri, 2006). Lo studio
di ambienti ripariali in agropaesaggi si pone dunque come esempio stringente della
Premessa
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relazione che esiste tra la sfera “naturale” e la dimensione sociale, culturale e
tecnologica (Cunningham et al., 2007). La fascia dei fontanili lombardi, in
particolare, racconta una storia millenaria di modificazione antropica di un
ambiente naturale, che ha “creato” isole di rinaturalizzazione e relittualità, per
sostituzione degli ambienti naturali (le risorgive) con surrogati artificiali (i
fontanili). La storia recente invece, racconta di un eccesso tecnologico sia nella
costruzione e gestione del reticolo idrografico sia delle pratiche agricole, che sta
portando alla scomparsa del connubio seminaturale e sapientemente armonizzato tra
gli ambienti sorgivi di pianura e quelli agricoli tradizionali (Groppali, 2004;
Fumagalli, 2007; Sereni, 2007).
Gli sforzi attuali sono soprattutto volti a conservare e/o riabilitare i fontanili, e
sebbene le preoccupazioni sulla qualità idrica e ambientale rendano preminenti le
considerazioni sul funzionamento delle loro fasce vegetate riparie come filtri e
tamponi ambientali, si enfatizza la molteplice gamma di proprietà e ruoli che
presentano tali microambienti umidi, che li connota come veri e propri elementi
polifunzionali in grado di offrire un’ampia varietà di servizi ecosistemici
(Gomarasca et al., 2005) (fig. 1.b). Per sensibilizzare il produttore agricolo alla
conservazione e alla realizzazione di fasce riparie bisogna però dimostrarne
l’efficacia, e in generale l’utilità, persino nel caso di fasce vegetate ridotte a bordure
di pochi metri tra seminativi e corso idrico. In Italia, ad oggi, sono scarse le indagini
sperimentali sulle aree riparie fluviali e non esistono, risultati relativi al territorio
lombardo da cui si possa trarre una valutazione dei benefici rappresentati dalla
rinaturalizzazione delle sponde dei corsi d’acqua anche in termini di protezione
delle acque. Se i numerosi studi condotti in molti paesi dell’Europa Settentrionale
costituiscono una base di partenza per l’avvio di sperimentazioni analoghe sul
territorio nazionale, essi non sono esattamente estrapolabili alla realtà italiana. I
sistemi fluviali italiani non sono comparabili a quelli nord europei, soprattutto per
quanto concerne gli aspetti climatici, idrologici, vegetazionali e le caratteristiche dei
suoli. Diventa quindi necessario affrontare questo tipo di problematica anche in
Italia. In tal senso, confortanti sono i risultati sull’efficienza depuratrice di strisce
vegetate anche di limitata estensione condotte in varie parti della Valpadana (Borin
e Bigon, 2002; Balestrini et al., 2004 e 2011).
Figura 1 – a) Aumento delle pubblicazioni annue sulle fasce riparie dal 1930 al 2000 (Gumiero e
Sansoni, 2008); b) Alcuni servizi ecosistemici forniti da una fascia riparia in un territorio agricolo,
(Dosskey et al., 1997).
Capitolo 1. Introduzione Agroecologia, agroeosistema e agromosaico
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1. INTRODUZIONE
1.1. AGROECOLOGIA, AGROECOSISTEMA E AGROMOSAICO
L’agroecologia, cioè l’applicazione all’agricoltura delle metodologie tipiche delle
indagini ecologiche (Gliessman, 2002; Groppali, 2004; Tomich et al., 2011) e
l’ecologia dei margini colturali, ossia la comprensione delle interazioni tra coltivi
ed elementi incolti (Marshall & Moonen, 2002), forniscono strumenti concettuali e
operativi che consentono di spiegare la molteplicità scalare delle funzioni svolte dai
sistemi ripari e di sviluppare un’agricoltura che sia da un lato sostenibile e d’altro
canto altamente produttiva ed economicamente conveniente (Gliessman, 2002;
Groppali, 2004). Secondo una formulazione più ampia, l’agroecologia cerca di
comprendere le relazioni tra i processi ecosistemici a livello di coltivo/campo (es.
impollinazione, controllo biologico di biota nocivo, cicli dei nutrienti, sequestro
carbonioso) oltre a fenomeni ambientali più ampi come la perdita di habitat,
l’eutrofizzazione e il cambiamento climatico; inoltre si propone di studiare il
confine che divide molte delle scienze agrarie da quelle sociali, legando la
produzione agricola ad aspetti tecnologici, politici, economici, sociali e culturali del
più ampio sistema alimentare (Tomich et al., 2011).
L’approccio agroecologico considera un qualsiasi sito di produzione agricolo (un
singolo campo, un raggruppamento di seminativi o l’intera azienda agricola) alla
stregua di un ecosistema (Gliessman, 2002; Groppali, 2004), che diviene così
l’unità fondamentale di studio in cui i cicli minerali, le trasformazioni energetiche, i
processi biologici e le relazioni socioeconomiche sono analizzate come un tutt’uno
(Altieri & Nicholls, 2000). Si possono perciò identificare gli agroecosistemi con
sistemi ecologici terrestri realizzati e mantenuti dagli agricoltori per finalità
produttive, deliberatamente semplificati e soggetti a rinnovamento periodico a
causa di distruzioni complete o grossi sconvolgimenti dovuti alle operazioni di
raccolta e alle lavorazioni preparatorie alla coltivazione, ma nel quale si presuppone
avvengano gli stessi processi ecologici di ambienti più complessi e meglio
strutturati (Groppali, 2004; Tomich et al., 2011). A livello puramente teorico segue
che un seminativo dovrebbe ospitare esclusivamente individui coetanei e con
identico patrimonio genetico di una data cultivar alla quale vengono fornite tutte le
sostanze e le cure necessarie al loro sviluppo esclusivo e indisturbato, privo cioè
della concorrenza da parte di altre specie vegetali, dell’uso alimentare che ne fanno
gli animali fitofagi e di eventuali malattie. Ovviamente ciò non avviene ma è
comunque il modello ispiratore della moderna agricoltura intensiva (Groppali,
2008).
Un’impostazione paesistica agevola tuttavia descrizioni a scale più ampie delle aree
agricole rispetto a quella ecosistemica. In sintesi, le zone agricole presentano
profonde interazioni tra usi del suolo e morfologia territoriale che conducono alla
costituzione di mosaici colturali o agromosaici (ISPRA, 2009; Ingegnoli, 2011). Si
Capitolo 1. Introduzione Margini colturali
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constata una certa discordanza nella definizione degli elementi strutturali di un
paesaggio e delle loro configurazioni, purtuttavia vi è un certo consenso nel definire
la matrice come il tipo ecosistemico o d’uso del suolo o sottounità paesistica che
nell’insieme è superficialmente più esteso e che compone principalmente il
paesaggio ecologico (Padoa Schioppa, 1999; Ingegnoli, 2011). A tale matrice
colturale si possono integrare i cosiddetti elementi minori dell’agropaesaggio,
rappresentati in genere da una rete di elementi lineari e da un insieme di elementi
poligonali (tessere, macchie, etc). Questi includono siepi e filari, fasce e macchie
boscate, alberi isolati, zone umide di diversa tipologia, la viabilità campestre, fossi e
coli, i margini dei coltivi (erbosi, nudi, alberati, cespugliati, maritati), i corpi idrici e
le associate zone vegetate spondali, etc. (Marshall, 2002; Groppali, 2004). Tra
questi particolarmente rilevanti sono le aree riparie e i margini colturali poiché in
dette categorie si riconoscono le fasce vegetate riparie dei fontanili; anche se spesso
queste si riducono ad elementi lineari come siepi e filari specialmente lungo l’asta.
1.2. MARGINI COLTURALI
Tra le caratteristiche lineari dell’agromosaico, i margini colturali acquisiscono
un’importanza primaria poiché sono elementi ubiquitari sempre presenti nei sistemi
agricoli europei, sia intensivi convenzionali che tradizionali. Nei primi si tratta per
lo più di sottili strisce inerbite di separazione tra campi limitrofi, a volte costituite
da diverse specie erbacee anche se di solito sono semplicemente l’estensione della
coltura adiacente oppure fasce di suolo nudo, dove possono essere collocati percorsi
di servizio, fossi o coli (Marshall, 2002). Nell’agricoltura d’impostazione
tradizionale, invece, lungo i margini si trovano strisce di vegetazione arboreo-
arbustiva, che formano una rete di siepi e filari tra i campi. Tali coperture in Europa
Nord-Occidentale, parti del Canada e degli Stati Uniti Nord-Orientali sono fra gli
esempi più manifesti di paesaggi chiusi a mosaico. In Francia, il paesaggio a filari
della Britannia e della Normandia ha un nome specifico, il “bocage”, ciò che riflette
anche la sua importanza culturale (Gomarasca, 2002; Marshall, 2002). In Pianura
Padana un sistema tipico a campi chiusi, simile al bocage è il paesaggio della
piantata padana (Gomarasca, 2002; Sereni, 2007). Nello specifico della tesi, è
consono chiarire il significato attuale dei margini colturali o campestri, per due
motivi: perché spesso le aree riparie delle aste dei fontanili sono ridotte a scarne
zone marginali a ridosso dei coltivi (anche se possono presentarsi come strisce e
aree arborate e/o cespitose inter ed intra-coltivo); e perché è utile per la corretta
applicazione dello standard di fascia vegetata tampone definito nel decreto
ministeriale 27417 del 22/12/2011 (Mipaaf, 2011a).
I margini colturali sia nelle terre arative che pascolative sono tipizzati per via del
possesso di qualche forma di struttura di confine, generalmente con vegetazione
erbacea associata adiacente al coltivo (Marshall & Moonen, 2002). La struttura
generale dei margini colturali, secondo un moderno approccio di conservazione
biologica, può essere composta dalla giustapposizione di tre componenti principali:
il confine di campo, la striscia di confine e il bordo del coltivo (Marshall, 2002).