3.2-La matematica come metafora
La presenza della matematica, come si è detto in precedenza, è centrale
nella Commedia, tant'è che ad essa sono stati dedicati studi precisi. È bene
ricordare ancora una volta, però, che essa è sostanzialmente impiegata come
metafora, riconducendo ad un campo di esperienza condiviso con il lettore
concetti che il poeta, data l'elevata difficoltà della materia trattata nel poema,
riteneva di dover chiarire in un modo immediatamente comprensibile. Ma al di
là di questo è comunque interessante osservare da vicino le conoscenze
matematiche di Dante, così come non si può fare a meno di notare quanta
importanza abbiano per lui i numeri e i rapporti che si stabiliscono tra di essi,
intesi come base dell'opera divina; in questo pensiero non si può non ricordare
le celebri parole di Galileo quando parla della sua teoria dei due libri, l'uno,
quello della religione, scritto con le parole di dio, l'altro, quello della filosofia
naturale, “[...] scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi
ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne
umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro
labirinto”
54
.
3.2.1-L'aritmetica
Cominciamo dall'aritmetica. Una particolare importanza rivestono per
Dante i numeri primi, ai quali spesso associa metafore religiose:
“Quell' uno e due e tre che sempre vive
e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno,
non circunscritto, e tutto circunscrive”
(Par. XIV , 28-30)
54 G. Galilei, Il Saggiatore, cap. VI
77
Gli attributi divini sono rappresentati usando i primi numeri interi: una
sostanza (la divinità), due nature (l'umana e la divina nella persona di Cristo) e
tre persone: Padre, Figlio e Spirito Santo.
Un altro riferimento lo troviamo ancora nel Paradiso:
“Tu credi che a me tuo pensier mei
da quel ch’è primo, cosi come raia
da l’un, se si conosce, il cinque e’l sei”
(Par. XV 55-57)
Qui è Cacciaguida, l'illustre avo del poeta, a parlargli (parafrasi mia): “Tu
credi che il tuo pensiero si riveli a me da Dio, così come dalla conoscenza del
primo numero deriva quella di tutti gli altri”. Si noti che con l'espressione “il
cinque e ’l sei” Dante indica genericamente i numeri successivi al primo;
qualcosa di simile accade oggi con la notazione n, che indica genericamente i
numeri naturali.
Una curiosità: quando esprime una quantità molto grande Dante non usa
mai numeri più grandi delle migliaia. Questo perché la numerazione nel
Medioevo era ancora legata a quella dei latini, nella cui lingua i milioni e i
miliardi, in mancanza di termini specifici che li connotassero, venivano resi
con perifrasi che coinvolgevano i multipli delle migliaia, come per esempio
“decies centena milia”, cioè “dieci centinaia di migliaia”. Vediamo alcuni
esempi di come Dante non vada solitamente oltre le migliaia: nel caso del
numero delle ombre dei lussuriosi,
“Vedi Parìs, Tristano; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille”
(Inf. V , 67-69)
78
quello dei diavoli all'ingresso nella Città di Dite,
“Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?»”
(Inf. VIII, 82-85)
quello delle anime degli epicurei nelle arche infuocate,
“Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è 'l secondo Federico
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio»”
(Inf. X, 118-120)
il frastuono che l'uomo pensoso, assorto, non sente,
“O imaginativa che ne rube
talvolta sì di fuor, ch'om non s'accorge
perché dintorno suonin mille tube”
(Purg. XVII, 13-15)
quello dei beati del Cielo di Mercurio
“Vid' io ben più di mille splendori
trarsi ver' noi, e in ciascun s'udia:
Ecco chi crescerà li nostri amori”
(Par. V , 103-105)
79
e nella Candida Rosa,
“Sì, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi là su fatto ha ritorno”
(Par. XXX, 112-114)
e, infine, quello degli angeli che circondano la madonna
“E a quel mezzo, con le penne sparte,
vid' io più di mille angeli festanti,
ciascun distinto di fulgore e d'arte”
(Par. XXXI, 130-132).
Arriviamo ora ad un passo molto famoso, tratto da un aneddoto altrettanto
conosciuto:
“L’incendio suo seguiva ogni scintilla;
ed eran tante, che ‘l numero loro
più che ‘l doppiar delli scacchi s’immilla”.
(Par. XXVIII 91-93)
Qui Dante realizza un piccolo grande capolavoro, attraverso un'arte in cui
eccelle: condensare in una terzina un'intera storia, realizzando immagini di
enorme potenza immaginativa ed emotiva. Il poeta deve scegliere un numero
molto grande per quantificare le schiere degli angeli, e per farlo realizza un
parallelo con il gioco degli scacchi, precisamente con l'avvenimento che
sarebbe alla base della loro nascita. Narra la leggenda infatti che il re di Persia,
80
tediato dalla mancanza di un adeguato passatempo con cui trascorrere le
lunghe giornate di otium, avrebbe chiesto ai suoi sudditi di ingegnarsi per
porre rimedio alla situazione, promettendo laute ricompense. Giunta alle sue
orecchie tale promessa di ricchezza, il matematico Sissa Nassir avrebbe così
realizzato il celeberrimo gioco. Conquistato il sovrano con la sua creazione, e
avendogli quest'ultimo promesso di soddisfare qualunque suo desiderio,
l'arguto (e sfacciato) scienziato gli avrebbe chiesto una ricompensa
apparentemente modesta, ossia un certo numero di chicchi di riso che si
realizzava mediante una progressione geometrica: un chicco per la prima
casella della scacchiera, due per la seconda, quattro per la terza e così via.
Dato però che le caselle sono sessantaquattro, il numero finale risultante è
ovviamente 2
63
+1, ossia 1,8447 x 10
19
, che possiamo altrimenti leggere come
18.446.744.073.709.551.615: per ottenere una simili quantità di riso
bisognerebbe coltivare tutta la superficie terreste, compresa quella bagnata
dall'acqua, per 51 anni. Il re, una volta scoperto il valore della richiesta di
Sissa Nassir, e probabilmente sentendosi preso in giro, lo avrebbe fatto
decapitare, ponendo così fine alla questione in un modo molto più sbrigativo.
Dante non poteva calcolare il risultato, ma poteva facilmente intuirlo,
anche perché evidentemente conosceva la progressione geometrica. C'è però
chi ritiene che con il termine immillarsi egli avesse voluto esprimere
qualcos'altro: traendo ispirazione da un passo della “Summa Theologica” di
Tommaso d'Aquino, “Multitudo angelorum trascendit omnem materialem
multitudinem”
55
, “La moltitudine degli angeli supera ogni moltitudine
materiale”, è possibile che Dante abbia voluto intendere non le potenze del
due, ma quelle del mille, sicché gli angeli invece che raddoppiare si
moltiplicano per mille. Detto in linguaggio matematico, si tratta di trovare la
somma dei primi 64 termini di una progressione geometrica il cui primo
termine è 1 e la ragione vale 1000: un numero impossibile, dato che la massa
55 CXII, 4
81
in grammi dell'universo oggi conosciuto arriva fino a 1058, e il numero di
protoni nell'universo conosciuto giunge fino a 1081, e quelli della moltitudine
angelica supererebbero questi valori.
3.2.2-L'algebra
Riguardo all’algebra possiamo trovare un chiaro riferimento ad essa nel
dialogo che Dante e Beatrice tengono al loro arrivo nel Primo Mobile. Così
dice la donna:
“Non è suo moto per altro distinto,
ma li altri son mensurati da questo,
sì come diece da mezzo e da quinto”
(Par. XXVII, 115-117)
Con questa metafora egli intende dire che il movimento del Primo Mobile
non è determinato da qualcos'altro, mentre esso causa quello di tutti gli altri
cieli, nella stessa misura con cui il dieci è misurato da mezzo e da quinto, cioè
è il prodotto della moltiplicazione tra il cinque, la sua metà, e il due, la sua
quinta parte. Il riferimento algebrico sta nel fatto che il poeta pone questa
moltiplicazione sotto forma di espressione, la cui incognita “x” ha per metà
x/2 e per quinta parte x/5:
x/2 • x/5=x → x
2
-10x=0 → x(x-10)=0 → x
1
=0 → x
2
=10.
3.2.3-Il calcolo delle probabilità
Quando Dante cerca di farsi spazio tra la calca dei negligenti periti di
morte violenta, che gli chiedono di una preghiera per abbreviare la loro
permanenza nell'Antipurgatorio, stabilisce un parallelo con una scena di vita
82
quotidiana:
“Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
con l'altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;
el non s'arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.
Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa”.
(Purg. VI, 1-12)
Dante quindi paragona sé stesso a un tale che ha vinto al gioco della zara,
ed è ora circondato da una folla che cerca di ricavare qualcosa dalla generosità
del fortunato. Che cos'è la zara? È un gioco d'azzardo in cui i giocatori devono
indovinare il risultato, ammesso tra 7 e 14, del lancio di tre dadi. È quindi
evidente che il poeta si riferisce a qualcosa che ha a che vedere con le
probabilità, ma il calcolo propriamente detto di queste ultime è una scienza
tutta moderna, nata a cavallo tra il '500 e il '600 dall'opera, tra gli altri, di
Pascal e Galileo. In ogni caso però sicuramente esistevano già conoscenze
empiriche intorno alle probabilità, desumibili da eventi della vita di tutti
giorni, come ad esempio i giochi con i dadi: Dante infatti sa bene che questo è
un gioco d'azzardo perché i numeri non hanno tutti la stessa probabilità di
uscire, infatti per i numeri 10 e 11, che sono al centro dei valori limite
ammessi dal gioco, le probabilità sono maggiori, mentre il 3 e il 18, che da
83
detto limite sono esclusi, hanno quella minore, perché prevedono delle
combinazioni composte o da tre volte 1 o da tre volte 6. Ma nonostante ciò,
ovviamente, non vi è alcuna certezza del risultato, come sa bene il perdente.
3.2.4-La geometria
La geometria, lo abbiamo visto in precedenza, è per Dante scienza
esattissima e nobilissima: è ovvio, quindi, trovare nella Commedia numerosi
riferimenti ad essa. Cominciamo da questo, in cui il poeta si riferisce al punto
geometrico:
“Un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che 'l viso ch'elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;
e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca”.
(Par. XXVIII, 16-21)
Il punto che acceca chi lo guarda, pur essendo tanto piccolo da far
sembrare, al confronto, qualsiasi stella grande come la luna, è dio; Dante
sceglie proprio il punto euclideo perché esso è privo di dimensioni, indivisibile
e immateriale, esattamente come la divinità dantesca, che forse si basa su un
passo di San Tommaso: “Ens omnino simplex, maxime Ens et maxime
Indivisum”
56
, “Ente assolutamente semplice, sommamente Ente e
sommamente Indivisibile”.
Altrove il poeta parla degli strumenti del geometra, come ad esempio il
compasso, nel XIX canto del Paradiso, nel dialogo con l'Aquila formata dai
56 Summa Theologica, I iii 7; I xi 3
84
beati nel Cielo di Giove:
“[...] Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto”
(Par. XIX, 40-42).
Il compasso è detto sesto perché poteva essere aperto fino ad un sesto di
cerchio, cioè fino a 60°. Qui la metafora geometrica coinvolge nientemeno che
dio stesso, colto nell'atto di tracciare il confine (“lo stremo”) del mondo come
un architetto con il suo progetto.
Torniamo per un attimo a Cacciaguida, l'avo dantesco già incontrato a
proposito dei numeri primi. Quando Dante lo vede gli dice che egli, mente
spirituale, vede gli eventi futuri prima che avvengano con la stessa chiarezza
con cui lui, mente terrena, vede in un triangolo non possono esserci due angoli
ottusi:
“O cara piota mia, che sì t'insusi,
che come veggion le terrene menti
non capere in triangol due ottusi,
così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti”
(Par. XVII, 13-18).
Per spiegare il passo occorre chiamare in causa il teorema XVII del I libro
degli Elementi di Euclide, detto quinto postulato di Euclide, secondo il quale
per un punto fuori di una retta passa una e una sola retta parallela alla retta
data. Dato il triangolo ABC, per C si conduca l'unica parallela ad AB permessa
85