2
Il distacco tra il “paese legale” e “il paese reale” era infatti il tema dominante dell’analisi e
della preoccupazione di molti politici e intellettuali che , a loro volta, erano divisi sulle
soluzioni da adottare. “Nel dopoguerra, la proposta d’integrazione offerta dal fascismo con
la nazionalizzazione delle masse, costituì, dopo il fallimento del tentativo rivoluzionario
socialista, la prima iniziativa d’integrazione delle masse nello stato”.
1
Il fascismo si sforzò di costruire un complesso di organizzazioni più o meno diffuse, il cui
fine principale era quello di suscitare un sentimento ed uno spirito comune.
Anche le masse femminili rientravano in questo progetto.
Il problema del consenso e della sua formazione, nonché dell’adesione al regime, è una
questione estremamente dibattuta all’interno del rapporto tra italiani e fascismo.
Secondo Victoria De Grazia, almeno per quel che riguarda le donne la questione è
irrisolvibile: cogliere la diversità dell’esperienza femminile e nello stesso tempo indicare le
forme aperte e subdole con le quali il fascismo proponeva nuove nozioni di femminilità e di
cittadinanza per le donne, significa rompere con alcuni stereotipi diffusi negli studi sul
regime: “Mi riferisco in primo luogo alla domanda se le donne abbiano appoggiato il
fascismo. Se con appoggio si intende consenso la questione è irrisolvibile, dal momento che
in un regime autoritario non esiste la possibilità di esprimere liberamente la propria
opinione.”
2
Inoltre, sempre secondo De Grazia, è un’eccessiva semplificazione parlare delle donne
italiane come di un solo soggetto. Vi erano forti differenze di classe e di cultura. Vi erano
donne disinvolte e cosmopolite che si riunivano nei salotti raffinati di Roma e Milano come
la scrittrice Margherita Sarfatti, e donne di campagna invecchiate anzitempo che avevano
una famiglia di sei e più persone e sottostavano alla volontà del “capoccia”, cioè del
mezzadro che dirigeva la famiglia con stile tipicamente patriarcale. Vi erano donne di città
che leggevano i rotocalchi di stampo vagamente americano, e donne di città di educazione
cattolica che si dedicavano alle pratiche di devozione al Sacro Cuore di Gesù.
3
1
Cfr. D. Veneruso, L’Italia fascista 1922-1945, Il Mulino, Bologna, 1996, pag. 175
2
De Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio Editori, Venezia 1993, pag. 33
3
Ivi, pag. 31-32
3
Altrettanto importanti erano le differenze generazionali. Le incomprensioni tra le donne che
negli anni trenta raggiungevano la mezza età e quelle che stavano diventando adulte, erano
accentuate dal diverso modo di rapportarsi alla cultura di massa e dal culto della giovinezza
tanto propagato dal fascismo.
4
Già la guerra aveva scosso profondamente la società scavando un fossato tra le vecchie e le
nuove generazioni femminili. Il fascismo accentuò questa divisione esaltando il mito della
giovinezza, che veniva così contrapposto al passato liberale considerato vecchio e superato.
La donna nuova si confrontava con nuove abitudini di consumo e coglieva le occasioni di
vita sociale offerte dalle organizzazioni fasciste e cattoliche. Pur sottoposta alla gerarchia
maschile si rapportava ai nuovi modelli di gestione della famiglia e di educazione dei figli,
imposti dal regime. Ovviamente si trattava di forme di socializzazione coatta che
rientravano nell’insieme delle politiche riguardanti la crescita demografica, il mercato del
lavoro, i programmi educativi, scolastici e culturali.
Alla svolta del nuovo secolo, sia in Italia che nel resto del mondo le donne erano divenute
non solo più visibili, con l’immissione sul mercato del lavoro, ma anche più insistenti nelle
richieste di emancipazione e tutela dei propri diritti.
Alla vigilia del primo conflitto mondiale nella pubblicistica dell’epoca di discuteva della
donna nuova, mentre dagli Stati Uniti – centro e vaporiera del progresso moderno, scenario
sia delle opere femminili più attive che delle trasgressioni più folli – giungevano segnali
allarmanti e confusi. Si parlava di divorzio, di diffusione delle pratiche di controllo delle
nascite, d’innalzamento dell’età matrimoniale, di famiglie nuove, di sovvertimento di
collaudati e secolari stereotipi sul maschile e sul femminile: “tutti fattori di trasformazione
imputabili ad un’unica causa: la ridefinizione dei rapporti tra pubblico e privato e la
conseguente presenza della donna in ambiti di esclusiva pertinenza maschile”
5
.
L’immagine di donna moderna “american style”, autonoma e libera, che poteva lavorare e
istruirsi, proveniva proprio dagli USA, dove la donna era stata liberata da molti lavori
onerosi grazie anche al miglioramento delle tecnologie.
4
Ivi, pag. 32
5
Cfr. N. F. Cott, La donna moderna stile americano: gli anni venti, in G. Duby - M. Perrot, Storia donne in Occidente.
Il Novecento, pag. 99
4
Anche in Italia, si avvertiva la necessità di costituire una tipologia femminile nuova, ma nel
contempo non si voleva raggiungere l’estremizzazione americana, e quindi era necessario
un modello che a quest’ultima si contrapponesse positivamente.
Tale necessità di un nuovo modello femminile era avvertita come non più procrastinabile.
“Un’operazione non facile, né tanto meno rapida, che conobbe anzi fasi alterne, culminate
nell’accelerazione impressa dalla Grande Guerra”
6
.
Nel corso della Grande guerra infatti le donne diventarono protagoniste nel campo del
lavoro, sia nell’industria che nell’agricoltura, sostituendo anche gli uomini al fronte, mentre
le Associazioni femminili, laiche e cattoliche, si attivavano nei settori dell’assistenza ai
soldati in guerra e alle loro famiglie, proseguendo un’attività che aveva caratterizzato le
emancipazioniste dell’ottocento.
Nel periodo pre-fascista la questione femminile aveva sollevato grande interesse nelle fila
del movimento socialista italiano portando alla ribalta la questione dell’emancipazione
femminile: la parità dei diritti e dei salari, il suffragio universale, ed altri temi ancora erano
al centro del programma politico del socialismo internazionale.
Il movimento liberale non diede alle donne la stessa attenzione, anzi alla luce della difficile
situazione economica e politica del Dopoguerra, liquidò le lavoratrici che parteciparono alla
produzione industriale durante la Prima guerra mondiale relegandole nuovamente
all’interno delle mura domestiche in modo che lasciassero il posto agli uomini di ritorno dal
fronte.
Ma, come ha rilevato Franca Pieroni Bortolotti, che a lungo si è occupata del femminismo
italiano, il prezzo pagato dai governi democratici per la mancata attenzione alle
problematiche femminili, fu alto: “infatti, di lì a poco, in Italia sarebbe stato il fascismo, la
controrivoluzione, ad utilizzare il femminismo per disgregare la democrazia in Italia: prima,
conquistandolo dall’interno, attraverso i gruppi nazionalisti, le società femminili; poi,
passando al loro scioglimento, quando esse rifiutavano il protettorato fascista.”
7
Fu dunque il fascismo che ricostruì a suo modo un saldo rapporto fra donna e politica, fra
donna e nazione, fra donna e patria, e che elaborò per lei un progetto politico che ridefinì i
suoi spazi pubblici e privati.
6
Cfr. H. Dittrich-Johansen, Le Militi dell’idea. Storia delle organizzazioni femminili del PNF, Leo S. Olschki, 2002,
pag. 22-23
7
F. Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile in Italia. 1892/1922, Gabriele Mazzotta editore, Milano, 1974,
pag. 10
5
La ricerca spasmodica del riconoscimento di una specifica missione femminile nella vita
pubblica moderna aveva indotto diverse donne emancipazioniste di varia estrazione ad
aderire al nazionalismo durante la guerra, e di lì a poco a dimostrarsi sensibili alle sonanti
dichiarazioni di Mussolini, secondo le quali “la cittadinanza femminile sarebbe stata presto
raggiunta con la ricostruzione di una nuova società, quella fascista”.
8
Il progetto politico fascista mirò alla formazione di una “Nuova italiana”, la donna fascista,
attraverso il cambiamento coatto della sua dimensione quotidiana e dei suoi aspetti
personali ed intimi : la sua sessualità, la sua formazione, il suo inserimento nel sociale.
Il Regime cercò di formare il suo tipo di donna ideale non soltanto discriminando
l’educazione e gli sbocchi professionali, ma anche occupandosi di trucco, cipria, belletti ed
infine scatenando congiuntamente alla Chiesa una guerra ai pantaloni. Gaetano Polverelli,
che nel 1931 diventò capo dell’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio, inviava
direttive a ogni giornale per stabilire come doveva apparire la donna fascista: “…deve
essere fisicamente sana, per poter diventare madre di figli sani, secondo le regole di vita
indicate dal Duce”
9
Attraverso le cerimonie pubbliche quasi mistiche da Palazzo Venezia, il Duce riuscì a
attirare le masse femminili per un lungo periodo, promettendo loro una nuova collocazione
nella società fascista.
In un primo momento egli chiese alla donna italiana di essere madre prolifera e sposa
consenziente, angelo del focolare e brava domestica, sempre sottomessa alla gerarchia del
marito, tutti ruoli assolutamente conservatori dello status quo.
Fu soprattutto questo modello di donna-madre ad essere sostenuto dalla forte retorica a cui
si unirono una serie di interventi legislativi come la creazione della Federazione fascista
delle massaie rurali. Questa organizzazione, strettamente dipendente dal partito e che
raccolse progressivamente centinaia di migliaia di iscritte, era deputata al compito
ideologico di valorizzare il ruolo tradizionale della donna contadina “regina del focolare”, e
perno della famiglia, nucleo essenziale della stabilità delle campagne; d’altro canto “la
federazione fu anche la prima grande organizzazione di massa femminile nelle campagne,
che stimolò una qualche partecipazione civile delle contadine”
10
.
8
Cfr. De Grazia, Le donne nel regime fascista, pag. 47
9
G.B. Guerri, Fascisti Gli italiani di Mussolini, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1995, pag. 187
10
Cfr. N. Revelli, L’anello forte. La donna: storie di vita contadina, Einaudi, Torino, 1985, pag. 27
6
Lo sforzo di coinvolgere le donne nel processo di fascistizzazione della società non rimase
confinato alle campagne; si dispiegò con molta energia nelle città dapprima attraverso
l’organizzazione dei Fasci Femminili, preposti all’affermazione della concezione fascista
della donna, antiemancipazionista e sessista; successivamente videro la luce una serie di
opere di assistenza e di servizi sociali, quali ad esempio l’O.N.M.I., Opera Nazionale per la
protezione della maternità e dell’infanzia.
Attraverso queste associazioni cominciarono a circolare nuove pratiche educative e
igienico-sanitarie, che stimolarono impulsi modernizzatori nei costumi sociali e nella
mentalità collettiva e si tradussero nel riconoscimento di alcuni elementari diritti per la
donna: dagli asili d’infanzia alla tutela della donna lavoratrice, dall’istruzione ad
un’autonoma vita associativa.
11
Negli anni trenta il Duce chiamò la donna alla partecipazione attiva, alle adunate, alle
marce, alla costruzione di una Grande Nazione. Nacquero così il Dopolavoro e le
organizzazioni sportive, dove le donne, ovviamente sotto stretto controllo maschile,
svolgevano funzioni assistenziali e addirittura sviluppavano una coscienza di razza che
sarebbe servita poi a distanza di tempo come supporto ideologico per la politica coloniale.
Si trattò di una vera e propria politica per la formazione della donna che veniva istruita
nell’economia domestica, nell’educazione all’infanzia, nell’assistenza sociale ed educata
alla salute e a una sana maternità attraverso l’introduzione dell’educazione fisica e dello
sport femminile.
Se da un lato il fascismo condannava tutte le pratiche sociali connesse con l’emancipazione
femminile, dal voto al lavoro extra-domestico, al controllo delle nascite, dall’altro, nel
tentativo di accrescere la forza della nazione si vide costretto ad utilizzare tutte le risorse
disponibili compresa la risorsa “donna” e così finì per promuovere quegli stessi
cambiamenti che cercava di evitare.
Emerge qui l’ambivalenza propria degli organismi di massa promossi dal Regime che in più
di un’occasione sono stati messi in evidenza dai sociologi: da un lato, infatti, tali organismi
erano istituiti con l’intento di realizzare un controllo sociale, dall’altro per costituire delle
occasioni di ascesa sociale per le classi intermedie a cui spesso era affidata la loro direzione
politica; per contro, però, “essi contribuirono spesso ad attivare processi di reale
11
Cfr. De Grazia, Le donne nel regime fascista, pag. 326-327
7
modernizzazione della società dagli esiti imprevedibili e soprattutto costituirono uno
strumento di partecipazione e di presa di parola da parte dei soggetti sociali coinvolti, in
forme e modi del tutto contrari agli interessi del regime stesso.
12
La mobilitazione di massa, la modernizzazione dei servizi sociali e negli anni trenta il
militarismo minavano di fatto le basi del concetto tradizionale di donna e famiglia.
Al fascismo aderirono subito le donne giovani e delle città in quanto erano più vicine
all’ondata rivoluzionaria ed emancipazionista proveniente dall’Europa.
Il fascismo femminile fu all’inizio, come quello maschile, un fenomeno urbano e di
provenienza piccolo-medio borghese. Le fasciste della prima ora vedevano nel progetto
fascista, l’alternativa al vuoto lasciato dal liberalismo.
“Il primo fascio femminile d’Italia venne fondato a Monza da Elisa Savoia nel marzo 1920.
Verrà sciolto lo stesso anno insieme ad altri fasci femminili, poi ricostituiti nel 1921, dopo
aver eliminato le forze femminili considerate moralmente e politicamente malsane.”
13
Le donne del primo fascismo si confondevano nelle avanguardie femminili europee
dell’immediato dopoguerra, che cercavano di utilizzare il patrimonio politico
dell’emancipazionismo e del suffragismo del primo Novecento e il riconoscimento del
massiccio apporto della manodopera femminile durante la guerra per ottenere il diritto di
voto, l’eliminazione di una serie di vincoli di tutela paterna e maritale e gli ancora numerosi
divieti d’accesso alle donne a numerose professioni e più in generale alla piena acquisizione
della cittadinanza.
14
Queste donne, diverse per idee, provenienza ed esperienze, costituirono una opportunità
irripetibile per il fascismo che ne sfruttò abilmente la passione, l’intelligenza ed il carisma
per diffondere le sue idee.
Nel 1919-20 il Duce si fece carico delle richieste avanzate dalle donne, assumendo anche
posizioni rivoluzionarie che però ebbero breve durata : emblematica la questione del diritto
di voto, le cui limitazioni e discriminazioni esprimono in realtà molto bene l’ostilità del
fascismo all’emancipazione femminile.
12
Cfr. A. De Bernardi, Il fascismo e le sue interpretazioni, Bruno Mondadori, Milano, 1998, pag. 76
13
A. De Bernardi-Scipione Guarracino, Dizionario del fascismo, Bruno Mondadori, Milano 1998, pag. 260
14
Cfr. P. Dogliani, L’Italia fascista 1922/1940, Sansoni Editore, Milano 1999, pag. 97
8
E’ questione controversa quella del consenso delle italiane al regime; senz’altro non fu un
consenso spontaneo, ma permeato di un carattere coatto ed indotto.
Nell’adunata del 23 marzo del 1919 a Milano, Mussolini esponendo il programma di San
Sepolcro, sostenne il diritto di voto attivo e passivo per le donne (elettrici ed eleggibili).
Non bisogna dimenticare inoltre l’influenza che la Chiesa esercitava sulla società italiana di
allora. Il Duce, sebbene di formazione laica, fu sempre attento a rassicurare la Chiesa e a
evitare conflitti importanti tra gruppi cattolici e organizzazioni fasciste.
Sulla questione femminile le posizioni della Chiesa furono senz’altro di supporto ideologico
al regime; la continuità della tradizione e la subordinazione della donna all’uomo erano alla
base del dogma religioso.
Il rapporto tra donne e regime non fu lineare, né statico o omogeneo, ma in continuo
divenire. Nel corso degli anni subì forti trasformazioni che produssero un’evidente
contraddizione : da un lato una serie di tentativi miranti ad escludere le donne dalla società -
le disposizioni in materia di voto amministrativo e le norme sul lavoro -; dall’altro
un’incessante necessità di coinvolgere le masse femminili all’interno della struttura sociale
attraverso il loro inquadramento in molteplici organizzazioni fasciste.
Questa duplice direzione politica corrispondeva all’esigenza di non turbare gli equilibri
sociali fondati sull’autorità maschile.
L’uscita dalle pareti domestiche durante il fascismo non portò però all’emancipazione delle
donne ma alla nascita di nuovi doveri verso la famiglia e lo stato.
E fu proprio l’avversione a questo modello profondamente autoritario e sessista che fece da
collante tra le donne attive nel movimento emancipazionista femminile successivo alla
seconda guerra mondiale.
Ciò che più unì le donne nel dopoguerra non fu tanto una qualche sensibilità femminile
comune, quanto piuttosto il fatto di reagire tutte ad un sistema di dominio. Allo stesso
modo, “il sistema fascista condizionò profondamente in modo in cui le donne nei decenni
successivi immaginarono il proprio destino, espressero il proprio malcontento,
rivendicarono i propri diritti”.
15
15
Cfr. V. De Grazia, Il patriarcato fascista, in G. Duby - M. Perrot, Storia delle donne in Occidente. Il Novecento, pag.
171-172
9
Le esperienze compiute durante il periodo fascista influenzarono dunque il modo in cui la
donna partecipò alla vita politica dopo il fascismo. Il diritto di voto finalmente conquistato
nel 1946, l’entrata massiccia nel mondo del lavoro industriale e terziario, fecero riemergere
con più forza l’eredità lasciata dal primo femminismo degli inizi del novecento, invano
sedata nel ventennio fascista.