alla quale si può proprio asserire che compie un bel passo indietro. Se le specifiche
normative nazionali, infatti, hanno apprestato nel corso del tempo nuovi strumenti di
azione e tutela non solo formale, ma anche sostanziale, sia pure con limiti e lacune e
tra non poche difficoltà, il decreto in questione sembra abbandonare totalmente tale
direzione. Insomma, dall’introduzione di strumenti volti al conseguimento di risultati
concreti, si torna all’emanazione di una normativa di mera tutela e parità formale,
sostanzialmente già perseguita nel corso del tempo, senza mostrare alcuna volontà di
conseguire, invece, vere e proprie pari opportunità fra i lavoratori.
Alla luce di tali considerazioni, si è voluta strutturare la presente trattazione in quattro
parti.
La prima suole fornire una visione d’insieme del rilevante fenomeno discriminatorio
sui luoghi di lavoro, sia dal punto di vista quantitativo sia sostanziale, facendo
emergere in tutta la sua forza la fragilità delle tutele predisposte dal decreto
216/2003, che, anziché continuare a spianare la strada nella ricerca di soluzioni
sempre più efficaci ed idonee ad arginare il fenomeno discriminatorio, sembra
annullare l’impegno profuso in tale direzione nel corso del tempo.
Nella parte II, dedicata all’illustrazione delle singole ed eventuali cause di
discriminazione in ambito lavorativo, attraverso un’analisi delle specifiche normative
in vigore concernenti i vari settori di indagine, la quale evidenzia i piccoli passi in
avanti mossi nella lotta alle discriminazioni, si rafforza la critica negativa elevata nei
riguardi del decreto 216/2003. Soprattutto si suole evidenziare come esso si riveli
particolarmente ed estremamente riduttivo a tutelare nuovi fenomeni discriminatori
connessi alla diffusione di emergenti fattori di esclusione, mai tipizzati dalla legge,
quali l’appartenenza ad orientamenti sessuali diversi da quello etero, lo stato di ex
detenzione, di sieropositività, di tossicodipendenza o l’essere portatore di gravi
malattie come l’AIDS, rispetto ai quali non esistono affatto altri strumenti di tutela
alternativi. Ciò vale anche per fattori come età, credo religioso ed, in parte, opinioni
politiche e sindacali, che, pur tipizzati, non sono mai stati considerati come oggetto
specifico di tutela normativa.
2
La terza parte della trattazione è quindi volta all’illustrazione delle varie modalità con
cui la discriminazione può essere posta in essere, da quelle più dirette a quelle più
latenti, sino a dare origine a nuovi fenomeni come il mobbing, implicitamente
tutelato dal decreto 216/2003. Sotto tale aspetto, infatti, il medesimo decreto sembra
voler considerare illegittime, oltre a forme di discriminazione diretta ed indiretta,
anche quei comportamenti datoriali tipici del mobbing e persino, a titolo di tutela
preventiva del lavoratore, l’ordine di discriminazione.
Sicuramente propositi ammirevoli, tutto sommato però irrealizzabili concretamente,
oltre che per la già illustrata mancata previsione di piani di azioni positive, a causa di
aspetti tipicamente processuali, come ad esempio il sistema dell’onere della prova. E’
a tal proposito che la presente trattazione consta di una parte IV, dedicata ai rimedi
giurisdizionali contro la discriminazione, nella quale si esaminano appunto gli
strumenti di tutela giurisdizionale apprestati sia dalle specifiche normative nazionali
sia dall’articolo 4 del decreto 216/2003, nell’ambito del quale spicca, contrariamente
ai dettami della direttiva 78/2000, la persistenza dell’onere della prova in capo al
lavoratore discriminato, per il quale si rivela spesso difficile provare il “torto” subito,
soprattutto a causa della reticenza dei colleghi. Dunque, in fin dei conti, il lavoratore
non sarebbe incentivato a tutelarsi, in quanto molto spesso “perdente in partenza”.
Motivo per cui i buoni intenti della normativa, pur se solo formali, risultano alla fin
fine quasi neutralizzati, anche in considerazione dell’ampio e vago sistema di
deroghe che il decreto in questione prevede in relazione al generico divieto di
discriminazione, che è oggetto di disciplina.
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PARTE I
IL FENOMENO DISCRIMINATORIO
NEI LUOGHI DI LAVORO
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CAPITOLO I
LA DISCRIMINAZIONE SUL POSTO DI LAVORO: PROSPETTIVE E
LIMITI DEL DECRETO 9 LUGLIO 2003 N. 216
1) Time for equality at work: un rapporto dell’OIL sui nuovi abusi del terzo
millennio
La discriminazione sui luoghi di lavoro è tutt'altro che un fenomeno debellato e
colpisce ancora centinaia di milioni di lavoratori in tutto il mondo. Se alcune delle
forme più violente di repressione dei diritti sono scomparse in molti paesi, sono però
comparsi nuovi abusi più subdoli e meno percepibili. E' quanto denuncia l'Oil
(l'Ufficio internazionale del lavoro) in un rapporto, («L’ora dell’eguaglianza sul
lavoro») (1), che costituisce lo studio più completo sull’argomento finora realizzato
dall’organismo. L'indagine denuncia il divario causato dalla discriminazione, basata
sul sesso, il colore della pelle, la religione, l'opinione politica, l'origine sociale, ma
esercitata anche nei confronti dei disabili, delle persone colpite dal virus dell'Aids, a
causa dell'età o delle tendenze sessuali.
Le donne sono una delle categorie più colpite. Molte più donne rispetto a 50 anni fa
guadagnano oggi uno stipendio, ma sono ancora relegate a svolgere lavori meno
qualificati. Anche nei paesi dove le donne hanno un livello di istruzione pari o
superiore a quello degli uomini, il "tetto di cristallo" spesso impedisce la loro scalata
ai vertici della gerarchia. E ovunque la maggior parte delle donne continua a
guadagnare meno degli uomini.
Secondo il rapporto dell’Oil, come tutte le altre forme di discriminazione la
discriminazione razziale persiste ancora. Essa colpisce i migranti, le minoranze
etniche, le popolazioni indigene e tribali, e altri. A livello mondiale l’aumento del
fenomeno migratorio ha modificato in modo considerevole le modalità di
discriminazione razziale nei riguardi dei lavoratori migranti, di seconda e terza
generazione e dei cittadini di origine straniera. Oggi nel mondo, antiche teorie su
un’eventuale superiorità di un gruppo razziale o etnico sono state sostituite da
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affermazioni secondo le quali culture straniere e «incompatibili» possono avere
effetti perturbatori sull’integrità delle identità nazionali.
La discriminazione nei confronti delle persone colpite da Aids costituisce motivo di
preoccupazione crescente, in particolare tra le donne. Questo tipo di discriminazione
può assumere diverse forme, per esempio un test al momento dell’assunzione
suscettibile di provocare una negazione di impiego, un test al momento dell’entrata in
un paese imposto ai visitatori che intendono rimanere per un lungo periodo e, in certi
casi, un test obbligatorio per i lavoratori migranti. Tra le altre forme di
discriminazione, si può citare il licenziamento senza esame medico, né preavviso, né
colloquio, la retrocessione ad un grado inferiore, il rifiuto di una copertura
assicurativa sanitaria, la riduzione di salario e le molestie sessuali.
Anche i disabili subiscono abusi. L'Oil rileva che la forma più comune di
discriminazione è l’impossibilità di avere certe prospettive, sia sul mercato del
lavoro, sia in materia di educazione e formazione. Il tasso di disoccupazione dei
disabili raggiunge l’80 percento e oltre in numerosi paesi in via di sviluppo. Esse
sono relegate ad occupare impieghi con reddito sotto pagato, impieghi subalterni con
pochissima o addirittura senza protezione sociale.
Da una decina di anni, inoltre, la discriminazione basata sulla religione sembra essere
aumentata. Attualmente il clima politico mondiale ha favorito la diffusione della
paura da entrambi i lati e l’aumento della discriminazione tra gruppi religiosi
minacciando di destabilizzare le società e di generare atti di violenza. Sul posto di
lavoro, la discriminazione in funzione della religione può assumere diverse forme:
comportamento aggressivo da parte di colleghi o dirigenti, verso individui
appartenenti a minoranze religiosi; mancanza di rispetto e ignoranza delle usanze
religiose; obbligo a lavorare durante le feste religiose; mancanza di imparzialità al
momento dell’assunzione o della promozione; rifiuto di rilascio di licenze
professionali e non rispetto delle abitudini in materia di abbigliamento.
Infine la preoccupazione per le forme di discriminazione in base all’età è anch’essa in
aumento. Nel 2050, il 33 percento della popolazione dei paesi industrializzati e il
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19 percento di quella dei paesi in via di sviluppo raggiungerà 60 anni o più e per la
maggior parte si tratterà di donne. La discriminazione può essere apertamente attuata,
nel fissare un limite di età per un impiego; può anche assumere forme più subdole ad
esempio limitando l’accesso alla formazione o imponendo condizioni di
pensionamento anticipato. La discriminazione in base all’età non colpisce
esclusivamente le persone in età vicino all’età pensionabile. In alcuni casi, i datori di
lavoro esercitano una discriminazione nei confronti delle donne in età più avanzata,
dando più opportunità alle giovani al di sotto dei 30 anni.
2) Il decreto legislativo 9 luglio 2003 n. 216: una normativa trabocchetto
E’ il decreto legislativo 9 luglio 2003 n. 216 l’ultimo tassello della normativa italiana
in materia di discriminazione sul lavoro, emanato dal governo nazionale in attuazione
della direttiva comunitaria 78/2000 relativa alla parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro. In realtà sembra difficile definirlo come
“decreto attuativo”, dal momento che recepisce ben poco della direttiva comunitaria
suddetta, limitandosi ad attestare un divieto di discriminazione in virtù di un concetto
di pura uguaglianza formale, senza voler andare a fondo nel problema attraverso la
promozione di azioni positive, che invece sarebbero volte al perseguimento di una
parità sostanziale nell’ambito del mercato del lavoro. D’altro canto se da un lato vasta
appare l’area dei divieti, in una direzione dunque garantistica favorevole al
lavoratore, d’altra parte il tutto sembra essere quasi neutralizzato da una ancor più
ampia sfilza di deroghe ai divieti medesimi, peraltro formulate in termini molto
generici, dando adito ai più svariati abusi da parte degli employers. Per non parlare, a
riguardo della tutela giurisdizionale dei diritti, del mancato recepimento dalla
direttiva del principio di “inversione dell’onere della prova” a carico del convenuto,
che avrebbe mirato non a sconvolgere i principi che l’ordinamento italiano stabilisce
in materia di onere della prova, ma a tutelare la parte debole del rapporto, in tal caso
il lavoratore. Dunque una normativa che solo apparentemente è volta a combattere il
fenomeno discriminatorio, ma che in realtà rappresenta, come si suol dire, solo un
“contentino”; anzi, ad un’attenta lettura, sembra quasi voler tutelare maggiormente la
7
figura e gli interessi del datore di lavoro, scoraggiando il soggetto vittima di
vessazioni sul posto di lavoro ad agire legalmente per tutelare la propria posizione, in
quanto difficilmente potrebbe dimostrare il torto subito e quindi nella generalità dei
casi sarebbe perdente già in partenza.
Ma analizziamo più dettagliatamente il decreto nelle sue singole sfaccettature.
L’articolo 1 illustra l’oggetto della normativa in questione: «Il presente decreto reca
le disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone
indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap,
dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le
condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano
causa di discriminazione, in un’ottica che tenga conto anche del diverso impatto che
le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini». Il decreto ha
dunque come finalità quella di attuare, in materia di occupazione e di condizioni di
lavoro, il principio di parità di trattamento, per il quale si intende l’assenza di
qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa dei fattori elencati nella dicitura
dell’art. 1, disponendo misure adeguate in tal senso. Senz’altro evidente e positivo è
l’ampliamento, rispetto alle previgenti normative in materia, delle ipotesi di divieto
(2), seppure considerandole in maniera tutt’altro che omogenea, dal momento che
sono considerate da un lato caratteristiche imperniate su requisiti ideologici e come
tali interni al lavoratore (religione, convinzioni personali, orientamento sessuale),
dall’altro lato caratteristiche relative a dati fisici (handicap ed età) facenti parte della
sfera esterna del lavoratore stesso ed immodificabili dal medesimo.
In primis è citata la religione. Sembra fondamentale concentrare l’attenzione sulla
religione come fattore a se stante, sebbene rientrante ed in passato implicitamente
compresa nel più ampio ambito della discriminazione per appartenenza ad una
determinata identità nazionale, etnica, culturale. Ciò perché, anche secondo il
rapporto OIL di cui al paragrafo precedente, vanno aumentando i casi di
discriminazione per religione, a prescindere dall’identità nazionale, etnica o culturale
di un soggetto, dunque anche tra persone aventi le medesime radici. Conseguenza
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questa del proliferare di vari movimenti religiosi alternativi (vedi parte II, capitolo
V), ma soprattutto della “paura dell’islamico”, che va diffondendosi in seguito ai
recenti eventi internazionali.
Il fattore religioso è strettamente connesso alla categoria delle convinzioni personali
(vedi parte II, capitolo VI), fattore quest’ultimo di ampia portata, dato che consente di
ritenere vietate tutte le discriminazioni che abbiano come motivo l’esercizio della
libertà ideologica del lavoratore, comprensiva delle convinzioni etiche, filosofiche,
delle opinioni politiche e sindacali e infine anche della dimensione sociale del
lavoratore.
Quindi l’handicap (vedi parte II, capitolo II), che specifica il concetto di “condizioni
personali” di cui all’art. 3 Cost., ed il fattore età (vedi parte II, capitolo III). Con
riguardo a quest’ultimo, la direttiva europea 78/2000, all’art. 6, prevedeva tra l’altro
che: «Fatto salvo l’art. 2, paragrafo 2, gli Stati Membri possono prevedere che le
disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove
esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto
nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del
lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale e i mezzi per il
conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. Tali disparità di
trattamento possono comprendere in particolare: a) la definizione di condizioni
speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e
di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i
lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento
professionale o assicurare la protezione degli stessi; b) la fissazione di condizioni
minime di età, di esperienza professionale o di anzianità di lavoro per l’accesso
all’occupazione o a taluni vantaggi connessi all’occupazione; c) la fissazione di
un’età massima per l’assunzione basata sulle condizioni di formazione richieste per il
lavoro in questione o la necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del
pensionamento». Dunque sembra evidente che il legislatore italiano non abbia
richiamato la predetta disposizione comunitaria, che disciplina compiutamente la
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giustificazione delle disparità di trattamento collegate all’età, limitandosi a far salve
le disposizioni che prevedono la possibilità di trattamenti differenziati in merito agli
adolescenti, ai giovani, ai lavoratori anziani e ai lavoratori con persone a carico,
dettati dalla particolare natura del rapporto e dalle legittime finalità di politica del
lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale (art. 3, comma 4). Una
dunque fra le varie generalissime deroghe al divieto, su cui si tornerà più avanti.
Infine il divieto di discriminazione a causa dell’orientamento sessuale, autonomo
rispetto a quello già operante nel nostro ordinamento, concernente il “sesso” e
particolarmente rilevante al momento in cui si scrive in virtù dell’attualità della
questione in tutti i paesi europei e delle grandi battaglie che omosessuali, lesbiche,
bisessuali e transessuali stanno portando avanti in nome della conquista di diritti pari
a quelli dei colleghi eterosessuali, in mancanza di una normativa specifica che tuteli
la loro posizione (vedi parte II, capitolo I, sezione II).
Il tutto tenendo conto del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione
possono avere su donne e uomini (vedi parte II, capitolo I, sezione I), che rileva come
un criterio di secondo grado, legato anche al sesso e che quindi funge sia da
contenente sia da contenuto rispetto a tutte le altre cause di discriminazione,
assumendo quindi una rilevanza sostanziale.
Un’area di divieti molto ampia che però sembra non ricomprendere, sia a livello
europeo sia nazionale, tutti i possibili fattori di discriminazione o meglio sembra non
considerare alcune importanti cause di discriminazione oggi molto diffuse relative
allo status di tossicodipendente, alcolizzato e malato di AIDS, ma anche a quello di
detenuto o ex detenuto (vedi parte II, capitolo VII, sezioni IV e II). Fattori non
considerati forse perché comportanti problematiche e retroscena molto complessi, che
non si ha perciò la volontà di affrontare, richiedendosi peraltro l’intervento e la
comparazione tra istituzioni, parti sociali e varie figure professionali specializzate.
Ignorati sono anche fattori discriminatori legati alla tipologia contrattuale con la
quale si è impiegati: ci si riferisce alle disparità di trattamento cui sono soggetti di
fatto i prestatori di lavoro occupati secondo contratti di lavoro atipici, nonostante la
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sussistenza di clausole antidiscriminatorie nell’ambito della maggior parte delle varie
discipline di tali tipologie di impiego (vedi parte II, capitolo VII, sezione I).
Chiaramente un governo che indirizza la sua politica alla flessibilità e precarietà
dell’impiego, introducendo sempre maggiori nuove tipologie di contratto di lavoro
atipico ed esaltandone il loro apporto positivo, si mostra restio a tutelare questa fascia
di lavoratori. Anzi si vanta di poter arginare il fenomeno della discriminazione
lavorativa delle fasce più deboli proprio attraverso l’impiego del lavoro atipico,
quando invece le disparità di trattamento cui quest’ultimo conduce si ritorcono
praticamente contro i soggetti occupati; emblematica in tal senso l’estensione alle
donne dell’ambito di applicazione del contratto di inserimento. Per non parlare delle
discriminazioni, che la stessa legge pone in essere in relazione al trattamento
(fruizione di diritti e di ammortizzatori sociali) dei lavoratori delle piccole imprese,
dunque a livello dimensionale, ma anche settoriale, eliminabili solo attraverso una
riforma della legislazione in materia (vedi parte II, capitolo VII, sezione I).
Il presente decreto, all’articolo 2 comma 2, fa salvo il disposto dell’articolo 43,
commi 1 e 2, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto
legislativo 25 luglio 1998 n. 286, non includendo dunque nella presente normativa il
fattore razziale o etnico tra i fattori discriminatori.
La più grande contraddizione rilevabile nell’ambito di quanto l’articolo 1 del decreto
216/2003 è relativa all’affermazione relativa all’adozione di “misure necessarie” ad
arginare i vari fenomeni di discriminazione, che sembra tendere ad una volontà
positiva nel perseguimento di obiettivi di uguaglianza sostanziale, ma che in realtà è
solo un tranello. Il presente testo normativo non riproduce affatto le disposizioni della
direttiva di cui all’art. 7 (azioni positive e misure specifiche), che stabilisce: «Allo
scopo di assicurare completa parità nella vita professionale, il principio della parità di
trattamento non osta a che uno Stato Membro mantenga o adotti misure specifiche
dirette a evitare o compensare svantaggi correlati a uno qualunque dei motivi di cui
all’art. 1». Nella Relazione governativa si afferma, a giustificazione di ciò, una
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assurda ritenuta superfluità del recepimento, sul rilievo che le misure stesse sono già
previste all’interno del nostro ordinamento giuridico. Ma si evidenzierà nella parte
seconda di questa trattazione, con specifico riguardo ai vari ambiti di applicazione
della presente normativa, come la legislazione preesistente, se pure ha adottato azioni
positive specifiche, non ha saputo individuare le priorità sussistenti nel giusto ordine
di intervento, cosicché a poco è valso tutto sommato l’”impegno governativo” nel
corso del tempo. In realtà si sarebbe più propensi a sostenere come alcune scelte,
come quella del mancato recepimento della direttiva comunitaria in materia di azioni
positive e di misure specifiche, siano da ravvisarsi nell’esplicita volontà del governo
di non gravare di ulteriori oneri aggiuntivi il bilancio dello Stato. Ci si chiede dunque
a cosa serve una normativa che si preoccupa di “ampliare l’area dei divieti”, senza
predisporre concrete misure per far sì che tali divieti siano effettivamente operanti;
sembra sinceramente sterile ribadire un principio di pura uguaglianza formale, per lo
più già posto in essere nel corso del tempo, soprattutto in virtù dei piccoli passi avanti
compiuti, pur tra varie perplessità, dalle specifiche normative preesistenti. Un ritorno
al passato, ai tempi in cui furono emanate le prime leggi di pura tutela e parità che
segnavano l’inizio di un cammino tutto in salita per la conquista di pari opportunità
nel mondo del lavoro.
Nell’articolo 2 del decreto troviamo illustrate le forme di discriminazione, anche se in
termini molto vaghi.
In primis, al comma 1 lett.a, la nozione di discriminazione diretta, che si verifica
quando a causa delle menzionate caratteristiche tipizzate «una persona è trattata meno
favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe stata trattata un’altra in una
situazione analoga». Definizioni per principi generali, adottate anche dalla direttiva
europea, che rivelano la fiducia riposta dal legislatore nazionale nell’opera di
selezione, operata in particolar modo dai giudici, delle fattispecie suscettibili di essere
ricondotte nell’ambito della categoria generale, senza dunque temere il rischio di
paventare controindicazioni ipoteticamente incentrate su giudizi altamente liberi, se
non arbitrari, in quanto svincolati da una norma di riferimento dettagliata. Il problema
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sta dunque nel fatto che manca una caratterizzazione della discriminazione in termini
oggettivi, essendo la definizione formulata in termini di mero raffronto tra due
posizioni. Il che potrà dare luogo a non pochi abusi. Peraltro non agevole potrebbe
ritenersi la valutazione del trattamento differenziato sfavorevole rispetto a quello
diverso che sarebbe stato, ma solo potenzialmente, riservato ad altro dipendente,
essendo in tal caso richiesto all’interprete di indagare su una eventualità futura. A tal
proposito si rileva come ciò potrebbe anche ripercuotersi sulla funzionalità del regime
dell’onere della prova, facendo difetto, in tal caso, alcuni elementi di fatto atti a
dimostrare la sperequazione.
Ben più rilevante è la definizione, che troviamo all’art. 2, comma 1, lett. b), di
discriminazione indiretta, per l’impatto pratico che potrà avere, sebbene non
costituisca una sostanziale novità per il nostro ordinamento, essendo compresa anche
nella L. 125/91 in materia di parità uomo/donna e nel testo unico sull’immigrazione.
Discriminazione indiretta si verifica quando: «una disposizione, un criterio, una
prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere
le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le
persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento
sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone». Un
aspetto interessante quello della discriminazione indiretta in quanto volto a punire
trattamenti o comportamenti del datore di lavoro rispettosi dell’uguaglianza formale e
formalmente neutri, ma che in realtà producono effettive conseguenze negative per
una determinata categoria di persone. Difficoltà interpretative potrebbero sorgere
però con riguardo alla locuzione “particolare svantaggio”, che denota il carattere
vago della definizione. E’ necessario infatti fare riferimento ad una linea di confine
tra le differenze di impianto trascurabili e quelle che devono invece essere rimosse,
ma dove quella linea di confine si collochi non è affatto chiaro ed il compito di
individuarla potrebbe rivelarsi davvero arduo.
Il comma 3 dell’art. 2 poi dispone che: «Sono altresì considerate come
discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti
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indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all’articolo 1, aventi lo scopo o
l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile,
degradante, umiliante ed offensivo». Quanto disposto in tale comma dell’articolo 2 lo
si deve ritenere degno di particolare attenzione. Se è vero, come si è rilevato
precedentemente, che vaghe risultano le definizioni di discriminazione diretta ed
indiretta di cui al primo comma del medesimo articolo, il comma 3, d’altro canto,
introduce un elemento di novità molto importante. Al concetto di molestie ricavabile
dalla disposizione in commento pare infatti lecito ricondurre la fattispecie del
mobbing, che, negli ultimi tempi, è stata con sempre maggior frequenza, sia pure in
assenza di una norma esplicita di riferimento, dedotta nelle aule giudiziarie da
dipendenti assoggettati a vessazioni sul posto di lavoro. Cosicché sembra evidente
che gli atteggiamenti mobbizzanti a danno dei lavoratori a causa delle caratteristiche
descritte dalla norma otterrebbero una maggiore tutela sotto il profilo processuale; il
che è degno di nota, soprattutto in virtù del fatto che tale nuovo fenomeno
discriminatorio, su cui ci si soffermerà nella parte terza di questa trattazione, non è al
momento in cui si scrive oggetto di specifica tutela, data la carenza di una normativa
anti-mobbing nell’ambito dell’ordinamento italiano. Dunque un passo avanti, sotto
tale profilo, del decreto 216/2003, sebbene sussista comunque sul lavoratore
mobbizzato, ai sensi dell’articolo 4 comma 4 della presente norma, l’onere di provare
la sussistenza dei comportamenti perpetrati a suo danno. Operazione non facile se
consideriamo che di certo i colleghi della vittima non testimonierebbero mai a suo
favore in un eventuale processo, nel timore di subire da parte del datore di lavoro le
medesime vessazioni, per il fatto di essersi schierati in difesa della parte debole del
rapporto. Peraltro il mobbizzato non potrebbe facilmente addurre a suo discarico
elementi statistici, dato che quello del mobbing è un fenomeno ancora in corso di
studio su cui è prematuro ancora poter fare rilevazioni quantitative. A ciò si aggiunga
l’assenza di una specifica normativa di tutela anti-mobbing, in grado di recare al
lavoratore maggiori garanzie. Dunque positiva la previsone da parte del decreto di
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tale connotazione innovativa, ma pur sempre destinata a restare in un certo senso
sulla carta per i motivi appena illustrati.
Importante anche quanto disposto al comma 4 dell’articolo 2, secondo cui: «L’ordine
di discriminare persone a causa della religione, delle convinzioni personali,
dell’handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale è considerata una discriminazione
ai sensi del comma 1». In tal modo, ai fini sanzionatori, si pone sullo stesso piano sia
l’esecutore del comportamento sia il suo mandante. Non solo, ma la disposizione
sembra riferirsi in particolare all’ipotesi in cui l’ordine non sia stato ancora eseguito e
di ciò abbia avuto già, comunque, conoscenza il prestatore di lavoro potenzialmente
discriminato; giacchè, nel caso in cui a tale ordine sia stata data esecuzione, sarebbe
comunque implicita la responsabilità di chi quell’ordine ha emanato, per lo più
riferibile al datore di lavoro. In ogni caso sembra evidente e degno di nota il fatto che,
assimilando ad un fenomeno discriminatorio anche l’ordine non eseguito di
discriminare, si reca una tutela maggiore al lavoratore che ha interesse alla rimozione
dell’ordine stesso, al fine di evitarne, in via preventiva, l’attuazione. Dunque una
disposizione caratterizzata da una connotazione cautelare e preventiva, che però,
come quella di cui al comma 3, perderebbe di attualità per effetto del regime
probatorio disegnato dal legislatore nazionale.
L’articolo 3 del decreto riguarda l’ambito di applicazione del medesimo, contenendo
svariate deroghe al divieto di discriminazione, formulate in termini generali.
Il 1° comma dispone che: «Il principio di parità di trattamento senza distinzione di
religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si
applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela
giurisdizionale secondo le forme previste dall’articolo 4».
Quindi si citano, nello specifico, quattro aree di interesse della presente normativa:
«a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i
criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la
retribuzione e le condizioni del licenziamento;
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