7
della legalità e della solidarietà, principi che ispirano tutta la nostra Costituzione,
alla realizzazione dei quali lo Stato non può sottrarsi.
In questi anni però, nel mondo politico il dibattito si è incentrato
principalmente sull'estensione o meno delle sanzioni alternative alla detenzione,
nulla, o quasi, è stato fatto per migliorare le condizioni della detenzione, né si è
pensato a delle forme di controllo della legalità nei luoghi di carcerazione né a dei
meccanismi di tutela dei diritti fondamentali delle persone detenute.
Passando ai meccanismi introdotti dal “nuovo processo penale” che
concorrono, non meno prepotentemente, alla accennata “fuga dalla pena
detentiva”, può bastare uno sguardo, dunque, all’introduzione dei riti alternativi. Si
tratta di meccanismi processuali «concepiti in un’ottica pragmatica di deflazione e
decongestionamento della macchina giudiziaria, e perciò finalizzati a uno scopo di
modernizzazione in chiave funzionale dell’apparato processuale. Ma questi stessi
meccanismi hanno forti implicazioni sostanziali, la cui portata dirompente è forse
sfuggita agli artefici del nuovo codice di rito: essi hanno in realtà contribuito a
destabilizzare il sistema sanzionatorio, in quanto entrano in conflitto con gli scopi
di prevenzione generale e speciale che le pene dovrebbero perseguire».
2
Il dato su cui in questa sede mi preme mettere l'accento è però rappresentato
dal problema dell'esecuzione penale e del trattamento riservato ai detenuti
stranieri, vi è infatti una disintegrazione del sistema sanzionatorio nel processo di
differenziazione trattamentale.
Il principio costituzionale del trattamento volto alla risocializzazione e alla
rieducazione del reo per gli stranieri si ferma all'interno del carcere, visto che non
è prevista alcuna concessione né rinnovo automatico del permesso di soggiorno
agli stranieri detenuti che abbiano seguito positivamente un percorso trattamentale.
Dopo le recenti modifiche, la nostra legislazione sull'immigrazione infatti, tende a
rendere praticamente impossibile che un detenuto straniero, una volta scontata la
pena, possa reinserirsi socialmente nel territorio italiano: ciò svuota, per questi
soggetti, di ogni contenuto il terzo comma dell'articolo 27 della Costituzione, che
vede la pena finalizzata alla rieducazione del condannato.
La sistematica prospettiva di essere espulso impedisce sicuramente alla pena
di avere qualsiasi effetto "rieducativo-reinseritivo" e crea una intollerabile
2
FIANDACA, MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale, in Riv. It. di Dir. pen. e Proc.
Pen., 1994
8
disparità di trattamento tra migranti e cittadini italiani ma soprattutto snatura il
carcere, che da luogo in cui viene praticato un intervento sociale di tipo
reinseritivo si trasforma in "un centro di permanenza temporanea" per uomini in
attesa dell'esecuzione del provvedimento di espulsione.
Uno Stato democratico, come afferma Norberto Bobbio, si caratterizza per la
sua "capacità inclusiva" e dunque anche gli strumenti di contrasto della criminalità
dovranno essere ancorati ai principi costituzionali per evitare il rischio di creare un
"diritto speciale degli stranieri", in sé discriminatorio.
Secondo un modello ormai comune a tutta l'Europa, i migranti sono
considerati un pericolo da contrastare con ogni mezzo
3
epilogo di questa tensione è
stata un escalation di decreti e provvedimenti di legge che hanno lo scopo più o
meno dichiarato di filtrare gli stranieri, accettando in misura limitata quelli "buoni"
e chiudendo le porte in faccia a quelli ritenuti pericolosi. In particolare a partire
dagli anni novanta, numerosi migranti in quanto tali, hanno trovato nel carcere la
destinazione inevitabile del loro percorso migratorio, indipendentemente dalla loro
effettiva pericolosità sociale. In altri termini, le cifre che indicano una crescita
degli immigrati denunciati, condannati e incarcerati non rilevano una maggiore
propensione alla delinquenza, ma una vera e propria "penalizzazione degli
stranieri"
4
.
A livello di principio la nostra legislazione sembra orientata verso una
completa equiparazione formale fra la posizione degli italiani e quella degli
extracomunitari, equiparazione che per quanto concerne i diritti fondamentali
riguarda anche i migranti irregolari. Tuttavia accade spesso che nella realtà gli
immigrati ricevano un trattamento diverso dagli autoctoni e che questa differenza
sia sempre più sanzionata da provvedimenti legislativi. Il presente lavoro ha
l'obiettivo di far emergere proprio queste disparità di trattamento in un ambito
specifico: quello dell'esecuzione penale.
In questo ambito l'art. 1 dell'Ordinamento penitenziario fissa il principio
dell'assoluta eguaglianza tra cittadini e immigrati: "il trattamento è improntato ad
assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e
condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose".
3
BARBAGLI, Immigrazione e criminalità in Italia, Il Mulino, Bologna, 1998, pag. 7.
4
DAL LAGO, Non persone: l'esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano,
1999, pag. 35.
9
La realtà è però molto lontana da questo principio. Si sta creando un doppio
binario in fase di esecuzione pena. La distinzione emerge soprattutto in materia di
misure alternative: è difficile per gli stranieri beneficiare delle misure alternative in
quanto, proprio per la loro condizione, spesso vengono ritenuti non in possesso dei
requisiti richiesti per l'accesso a tali benefici e, a dispetto dell'art. 3 della
Costituzione, nessuno strumento è stato predisposto per rimuovere le condizioni di
ineguaglianza. Anzi, la tendenza del legislatore è quella di prevedere come unica
misura alternativa per gli stranieri l'espulsione. Merita di essere sottolineato che la
giurisprudenza della Cassazione ha stabilito che l'eventuale espulsione a fine pena
non contrasta col graduale reinserimento del condannato.
Implicitamente si deduce che anche il momento della concreta irrogazione
della sanzione da parte del giudice deve essere ispirato alla finalità della
rieducazione del reo. Con riferimento ai cittadini stranieri, emergono chiaramente i
limiti "nazionali" della funzione di reinserimento sociale della pena.
La pena, come misura rieducativa, e l'espulsione, come misura di mera
difesa sociale radicale perché elimina il soggetto dal contesto sociale nazionale, si
fondano su principi e obiettivi totalmente differenti. L'esame dei diversi tipi di
espulsione mette in evidenza come si tende ad allontanare lo straniero piuttosto
che reinserirlo nel tessuto sociale. In particolar modo l'espulsione come sanzione
alternativa alla pena sembra rispondere ad un'esigenza di "sfollamento" della
popolazione carceraria, escludendo gli extracomunitari dall'ambito di applicazione
dell'art. 27/3 Cost.. I migranti ex detenuti anche se presenti in Italia da diversi anni
e rispetto ai quali sarebbe possibile ipotizzare un percorso di reinserimento sociale,
ora, per il solo fatto che hanno commesso un reato, non potranno più ottenere il
rinnovo del permesso di soggiorno ma saranno destinatari di un provvedimento di
espulsione.
La carcerazione per gli immigrati costituisce la conclusione disastrosa di una
situazione fin dall'inizio difficile. In carcere si manifestano e si esasperano tutti i
meccanismi emarginanti del mondo libero e gli stranieri finiscono per diventare
emarginati tra gli emarginati. Il disagio dell'ingresso in carcere è aggravato,
rispetto agli altri detenuti, per l'isolamento cui gli extracomunitari sono sottoposti a
causa delle barriere d'incomunicabilità che ostacolano ogni tentativo di dialogo:
oltre alla non conoscenza della lingua italiana, vi è la mancanza di rapporti con la
famiglia rimasta nel paese di origine, il problema della religione, il non poter
10
rispettare le proprie abitudini alimentari. Manca il personale preparato e, visto il
numero degli ingressi e dei presenti, viceversa sarebbe necessario poter disporre di
operatori quali interpreti e mediatori culturali a tempo pieno, e di strumenti quali
corsi di lingua per il personale, ma anche di approfondimento della cultura dello
straniero.
Per questi motivi, è carente, a volte assente del tutto, un rapporto col
personale degno di questo nome e mancando questo rapporto, mancando la
possibilità di comunicare, si innesta tutta una serie di altre problematiche negative
che fanno lievitare la tensione, su cui oggi non si sa come agire.
A questo si deve aggiungere che la mancanza di un riferimento territoriale è
spesso conseguenza di una maggiore "pendolarità carceraria". Infatti in occasione
di trasferimenti per sfollamento o altri motivi è facile che siano trasferiti gli
immigrati e non gli italiani, intervento che a volte interrompe un iniziale
inserimento nell'istituto o un eventuale collegamento avviato all'esterno dagli
operatori sociali.
È un aspetto di sensibilità comune il fatto che la certezza e l’uguaglianza
delle pene, oggi, siano ovunque minacciate, vi è infatti un'involuzione verso un
diritto penale diseguale, frammentario e soprattutto ineffettivo ed incerto; non può
negarsi che il nostro ordinamento giuridico oggi sembra mostrare, per qualche
verso, il fianco della stanchezza e dell’incertezza.
Crisi o collasso del sistema penale
5
? Vi è la possibilità di un miglioramento
generale per andare incontro a quelle che sono le reali esigenze della società
civile?
E’ necessaria una volontà di restaurazione, ciò è possibile costruendo un
sistema normativo solido e trasparente, in grado di rappresentarsi come punto di
riferimento del comportamento umano, e capace, al contempo di trasfondere nella
realtà sociale il senso del valore dello Stato, che, in quanto tale, eticamente si
pone.
Il compito dello Stato non è solo quello di reprimere ma anche quello di dare
prova del suo grado di civiltà e umanità.
5
TRITTO, Crisi o collasso del sistema penale? Nel ricordo di Aldo Moro a vent’anni dal suo
sacrificio, Atti del convegno (Cassino, 29 maggio 1998), Università degli Studi di Cassino, 2002
11
“Quanto più uno Stato, nel suo divenire e nel suo evolversi, si colora di
umanità, tanto più esso potrà definirsi civile. Non può esservi Stato là dove non vi
sia umanità. Lo Stato è, in quanto di umanità si colora”
6
.
6
Dalla lezione di ALDO MORO del 12 gennaio 1976 : La natura della pena in La pena e le altre
sanzioni giuridiche di FRANCESCO TRITTO
12
CAPITOLO I
LA PENA
Sommario: 1. L’evoluzione storica della pena. – 2. Lavori preparatori dell’Assemblea
Costituente. - 3. Principi costituzionali in materia di pena. – 4. I caratteri della pena.
– 5. La pluridimensionalità della pena.
1. L’evoluzione storica della pena.
La pena criminale “costituisce la forma attraverso la quale, di regola, si
realizza l’intervento dello Stato finalizzato al controllo di fatti ritenuti socialmente
dannosi e si sostanzia in una considerevole limitazione della libertà personale”.
7
In
questa semplice e significativa definizione della pena ritroviamo i primi e
fondamentali spunti per una riflessione sulla funzione della stessa e sulla portata
che tale funzione ha nell’intero sistema del diritto penale.
Storicamente la pena è lo “specchio più fedele delle faticose tappe della
civiltà umana”
8
poiché registra i corsi ed i ricorsi, i progressi e le regressioni della
storia stessa, subendo, a seconda dei tempi, dei tipi di società e dei regimi,
utilizzazioni diverse e frequenti strumentalizzazioni politico – ideologiche; le sue
origini comunque risiedono nell’esigenza di superare la prospettiva della vendetta
privata per far fronte ad un istinto che nei secoli si è trasformato in esigenza di
giustizia e di difesa sociale.
9
La pena comunque interviene a limitare la libertà individuale, bene
fondamentale dell’uomo tutelato costituzionalmente nella maniera più completa
possibile, e pertanto è evidente che dev’essere prestata massima attenzione alla
definizione dei presupposti per la sua applicazione, nonché alla funzione che la
7
MOCCIA, Diritti dell’ uomo e sistema penale, Edizioni Scientifiche Italiane 2002, pag. 345.
8
MANTOVANI, Diritto penale parte generale, Cedam, Padova, 2002, pag. 675
9
BETTIOL, Diritto penale, parte generale, Padova 1978, pag. 707 e ss "Non dobbiamo invero
riferire il significato moderno della vendetta a reazioni individuali che avvenivano in epoche nelle
quali mancava o era rudimentale l'amministrazione della giustizia, perché l'esigenza che a male
segua male non è affatto espressione di un disordinato istinto primordiale di reazione contro il
torto, ma è espressione di un sentimento di giustizia che postula un castigo per i rei, senza di che
verrebbe meno il fondamento etico della società civile", pag. 712.
13
stessa deve svolgere. A questo proposito invero è illuminante l’art. 27/3 Cost. “le
pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono
tendere alla rieducazione del condannato”.
E’ importante notare sin d’ora come l’opzione (chiara) del Costituente a
favore di una pena del tutto lontana da prospettive repressivo – deterrenti
10
a
favore invece di profili di prevenzione generale e speciale obbliga ad una
costruzione sistematica coerente con essa.
Nel diritto penale sono in gioco interessi sociali di carattere primario,
interessi sociali che meritano una protezione che si esplica, attraverso un
fenomeno complesso come la pena.
Come sosteneva il professor Aldo Moro nel corso delle sue lezioni romane,
“la pena è una condizione del tutto particolare in cui viene a trovarsi il soggetto
che non ha adempiuto all’obbligo sociale, oltre che giuridico, che su di lui
incombeva: l’obbligo di non creare scompiglio, di non creare disordine nella
compagine sociale, attraverso la commissione di un atto criminoso. Una
condizione, uno status nel quale viene a trovarsi la persona sottoposta a pena; un
modo di essere che comporta una diminuzione, una menomazione della libertà del
soggetto. Un disinserimento sociale, che comporta un grave disagio per il soggetto;
ma questa situazione di disagio è voluta dalla legge, perché trova il suo
fondamento proprio nella legge e nel diritto”
11
.
Il diritto, cioè, invece che garantire, tutelare, proteggere il soggetto proprio
nella sua libertà, nel caso di inadempimento di quell’obbligo morale imposto dalla
legge, incide su un dato essenziale, fondamentale della vita della persona, incide,
cioè, sulla libertà
12
.
La pena, incide su quei dati che sono propri della persona, che riguardano
l’uomo in quanto tale con le sue caratteristiche di dignità, di responsabilità, di
libertà.
Per il professor Aldo Moro, la pena si risolve in una condizione, in un modo
di essere del soggetto che è diminuito della sua libertà, e questa alterazione del suo
10
MANTOVANI, op. cit., pag. 750
11
Dalla lezione di ALDO MORO del 12 gennaio 1976 : La natura della pena in La pena e le altre
sanzioni giuridiche di FRANCESCO TRITTO
12
TRITTO, Crisi o collasso del sistema penale? Nel ricordo di Aldo Moro a vent’anni dal suo
sacrificio, Atti del convegno (Cassino, 29 maggio 1998), Università degli Studi di Cassino, 2002,
pag. 42
14
stato di libertà, questo affievolimento non lieve, questo restringimento della sua
sfera personale è appreso dal soggetto come una posizione di svantaggio.
La pena è una posizione di svantaggio, tanto quanto svantaggioso era
l’obbligo che incombeva sul soggetto e che il soggetto medesimo non ha
adempiuto
13
.
Il carcere come luogo di pena viene visto come un dato naturale: chi
commette un reato deve scontare la pena passando un certo periodo della sua vita
rinchiuso dentro uno spazio istituzionale definito "carcere". Eppure questo, come
strumento di esecuzione della pena, è una creazione relativamente recente.
Per poter valutare come il concetto di pena sia stato modificato nel corso del
tempo, si pensi a come la letteratura medievale fosse ricca di narrazioni riguardanti
pene capitali crudeli e violente, sale di tortura, pene come le amputazioni, le
marcature, lugubri prigioni con celle buie e segrete.
Nel medioevo la prigione era solo un luogo dove veniva custodito l'imputato
in attesa del processo
14
. In un sistema di produzione pre-capitalistico il carcere
come pena non esiste; questa affermazione è storicamente verificabile con
l'avvertenza che ad essere ignorato non è tanto il carcere come istituzione, quanto
la pena dell'internamento come privazione della libertà. Per la società feudale si
può correttamente parlare di carcere preventivo e di carcere per debiti, ma non si
può altrettanto correttamente affermare che la semplice privazione della libertà,
protratta per un periodo determinato di tempo e non accompagnata da alcuna
sofferenza ulteriore, fosse conosciuta e quindi prevista come pena autonoma e
ordinaria. La pena vera e propria consisteva in qualche cosa di essenzialmente
diverso dalla sola privazione della libertà; la pena era rappresentata da una somma
di denaro, da una sofferenza fisica, dall'esilio, dalla gogna, dalla morte.
È solo a partire dal seicento che queste punizioni cominciano ad essere
sostituite dal carcere che lentamente si affermerà come l'unica pena.
Tra la fine del settecento e i primi dell'ottocento, sotto la spinta del pensiero
illuminista, si compiono i primi passi verso l'umanizzazione della pena e
nell'esecuzione penale emerge il ruolo della detenzione in sostituzione delle pene
corporali.
13
TRITTO, La pena nell’ insegnamento di Aldo Moro, in, Aldo Moro e il problema della pena, Il
Mulino, Bologna, 1982, pag. 33
14
MELOSSI, PAVARINI, Carcere e fabbrica. Le origini del sistema penitenziario, Mulino,
Bologna, 1976. pag. 146
15
Con l'avvio del processo di accumulazione capitalistico, e quindi con una
nuova visione della vita basata sulla laboriosità, l'accettazione dell'ordine e la
morigeratezza dei costumi, si è potuto assistere ad una evoluzione del concetto di
pena, che ha interessato in modo particolare tutti quegli individui appartenenti alla
classe dei "non occupati": vagabondi, mendicanti e prostitute.
Verso questi soggetti, all'inizio del XVI secolo si era sviluppata una
legislazione fortemente repressiva caratterizzata da durissime pene corporali; solo
trent'anni dopo in Inghilterra nasce la prima house of correction con lo scopo di
detenere tutta questa massa di "poveri" e rieducarli attraverso la disciplina e il
lavoro. L'esempio inglese sarà adottato anche in altre parti d'Europa portando alla
comparsa di esperienze simili come l' hopital in Francia o le rasp-huis in Belgio
15
.
Compare dunque un nuovo elemento che va ad arricchire il concetto di pena:
la rieducazione. La componente punitiva, tuttavia, anche nelle esperienze delle
house of correction resta pur sempre la caratteristica principale della pena: lo
dimostrano le pessime condizioni di vita all'interno di questi istituti e i principi su
cui si basavano la disciplina e il lavoro.
Nel XVIII secolo, la figura del "povero" da soggetto non rispondente ai
valori del tempo, diventa individuo socialmente pericoloso con la conseguente
scomparsa della componente rieducativa all'interno del concetto di pena. Il carcere
abbandona la logica del lavoro e della disciplina come strumento di rieducazione e
si concentra su attività di carattere afflittivo, attraverso la segregazione cellulare e
la reintroduzione delle pene corporali.
A partire dal XIX secolo, in Europa le prigioni diventano la norma: costante
di questi istituti è l'impronta rieducativa fondata sulla solitudine, sull'isolamento,
sul lavoro forzato, sull'umiliazione e sull'indottrinamento religioso.
Originariamente mero strumento di custodia dell'imputato, il carcere ha visto
modificata nel tempo la sua funzione. E così si passa dal Panopticon di Bentham,
16
fondato sulla sorveglianza totale, che ha come scopo quello di controllare a vista
l'essere umano in ogni sua mossa, alle più moderne architetture carcerarie che
15
MANTOVANI, op. cit. pag. 764
16
Il Panopticon è la struttura carceraria ideata da JEREMY BENTHAM. La struttura del
Panopticon si può così riassumere: una costruzione ad anello, suddivisa in celle, con al centro una
torre composta da finestre che si aprono sulla facciata interna dell'anello. Ogni singola cella ha due
finestre: una verso l'interno l'altra verso l'esterno. In questo modo, il sorvegliante nella torre
centrale, può osservare ogni minimo movimento del detenuto senza essere visto.
16
riproducono un "brano della città"
17
che hanno lo scopo di ripetere parte della
struttura urbana.
Il problema del fondamento della pena è tra i più dibattuti da parte non solo
della scienza penale, ma anche delle altre scienze, che vi hanno largamente
partecipato, a cominciare dalla filosofia, la quale fin dalle scuole presocratiche si è
variamente pronunciata sul grave problema.
Benché innumerevoli, le opinioni in materia sono riconducibili alle seguenti
quattro teorie fondamentali, che rappresentano i momenti di una dialettica mai
superata e continuamente riproponentesi.
Teoria della retribuzione.- Per questa teoria (c.d. assoluta), compendiabile
nell’assunto che il bene va ricompensato col bene e il male col male, la pena è un
valore positivo che trova in se stessa la sua ragione e giustificazione. Essa è il
malum passionis quod infligitur ob malum actionis, cioè il corrispettivo per il male
commesso, e viene applicata quia peccatum est, cioè a cagione del reato
commesso. Si possono distinguere, però, due diversi aspetti: la retribuzione morale
e la retribuzione giuridica.
Per la retribuzione morale la pena è un esigenza etica profonda ed
insopprimibile della coscienza umana. E’ un’esigenza di ragione e poggia sull’idea
di giustizia, che postula che al bene segue il bene e al male il male. Punire il
colpevole è, dunque, una necessità in base a questo imperativo di giustizia che
scaturisce dalla coscienza umana e che secondo la teoria kantiana costituisce un
imperativo categorico, trovando in sé la sua giustificazione, senza bisogno di
ricercarla in qualsiasi utilità sociale esterna. Chi ben opera ha, perciò, diritto di
ottenere dall’ordinamento giuridico un riconoscimento o una ricompensa sotto
forma di un accrescimento delle sue possibilità giuridiche (diritto premiale). Chi
viola gli imperativi di legge deve sottostare ad una perdita o ad una dimuzione di
beni giuridici (diritto penale)
18
.
17
Secondo gli architetti che hanno progettato il carcere di Sollicciano (casa circondariale di
Firenze), uno dei carceri più interessanti dal punto di vista architettonico, l'assetto dell'istituto
avrebbe dovuto rappresentare un "brano della città", una continuazione naturale del tessuto urbano
dove il detenuto si sarebbe dovuto trovare a suo agio. Questo progetto è senz'altro interessante
anche per il contesto in cui si è sviluppato, visto che l'arco di tempo tra la progettazione e la
realizzazione ha coinciso con la riforma penitenziaria del 1975, con la quale si è proceduto al
riassetto, alla luce dei principi costituzionali, di tutta la materia penitenziaria.
18
FIANDACA, MUSCO, Diritto Penale, Parte Generale, IV Edizione, Zanichelli, Bologna, 2001.
pag.221
17
Per la retribuzione giuridica la pena trova il proprio fondamento non al di
fuori (nella coscienza umana), ma all’interno dell’ordinamento giuridico.
Poiché il delitto è ribellione del singolo alla volontà della legge, come tale
esige una riparazione, che valga a riaffermare la autorità della legge e che è data
dalla pena
19
.
Caratteri coessenziali della pena retributiva ed autentiche conquiste di civiltà
sono: la personalità della pena, in quanto il corrispettivo del male non può che
essere applicato all’autore del male. La proporzionalità della pena, in quanto il
male subito costituisce il corrispettivo del male inflitto se ed in quanto sia a questo
proporzionato. Nella proporzionalità sta la forza morale, la giustizia della pena
20
.
La determinatezza della pena, in quanto la pena, proporzionata ad un male
determinato, non può non essere anch’essa determinata. L’applicazione di una
pena indeterminata, quale sarebbe quella fissata nel minimo ma non nel massimo,
e un non senso dal punto di vista retributivo. La inderogabilità della pena, nel
senso che la pena, in quanto corrispettivo, deve sempre e necessariamente scontata
dal reo
21
.
Teoria dell’emenda. - Per questa dottrina la pena è protesa verso la
redenzione morale, il ravvedimento spirituale del reo. Per l’analoga teoria della
espiazione la pena ha la funzione di purificazione dello spirito, operando come
antidoto contro la immoralità per la forza purificatrice del dolore
22
.
Teoria della prevenzione generale (o della intimidazione). – Secondo questa
teoria (Romagnoli, Feuerbach), nata anch’essa nell’ambito della ideologia
illuministica, la pena ha invece un fondamento utilitaristico, costituendo un mezzo
per distogliere i consociati dal compiere atti criminosi
23
.
Teoria della prevenzione speciale. – Per questa teoria la pena ha la funzione
di eliminare o ridurre il pericolo che il soggetto, cui viene applicata, ricada in
futuro nel reato: si punisce ne peccetur. Mentre l’emenda attiene al piano morale-
spirituale, la prevenzione speciale, affermatasi solo nel secolo XIX con la Scuola
positiva e sviluppata dalla Nuova difesa sociale, è un concetto di relazione, che
19
HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma, 1979, pag. 92.
20
L’idea della proporzione segna il passaggio dalla vendetta, che è emozione, non controllata dalla
ragione e spesso sproporzionata alla entità del male subito, alla pena, che è atto di ragione e quindi
reazione proporzionata.
21
Anche quando la società civile si dissolvesse – affermava Kant per sottolineare la categoricità
dell’imperativo della pena – l’ultimo delinquente dovrebbe continuare ad espiare l’intera sua pena.
22
PETROCELLI, La funzione della pena, in Riv. Dir. Penit., 1935,1313
23
SPIRITO, Storia del dir. pen. Ital., Firenze 1974, pag. 143.
18
presuppone cioè la vita dell’uomo in società ed il suo ritorno in quella comunità da
cui si è estraniato. Essa perciò opera su un piano naturalistico, attraverso un
processo di riadattamento del soggetto alla vita sociale mediante l’eliminazione o
attenuazione dei fattori che ne hanno determinato o favorito il delitto.
Le varie teorie peccano, tutte di assolutezza
24
. La retribuzione e la
prevenzione generale ignorano la realtà dei soggetti che cadono o ricadono nel
delitto nonostante la minaccia del castigo e la sua concreta esecuzione. La
prevenzione speciale dimentica, a sua volta, i soggetti che non abbisognano di una
vera e propria opera rieducativa, nei confronti dei quali la pena non può avere che
una funzione retributivo-dissuasiva
25
. La teoria della retribuzione morale trova,
poi, il proprio limite nel fatto che l’imperativo morale di punire l’autore del male
non vale rispetto ai reati che non possono ritenersi in contrasto coi postulati
dell’etica. La teoria della prevenzione generale trova il proprio limite
nell’effettività della pena, per cui di fronte all’aumento della criminalità o della
cifra oscura si dovrebbe pervenire o al terrorismo penale a alla rinuncia della pena.
Negli ordinamenti moderni, sia occidentali che socialisti, la pena ha subito
continue trasformazioni che ne hanno fatto un mixtum compositum, in cui l’idea
centrale retributiva e intimidativa si combina e si contempera – in proporzione
variabile a seconda dei paesi e teorie – con le istanze preventivo-rieducative, per
cercare di conciliare le varie e complesse esigenze della lotta contro il crimine,
secondo le mutevoli necessità sociali. La stessa dottrina si sta sempre più
attestando su posizioni sincretistiche, riconoscendo la pluridimenzionalità della
pena moderna, che viene inflitta quia peccatum est et ne peccetur. In base a
nessuna singola teoria è possibile spiegare, infatti, la moderna complessità della
pena.
Tuttavia, anche se conosce e subisce delle incisive limitazioni e deroghe in
nome di altre non secondarie esigenze, l’idea retributiva resta l’idea forza, l’idea
centrale del diritto penale della libertà.
24
BALDASSARELLI, Funzione rieducativa della pena e nuovo processo penale, in Riv. It. Dir.
Pen., 1990, pag. 409.
25
FERRAJOLI, Diritto e ragione, settima edizione, Laterza, Roma, 2002, pag. 240.
19
2. Lavori preparatori dell’Assemblea Costituente.
Nel 1947 fu approvato il testo definitivo della Costituzione, elaborato dalla
"Commissione dei settantacinque", promulgato da Enrico De Nicola ed entrato in
vigore il primo gennaio del 1948.
Nella sua dizione attuale l'art. 27/3 Cost. recita: "le pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato", ma la formulazione iniziale che esso ebbe ad opera
dei relatori nominati in seno alla prima sottocommissione dell'Assemblea
Costituente, gli onorevoli Lelio Basso e Giorgio La Pira, iscritti rispettivamente al
Partito Socialista e alla Democrazia Cristiana, era differente: "Le sanzioni penali
devono tendere alla rieducazione del reo. La pena di morte non è ammessa se non
nei codici penali militari di guerra. Non possono istituirsi pene crudeli né irrogarsi
sanzioni collettive".
L'onorevole Aldo Moro, rappresentante del Partito della Democrazia
Cristiana, concordò con entrambi i relatori e propose una nuova formulazione, non
molto diversa: "non possono istituirsi pene crudeli e le sanzioni penali devono
tendere alla rieducazione del condannato"
26
. In tal modo si stabilisce che la pena
può essere afflittiva soltanto nei limiti in cui essa deve essere irrogata e si segnano
i limiti della necessità della sua afflizione.
Sull'argomento si discusse nella seduta del 25 gennaio 1947 in sede di
adunanza plenaria delle sottocommissioni e gli onorevoli Umberto Nobile ed
Umberto Terracini, entrambi rappresentanti del Partito Comunista, presentarono
un nuovo testo che recitava: "le pene e la loro esecuzione non possono essere
lesive della dignità umana. Esse devono avere come fine precipuo la rieducazione
del condannato allo scopo di farne un elemento utile per la società". Tale
formulazione, a differenza di quanto era stato deliberato in seno alla prima
sottocommissione, tentava di dare alla pena uno scopo e una funzione ben precisa
e soprattutto nuova rispetto a tutte le teorie elaborate in dottrina fino ad allora.
Un parere contrario all'inserimento nella Carta Costituzionale della finalità
rieducativa venne esposto dall'onorevole Cevolotto, iscritto al gruppo della
Democrazia del Lavoro, sul rilievo che "in seno alla prima sottocommissione non
si è voluto risolvere la questione sulla finalità della pena; essa ha, secondo alcuni,
26
TRITTO, op. cit., pag. 45
20
un fine di prevenzione, secondo altri ne ha uno d'intimidazione e secondo altri
ancora deve avere solo il fine della rieducazione del colpevole".
L'emendamento Nobile - Terracini venne posto a votazione e fu respinto,
mentre venne approvato il testo proposto dall'onorevole Giovanni Leone, iscritto al
Partito della Democrazia Cristiana, che all’art. 21 stabiliva: "Le pene devono
tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti
contrari al senso di umanità".
Il dibattito in Assemblea registra le voci della prudenza
27
. Non mancarono
gli interventi a favore del primato della funzione rieducativa,
28
ma numerosi
costituenti manifestarono il loro dissenso.
L'onorevole Paolo Rossi, rappresentante del Partito Socialista, espresse il suo
parere contrario sul seguente rilievo: "... è bene che la Costituzione sia ottimista,
ma occorre che non sia ingenua; è noto, infatti, che la rieducazione del condannato
è uno degli scopi della pena, ma, purtroppo, non è né l'unico né il principale; lo
scopo fondamentale di essa è principalmente la difesa sociale, e tutti sanno che è
impossibile parlare seriamente di rieducazione quando si tratti di condannati a
venti o a trent' anni di reclusione".
Inoltre occorre ricordare che, nel periodo in cui si svolsero i lavori
preparatori della Costituente, il dibattito sulle funzioni della pena ruotava ancora
intorno ai contrapposti principi della Scuola classica e della Scuola positiva: la
preoccupazione di alcuni costituenti era quella di rischiare, prendendo una
posizione costituzionale sulle finalità della pena, di schierarsi a favore di una delle
due Scuole. Si temeva che una simile formulazione, nella misura in cui attribuiva
un primato alla funzione rieducativa, fosse da interpretare nel senso di una
concessione alla Scuola positiva.
In effetti, considerata secondo gli orientamenti concettuali di allora, l'idea
rieducativa poteva essere ritenuta "figlia del positivismo criminologico"
29
: la
visione positivistica, infatti, contrapponeva, alla tradizionale impostazione
retribuzionistica, l'idea di una prevenzione speciale accentuatamente identificata
con la rieducazione e risocializzazione del reo. Al riguardo particolare rilievo ebbe
27
FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'Ottocento alla riforma penitenziaria, Mulino,
Bologna, 1980 pag. 73.
28
TUPINI, Presidente della Sottocommissione, nella seduta del 15 aprile del 1947.
29
FIANDACA, Commento all'art. 27 co. 3 Costituzione, in Commentario alla Costituzione, a cura
di BRANCA e PIZZORUSSO, Zanichelli, Bologna, 1989, pag. 225.