3
CAPITOLO I
LA DISCIPLINA COMUNITARIA IN MATERIA DI CRISI E
RISTRUTTURAZIONI D’IMPRESA
1. Premessa
L’influenza esercitata dalle fonti comunitarie in materia di politica sociale
sugli ordinamenti del lavoro degli Stati membri dell’Unione europea non si
risolve in un mero processo a senso unico, imperniato sul necessario adeguamento
delle normative nazionali alle regole dettate a livello sovranazionale
1
. Il processo
di europeizzazione dei sistemi di diritto del lavoro degli Stati membri, che trova
un’efficace descrizione nell’espressione cross fertilization, va inteso come un
«rapporto di reciproco condizionamento delle regole giuridiche nazionali e
sovranazionali che si realizza mediante un processo di osmosi tra ordinamenti
nazionali e ordinamento europeo»
2
.
In tal senso è sufficiente riflettere sul fatto che la giurisprudenza della Corte
di Giustizia, elaborata nell’ambito dei procedimenti d’interpretazione
pregiudiziale previsti dall’art. 234 del Trattato (già art. 177 TCE), ha trovato un
formidabile stimolo nelle iniziative di dialogo a distanza provenienti dai giudici
degli ordinamenti nazionali dei diversi Stati membri
3
.
Un altro tratto distintivo del processo di europeizzazione dei sistemi di
diritto del lavoro nazionali risiede nel «carattere parziale e incompleto
dell’ordinamento europeo, incompleto non solo nella configurazione istituzionale
e nella legittimazione democratica, ma negli stessi ambiti di competenza e nelle
funzioni fondamentali»
4
. Dalla nascita della Comunità ai nostri giorni la sfera
1
Cfr. M. Roccella, D. Izzi, Lavoro e diritto nell’Unione Europea, Padova, Cedam, 2010, p. 85.
2
B. Caruso, I diritto sociali nello spazio sociale sovranazionale e nazionale: indifferenza, conflitto
o integrazione?, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, INT-61/2008, p. 3 ss.
3
Cfr. M. Roccella, D. Izzi, op. cit., pp. 86, 87.
4
T. Treu, Diritti sociali europei: dove siamo, in LD, 2000, p. 432.
4
sociale europea ha vissuto un processo di indubbia espansione: tale processo,
tuttavia, lungi dallo svolgersi in maniera lineare, ha presentato e presenta tuttora
asperità, disomogeneità e risulta essere tutt’altro che concluso. In particolare
questo cammino si è articolato in diverse tappe: in ogni tappa il legislatore
comunitario si è concentrato su temi differenti (affrontati con strumenti e toni
regolativi eterogenei), che altro non sono che il riflesso delle preoccupazioni e
degli obiettivi degli attori europei, circoscrivibili nell’alveo delle contingenze dei
diversi periodi storici nei quali questo cammino si è dipanato
5
.
Le discipline comunitarie in materia di crisi e ristrutturazioni d’impresa,
sulle quali si concentrerà la nostra attenzione in questo lavoro, costituiscono uno
dei passaggi più importanti nell’ambito del processo evolutivo delle discipline
comunitarie connesse alla politica sociale
6
: esse si sono contraddistinte, nel corso
degli anni, per una evidente vitalità giuridica, a partire dalla prima generazione di
direttive adottate nella seconda metà degli anni Settanta, passando poi per le
direttive di seconda generazione che, a cavallo del nuovo secolo, hanno
perfezionato ed arricchito il precedente impianto normativo, senza dimenticare,
infine, la poderosa opera interpretativa da parte della Corte di Giustizia europea,
in un vivace dialogo instauratosi con i giudici nazionali degli Stati membri
7
.
Le discipline comunitarie di cui sopra costituiscono aree legislative
rigogliose, potendo vantare un’esistenza lunga, prolifica e fortunata. Esse sono
state «varate, in attuazione del primo Programma d’azione sociale (1974), sulla
base dei fondamenti generici forniti dagli artt. 100 e 235 (ora artt. 94 e 308) del
Trattato, ma [sono] dotate di un contenuto prescrittivo, ispirato dalla finalità di
armonizzazione, che, per la sua precisione e la sua portata inderogabile, stenta a
ritrovarsi nelle fonti adottate più tardi, in presenza di specifiche e più solide
competenze europee nella sfera della politica sociale»
8
. Questo è il tratto
unificante che ha contraddistinto la triade di direttive sulle crisi e le trasformazioni
5
Cfr. M. Roccella, D. Izzi, op. cit., p. 87, 88.
6
A tal proposito, in M. Roccella, D. Izzi, op. cit., p. 88, viene sostenuta la tesi secondo cui,
nell’ambito di questo processo evolutivo, le discipline relative alle crisi e ristrutturazioni di
impresa possono essere accomunate, per caratteristiche genetiche e grado di incidenza sugli
ordinamenti nazionali, alle discipline dedicate alla parità tra lavoratori e lavoratrici.
7
Cfr. M. Roccella, D. Izzi, op. cit., pp. 88-89. Sulla imponente opera interpretativa della Corte di
Giustizia in merito a tale disciplina v. S. Sciarra (a cura di), Labour Law in the Courts: National
Judges and the European Court of Justice, Oxford, Hart Publishing, 2001.
8
M. Roccella, D. Izzi, op. cit., p. 91.
5
di impresa
9
n. 75/129/CEE, n. 77/187/CEE e n. 80/987/CEE, concernenti
rispettivamente i licenziamenti collettivi, i trasferimenti d’azienda e l’insolvenza
datoriale.
2. Ratio giustificatrice
Uno dei tratti distintivi della legislazione lavoristica comunitaria degli anni
Settanta risiede nella tensione di quest’ultima tra due poli o anime diverse: la sua
natura è, infatti, sempre «risultata contesa tra una funzione sociale di tutela del
lavoro e una non meno rilevante funzione economica, volta a scongiurare la
possibilità di strategie distorsive della concorrenza tra imprese nella fase di
instaurazione del mercato interno»
10
.
Le distorsioni del mercato si identificano principalmente con i costi diretti
del lavoro affrontati dalle imprese europee, ma possono anche derivare dalla non
uniformità delle discipline interne degli Stati membri riguardanti quelle aree di
intervento legislativo intimamente collegate al mercato unico e quindi ai suoi
meccanismi concorrenziali, come ad esempio le situazioni di crisi e
ristrutturazione d’impresa, nella misura in cui tali difformità possono tradursi in
vantaggi competitivi indebiti per quelle imprese sottoposte a legislazioni nazionali
più blande
11
.
Va aggiunto, inoltre, che questo intento di salvaguardia degli equilibri
concorrenziali non si configurava come una preoccupazione eminentemente
comunitaria, ma piuttosto costituiva la «proiezione sovranazionale di un principio
primigenio già rinvenibile nella conformazione degli ordinamenti nazionali», o
ancora «una estensione alle imprese operanti nei diversi Stati membri di un
9
E, seguendo la tesi cui si è fatto riferimento nella nota n. 6, anche la triade di direttive sulla parità
tra lavoratori e lavoratrici n. 75/117, n. 76/207 e n. 79/7, concernenti rispettivamente il principio di
parità nelle retribuzioni, il principio di parità nell’accesso al lavoro, nella formazione e nella
promozione professionali e nelle condizioni di lavoro, il principio di parità in materia di sicurezza
sociale.
10
A. Lo Faro, Le direttive in materia di crisi e ristrutturazioni di impresa, in S. Sciarra, B. Caruso
(a cura di), Il lavoro subordinato, Torino, Giappichelli, 2009, p. 392.
11
Cfr. A. Lo Faro, Le direttive in materia di crisi e ristrutturazioni di impresa, cit., pp. 392-393, in
cui si rimanda, per una più completa analisi della questione, a S. Deakin, Labour Law as Market
Regulation: the Economic Foundations of European Social Policy, in P. Davies, A. Lyon-Caen, S.
Sciarra, S. Simitis (a cura di), European Community Labour Law. Principles and Perspectives.
Liber Amicorum Lord Wedderburn, Oxford, Clarendon Press, 1996, p. 63 ss.
6
elementare principio antidumping già riferibile a quelle operanti all’interno di uno
stesso Stato membro»
12
.
Armonizzare le discipline nazionali relative alle aree di intervento sopra
descritte ed in particolare, per quel che interessa maggiormente in questa sede,
alle situazioni di crisi e ristrutturazione di impresa, significava non solo garantire
standard di protezione omogenei per i lavoratori europei, ma anche fare in modo
che le imprese europee gestissero secondo modalità quanto più possibile simili
quelle contingenze macrostrutturali ascrivibili al contesto storico ed economico
degli anni Settanta
13
.
All’indomani del primo shock petrolifero, scatenato nel 1973 dall’embargo
petrolifero deciso dai paesi aderenti all’Organizzazione dei paesi arabi esportatori
di petrolio (OAPEC) nei confronti dei paesi sostenitori dello stato di Israele, il
tessuto delle relazioni industriali internazionali iniziò a manifestare preoccupanti
elementi disfunzionali che si tradussero principalmente in fenomeni di
concentrazione di imprese, chiusura di stabilimenti industriali, licenziamenti di
massa
14
. Un contesto così definito portò, come sua naturale conseguenza, ad un
generale aumento del tasso di disoccupazione che colpì ovviamente anche il
tessuto economico europeo e che spinse il legislatore comunitario ad adottare,
sulla scia delle indicazioni contenute nel Programma di azione sociale del 1974
15
,
tre direttive volte a contenere ed attutire le conseguenze negative sui lavoratori
delle sempre più frequenti circostanze di ristrutturazione o riorganizzazione di
impresa e di crisi aziendali: la direttiva in materia di licenziamenti collettivi varata
nel 1975, la direttiva in materia di trasferimento di impresa varata nel 1977, la
direttiva in materia di insolvenza datoriale varata nel 1980
16
.
La scelta del legislatore comunitario in merito alla tipologia di tutela da
approntare ai lavoratori per mezzo delle direttive appena citate, è ricaduta
principalmente sulla garanzia di «diritti procedurali, attraverso l’imposizione
dell’obbligo di informare e consultare i rappresentanti dei lavoratori in occasioni
12
A. Lo Faro, Le direttive in materia di crisi e ristrutturazioni di impresa, cit., p. 393.
13
Ibidem.
14
Cfr. B. Hepple, The crisis in EEC labour law, in ILJ, 1987, n. 16, p. 79.
15
In G.U.C.E. 12 febbraio 1974, n. C 13.
16
Cfr. M. Roccella, T. Treu, Diritto del lavoro della Comunità Europea, Padova, Cedam, 2009, p.
381.
7
traumatiche per le imprese, quali i licenziamenti collettivi o il trasferimento
d’azienda»
17
.
La base giuridica utilizzata per il varo di queste tre direttive “sorelle”, l’art.
100 del Trattato
18
(oggi art. 94 TCE), nel riferirsi testualmente a «direttive volte al
ravvicinamento delle disposizioni […] che abbiano un’incidenza diretta
sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune»
19
, sembra suggerire
un attento bilanciamento degli scopi costituenti la ratio di queste disposizioni:
traspare, infatti, dalla lettura dell’articolo appena citato e dal contesto in cui le
direttive sono state partorite, che la ratio economica legata alla garanzia degli
equilibri concorrenziali del mercato unico prevalga in un certo qual modo su
quella volta alla tutela dei lavoratori
20
.
Questa lettura “economicista” può essere sintetizzata affermando che nelle
tre direttive in oggetto «la salvaguardia delle posizioni dei lavoratori appare
funzionale ad evitare il verificarsi di fenomeni di distorsione nella concorrenza fra
imprese che operano all’interno di un medesimo mercato» e che le discipline
comunitarie in esse contenute «non puntano ad intaccare le prerogative
imprenditoriali in ordine alle scelte economiche fondamentali relative alla
gestione delle aziende, ma soltanto a fronteggiare le conseguenze sociali di tali
scelte»
21
.
17
A. Caiafa, R. Cosio, Diritto europeo: crisi d’impresa e sorte dei rapporti di lavoro, Milano,
Ipsoa, 2008, p. 7. Tra le occasioni traumatiche per le imprese non viene citata l’insolvenza
datoriale poiché la protezione offerta ai lavoratori dalla direttiva ad essa riguardante è
esclusivamente di tipo patrimoniale. La strumentazione protettiva differisce, peraltro, anche nelle
altre due direttive poiché mentre in quella sui licenziamenti collettivi sono previste solo misure
procedimentali, in quella sul trasferimento d’azienda è anche prevista una disciplina di diritto
sostanziale. In merito a questi ultimi argomenti cfr. M. Roccella, T. Treu, op. cit., p. 382, mentre
per una più puntuale descrizione ed analisi delle misure protettive previste dalle direttive in
oggetto si rimanda ai capitoli successivi.
18
Articolo che, secondo G. Arrigo, Il diritto del lavoro dell’Unione Europea, Tomo II, Milano,
Giuffré, 2001, pp. 60-61, si è potuto interpretare in maniera estensiva e dunque utilizzare come
base giuridica delle tre direttive di “prima generazione” in materia di crisi e ristrutturazione
d’impresa, alla luce del Programma d’azione sociale del 1974; senza il contributo di quest’ultimo,
l’art. 100 non sarebbe potuto essere utilizzato come fondamento giuridico per le direttive sulle
materie in oggetto, pur in presenza di differenze piuttosto significative nei sistemi di tutela dei
singoli Stati membri. Inoltre la prospettiva di integrazione “negativa” contenuta nell’art. 100, nella
misura in cui esso mira ad eliminare le differenze normative potenzialmente pregiudizievoli per il
corretto funzionamento del mercato comune, viene reindirizzata verso una prospettiva “positiva”
di integrazione tramite il riferimento all’art. 117 del Trattato, mirante al «miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro della manodopera che ne consenta la parificazione nel progresso».
19
In G.U.C.E. 24 dicembre 2002, n. C 325, p. 69.
20
Cfr. A. Lo Faro, Le direttive in materia di crisi e ristrutturazioni d’impresa, cit., p. 393.
21
M. Roccella, T. Treu, op. cit., p. 382.
8
Accanto a questa lettura, tuttavia, non mancano nel dibattito europeo
ricostruzioni incentrate su logiche che si discostano dalle valutazioni economiche
e funzionaliste appena citate e che assumono un taglio più propriamente sociale
22
.
Secondo tali letture l’humus della legislazione sociale comunitaria degli anni
Settanta risiede in un esplicito progetto sociale, svincolato da considerazioni di
natura economica, che trova il suo punto di riferimento nel già citato Programma
di azione sociale del 1974, primo vero punto di svolta della regolazione
comunitaria in materia di relazioni di lavoro (fino ad allora pressoché inesistente).
A motivare questa svolta, secondo i sostenitori di questa chiave
interpretativa
23
, v’era l’esigenza comunitaria di mettere mano ad un crescente
deficit di legittimazione politica (che sembrava in quegli anni accrescersi in
corrispondenza di un più approfondito processo di integrazione giuridica) tramite
un più risoluto intervento in campo sociale. L’intervento del legislatore
comunitario in materia di crisi e ristrutturazioni di impresa andrebbe dunque letto
come l’opportunità di fornire una risposta politica a problematiche sociali che, in
quel determinato quadro di riferimento storico, rischiavano di inficiare il delicato
sviluppo del mercato unico europeo
24
.
V’è infine una terza posizione, mediana rispetto a quelle appena descritte,
che mira a ridurre la distanza tra la prima e la seconda: se è vero, infatti, che le
direttive in materia di crisi e ristrutturazioni d’impresa non intervengono su alcuni
degli aspetti più onerosi per le imprese, come le indennità garantite ai lavoratori
licenziati, il regime fiscale applicabile alle imprese in ristrutturazione o la
conformazione alle procedure concorsuali previste dagli ordinamenti nazionali, il
che sembra far pendere l’ago della bilancia in favore di una lettura
“economicista”, d’altra parte è altrettanto vero che le tutele garantite sul piano
procedurale in termini di diritti di informazione e consultazione sembrano
propendere verso una finalità “sociale” mirante ad una maggiore partecipazione
22
Cfr. A. Lo Faro, Le direttive in materia di crisi e ristrutturazioni d’impresa, cit., p. 394.
23
M. Shanks, The Social Policy of the European Communities, in CMLR, 1977, vol. 14, p. 373; B.
Hepple, Labour Laws and Global Trade, Oxford, Hart Publishing, 2005, pp. 201-204.
24
Cfr. M. Fuchs, The Bottom Line of European Labour Law (Part I), in IJCLLIR, 2004, vol. 20, n.
2, p. 155 ss.
9
delle parti sociali ai processi decisionali della Comunità in ambito economico e
sociale e dei lavoratori alla vita delle imprese
25
.
Pare ragionevole accogliere questa terza chiave di lettura
26
, alla luce di
un’opera di legislazione che, nel periodo compreso tra il 1975 e il 1980, si
caratterizzava certamente per le venature “sociali” delle sue linee
programmatiche, ma che rimaneva al contempo ancorata ad un primigenio quadro
di riferimento di natura inequivocabilmente economica. A cambiare non fu,
dunque, la cornice all’interno della quale si declinavano gli interventi sociali del
legislatore comunitario, ma l’intensità di quest’ultimi
27
.
Le preoccupazioni e le problematiche da cui sono derivati gli stimoli per l’
intervento comunitario sopra descritto, lungi dall’essersi esaurite, hanno
continuato a tenere impegnati sia il legislatore europeo sia la Corte di Giustizia: i
fenomeni, e le conseguenze da essi discendenti, affrontati dalle direttive in
oggetto possono essere considerati delle costanti delle economie di mercato,
idonei cioè a ripresentarsi nel tempo con gradi di intensità diversi
28
. Proprio per
questo le autorità comunitarie sono tornate a confrontarsi con simili tematiche in
tre occasioni: nel 1992 a proposito dei licenziamenti collettivi, nel 1998 a
proposito del trasferimento d’impresa, nel 2002 a proposito dell’insolvenza del
datore di lavoro. L’ampio e ricco dibattito sviluppatosi sia nell’ambito della
dottrina, sia in quello giurisprudenziale (con in testa la Corte di Giustizia
europea), sulle discipline comunitarie in oggetto (con il trasferimento d’azienda a
ricoprire, in tal senso, il “ruolo del leone”), sono un ulteriore testimonianza della
larghissima attenzione ad esse rivolta
29
.
Alla base delle direttive di “seconda generazione” si ritrovano in buona
misura le medesime rationes socioeconomiche e i medesimi sistemi di tutela che
hanno contraddistinto le loro antenate. A mutare sono i fondamenti giuridici
utilizzati per la loro adozione, che, in particolare, fanno riferimento alle norme
contenute nell’Accordo sulla politica sociale (APS), firmato a Maastricht nel
25
Terza chiave di lettura, questa, rinvenibile in P. Davies, The emergence of European Labour
Law, in W. McCarthy (a cura di), Legal Intervention in Industrial Relations. Gains and Losses,
Oxford, Blackwell, 1992, p. 326.
26
Così A. Lo Faro, Le direttive in materia di crisi e ristrutturazioni d’impresa, cit., p. 395.
27
Cfr. P. Davies, The emergence of European Labour Law, cit., p. 326.
28
Cfr. M. Roccella, T. Treu, op. cit., p. 381.
29
Ivi, p. 382.
10
1992
30
. Tramite le norme codificate dall’Accordo è stato possibile tradurre «in
termini formali lo spirito di maggiore autonomia del diritto del lavoro dal diritto
della concorrenza e del mercato, anche se il miglioramento delle condizioni di vita
e di lavoro dei lavoratori deve essere materialmente compatibile con altri interessi
(come indicati nell’art. 136, 1° comma, TCE) e, soprattutto, con la necessità di
mantenere la competitività dell’economia della Comunità (art. 136, 2° comma,
TCE)»
31
.
In ultima analisi, sebbene nel corso degli anni fossero mutate la cause alla
base delle crisi e delle ristrutturazioni aziendali (tanto più frequenti quanto più
severo è il regime di concorrenza in cui si collocano le imprese), è rimasto
immutato, in occasione del varo delle direttive di seconda generazione di cui
sopra, l’atteggiamento di maggior propensione del legislatore comunitario per le
garanzie di tipo procedurale, volte a conciliare, tramite l’instaurazione di un
dialogo sociale aziendale, le esigenze di salvataggio proprie delle imprese in
difficoltà economiche con quelle di rafforzare le tutele dei lavoratori coinvolti in
tali processi e di migliorare la condizioni di vita e di lavoro degli stessi
32
.
3. Modello regolativo
Un ulteriore aspetto di comunanza tra le direttive appena citate, oltre alle
rationes socioeconomiche, si ricava dalla loro configurazione giuridica.
Le direttive in materia di crisi e ristrutturazioni d’impresa sono considerate
esempi paradigmatici di quel processo di progressivo ravvicinamento delle
legislazioni degli Stati membri della Comunità che passa sotto il nome di tecnica
30
L’Accordo è stato firmato da tutti gli Stati membri della Comunità ad eccezione del Regno
Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord. Le disposizioni in esso contenute sono state poi
incorporate nel Trattato CE, nel testo firmato ad Amsterdam nel 1997.
31
G. Arrigo, Il diritto del lavoro dell’Unione Europea, Tomo II, cit., p. 61. A consacrare questo
spirito di maggiore autonomia del diritto del lavoro dal diritto della concorrenza e del mercato,
contribuisce, secondo l’autore, l’esplicito riferimento, nell’art. 136 del Trattato di Amsterdam (ex
articolo 117), a principi fondamentali “propri della Comunità” (quali quelli definiti nella Carta dei
diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989), da considerarsi certamente più pregnante
rispetto al riferimento ai “principi comuni agli Stati membri” precedentemente contenuto nell’art.
117.
32
Favore comunitario nei confronti di tali tutele, che non si accompagna, peraltro, a previsioni
volte a garantirne una maggiore effettività. Sul punto cfr. G. Arrigo, Il diritto del lavoro
dell’Unione Europea, Tomo II, cit., p. 61.
11
di “armonizzazione” comunitaria e che, paradossalmente, trova proprio nelle
materie di riferimento delle tre direttive il terreno del suo tendenziale
superamento
33
.
Operando una scansione temporale più puntuale, si può affermare che fino
agli anni Sessanta l’armonizzazione comunitaria ha vissuto la fase della cosiddetta
“integrazione negativa”, volta cioè all’eliminazione di ogni potenziale ostacolo,
diretto o indiretto, alla creazione e al corretto funzionamento del mercato unico
europeo; durante gli anni Settanta si è passati alla fase della cosiddetta
“integrazione positiva”, all’interno della quale si riconobbe nelle direttive
comunitarie lo strumento più idoneo al perfezionamento del processo di
armonizzazione; a partire dagli anni Ottanta, infine, si inaugura la sua fase di
declino
34
.
Le citate direttive di prima generazione si collocano, dunque, nella fase
dell’integrazione positiva nella quale si gettano le basi per un’unione monetaria ed
economica accompagnata da misure di carattere sociale, alla luce del principio
secondo cui «l’espansione economica non è un fine in sé, ma deve tradursi in un
miglioramento della qualità e del livello di vita»
35
, declinandosi in tre obiettivi
piuttosto ambiziosi: la realizzazione del pieno e migliore impiego, il
miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, la partecipazione delle parti
sociali alle decisioni economico-sociali della Comunità e dei lavoratori (come
anche i sindacati e le organizzazioni dei datori di lavoro) alla vita delle imprese
36
.
Il mezzo tramite il quale pervenire a tali obiettivi fu individuato nell’art. 100 del
Trattato (v. supra, par. 1), uno strumento di carattere generale sulla base del quale,
con decisione all’unanimità, approvare direttive che rispondessero sia ad una
logica di armonizzazione funzionalista, volta all’eliminazione degli ostacoli alla
libera concorrenza (come le direttive di cui ci si occupa in questo lavoro ed in
particolare quelle in materia di licenziamenti collettivi e di trasferimento
d’azienda), sia ad una logica di armonizzazione coesiva, volta ad allineare le
legislazioni interne degli Stai membri intorno ai principi costituzionalizzati nei
trattati (come ad esempio il principio della parità dei sessi, di cui le direttive di
33
Cfr. A. Lo Faro, Le direttive in materia di crisi e ristrutturazioni d’impresa, cit., p. 395.
34
Cfr. S. Giubboni, Diritti e politiche sociali nella “crisi” europea, in WP C.S.D.L.E. “Massimo
D’Antona”, INT-17/2004, p. 7; A. Bellavista, Armonizzazione e concorrenza tra ordinamenti nel
diritto del lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, INT-47/2006, p. 11.
35
Bollettino CEE, supplemento n. 2/74.
36
Cfr. M. Roccella, T. Treu, op. cit., p. 11.
12
prima generazione in materia sono un fulgido esempio) oppure ad obiettivi sociali
specifici (come il miglioramento dell’ambiente di lavoro o l’informazione e
consultazione dei lavoratori nell’impresa)
37
.
Le direttive partorite nella fase più intensa del processo di implementazione
del c.d. modello di “integration through law”
38
– che conosce la sua fase di
massima espressione tra il 1975 e il 1985 – sono state poi additate, insieme agli
eccessi delle legislazioni sociali e alle prassi sindacali degli Stati membri, come le
cause principali di quella “euro-sclerosi” che rischiava di minare la competitività
dell’economia europea.
39
La critica all’eccessiva regolamentazione comunitaria,
incarnata dall’offensiva politica e culturale del neoliberismo, si traduceva sul
piano concreto nella spinta ad introdurre forme di deregulation e di flessibilità nei
sistemi nazionali e nel mercato europeo
40
ed in una scontata «opposizione ad ogni
ulteriore regolazione sociale a livello comunitario, ritenuta una potenziale
aggravante per i mali europei»
41
. Questa opposizione, sostenuta da diversi governi
nazionali – in particolare dalla Gran Bretagna di Margaret Thatcher – e dal mondo
imprenditoriale, «è riuscita per diversi anni a bloccare tutte le iniziative in cantiere
delle autorità comunitarie e ad impedirne di nuove»
42
.
Per altro verso l’armonizzazione era resa «ancora più ardua – ma insieme
più urgente – dall’adesione alla Comunità di paesi come la Grecia (nel 1980) e
Spagna e Portogallo (1986), caratterizzati da condizioni retributive e di lavoro
alquanto inferiori a quelle degli altri Stati membri, nonché da alti tassi di
disoccupazione»
43
.
Se è pur vero che il diritto del lavoro comunitario ha continuato, nonostante
le difficoltà appena descritte, a svilupparsi oltrepassando i confini delle aree
tradizionali di intervento, come la parità tra i lavoratori di sesso maschile e di
sesso femminile e le crisi e ristrutturazioni d’impresa, ramificandosi nelle materie
37
Cfr. M. D’Antona, Armonizzazione del diritto del lavoro e federalismo nell’Unione europea, in
RTDPC, 1994, pp. 700 ss.; M. Roccella, T. Treu, op. cit., p. 11.
38
Per un’ampia dissertazione su tale modello, si rimanda a M. Cappelletti, M. Seccombe, J.H.H.
Weiler (a cura di), Integration through law: Europe and the American Federal Experience, Berlin,
De Gruyter, 1986.
39
Cfr. M. Roccella, T. Treu, op. cit., p. 12.
40
Cfr. G. Bamber, Job Flexibility: International Comparisons and Research Propositions, in A.
Gladstone, H. Wheeler, J. Rojot (a cura di), Labour Relations in a Changing Environment,
Berlino, De Gruyter, 1992, p. 75 ss.
41
M. Roccella, T. Treu, op. cit., p. 12.
42
Ibidem.
43
Ibidem.
13
relative alla tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro, all’orario di
lavoro, ai lavori atipici, è altrettanto vero che, negli intenti comunitari, iniziava a
prendere vita una nuova linea di intervento «espressamente basata su strumenti
regolativi di carattere non legislativo»
44
.
Il nuovo corso, anelante alla promozione di un «coordinamento per
obiettivi, realizzato nelle forme tipiche del soft law, ossia mediante strumenti
regolativi non vincolanti variamente configurati – adozione di linee guida comuni
(guidelines), individuazione di benchmarks per la misurazione delle performances
nazionali, promozione e trasferimento di “buone pratiche”, sorveglianza
multilaterale dei governi nazionali (peer review) –, nonché attraverso sanzioni
dissuasive per gli Stati che si discostino dagli orientamenti comunitari»
45
, prende
il nome di Metodo aperto di coordinamento (MAC) ed è stato formalmente
sancito e consacrato dal Trattato di Amsterdam (1997)
46
.
44
A. Lo Faro, Le direttive in materia di crisi e ristrutturazioni d’impresa, cit., p. 396.
45
M. Roccella, T. Treu, op. cit., p. 23.
46
Per una trattazione puntuale ed analitica dei passi intermedi fondamentali che hanno portato
all’affermazione del Metodo aperto di coordinamento v. M. Roccella, T. Treu, op. cit., pp. 13-36.
Essi coincidono con le modifiche apportate al Trattato di Roma a partire dal 1986, che possono
essere sintetizzate in quattro passaggi. Il primo passaggio è segnato dall’entrata in vigore dell’Atto
unico europeo (AUE) il 1° luglio 1987, che con l’introduzione dell’art. 118 A (v. supra, p. 3), il
quale sostituisce la regola dell’unanimità con quella della maggioranza per l’ambiente di lavoro,
cerca di contrastare e aggirare l’ostruzionismo britannico, e dall’approvazione della Carta
comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori nel 1989 (v. supra, p. 3), che
controbilanciava gli scarsi contenuti sociali in favore dei lavoratori dell’AUE, sebbene non avesse
valore vincolante. Il secondo passaggio coincide con l’entrata in vigore, il 1° Novembre 1993, del
Trattato sull’Unione europea (firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992) che, con un protocollo
separato ed un Accordo sulla politica sociale (APS), apre una fase di integrazione sociale “a due
velocità”. Gli artt. 117 e 118 vengono riscritti introducendo una competenza concorrente in
materia di occupazione, diritto al lavoro e condizioni di lavoro, formazione e perfezionamento
professionale, sicurezza sociale, tutela contro gli infortuni e le malattie, igiene del lavoro, diritto
sindacale e trattative collettive tra lavoratori e datori di lavoro, e la facoltà del Consiglio di
adottare direttive a maggioranza qualificata. Gli artt. 3 e 4 dell’APS rafforzano il metodo negoziale
affidando alle parti sociali sia un ruolo consultivo (obbligo di consultazione delle parti sociali a
carico della Commissione in caso di interventi in campo sociale), sia un ruolo normativo (potere di
iniziativa legislativa diretta delle parti sociali tramite accordi contrattuali). Il terzo passo fa
riferimento all’entrata in vigore, il 1° maggio 1999, del Trattato di Amsterdam che, con
l’incorporamento dell’APS nel Trattato, supera la fase dell’integrazione “a due velocità” e, inoltre,
introducendo un nuovo titolo sull’occupazione, legittima formalmente la Comunità a legiferare in
una materia fino ad allora di competenza esclusiva degli Stati membri. Il quarto ed ultimo
passaggio si è registrato con l’entrata in vigore, il 1° Febbraio 2003, del Trattato di Nizza volto a
definire quelle riforme istituzionali necessarie al corretto funzionamento delle istituzioni
comunitarie dopo l’allargamento dell’Unione a 25. In occasione del vertice di Nizza (dicembre
2000), è stata firmata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, a dispetto della sua
solennità, rimaneva una dichiarazione priva di efficacia vincolante. La svolta decisiva in merito a
quest’ultimo aspetto si è infine avuta con l’entrata in vigore, il 1° dicembre 2009, del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea che, con l’inserimento di un rinvio alla Carta dei diritti
fondamentali, ha conferito a quest’ultima, dopo tanta attesa, valore giuridico vincolante.
14
Il terreno in cui si registra la più vivace sperimentazione di questo nuovo
metodo, nell’ambito del diritto del lavoro comunitario, sono le politiche in materia
di occupazione che hanno preso piede con l’elaborazione della Strategia europea
per l’occupazione (SEO), inaugurata nel vertice sull’occupazione di Lussemburgo
del novembre 1997
47
.
Secondo quanto indicato dalla Commissione nella Comunicazione del 2005
dal titolo “Ristrutturazioni e occupazione”
48
, anche i fenomeni di crisi e
ristrutturazione d’impresa saranno interessati da questo nuovo approccio
regolativo: «ciò comporta, o meglio comporterà in futuro, un deciso mutamento di
rotta rispetto alla politica dell’armonizzazione legislativa
49
, […] che dovrebbe
dispiegarsi lungo tre linee direttrici»
50
.
In primo luogo, l’approdo verso un approccio regolativo più leggero in
materia di crisi e ristrutturazione d’impresa comporta: la creazione di un
European Restructuring Monitor come sede di coordinamento e di controllo
sull’attuazione degli orientamenti comunitari; un deciso appello al dialogo
sociale; l’istituzione di un Forum ristrutturazioni finalizzato alla promozione e
alla realizzazione di varie iniziative con il contributo partecipativo della
Commissione (oltre che delle altre istituzioni europee), delle parti sociali e di
autorevoli rappresentanti della comunità scientifica; infine, ma non per
importanza, una più puntuale definizione della nozione di “responsabilità sociale
delle imprese”
51
.
In secondo luogo sembra emergere dagli intenti della Commissione una
strategia volta a rivalutare le sovranità nazionali degli Stati membri, considerando
questi ultimi come i terreni più fertili in cui trovare le risposte alle ardue sfide che
si prospettano in tale area
52
. Il ruolo che l’Unione vuole assumere in tal senso è
quello di un foro di discussione e di confronto all’interno del quale possano
47
Sul punto si rimanda nuovamente a M. Roccella, T. Treu, op. cit., p. 23, 25, 26.
48
Comunicazione della Commissione, Ristrutturazioni e occupazione. Anticipare e accompagnare
le ristrutturazioni per ampliare l’occupazione: il ruolo dell’Unione europea, COM (2005) 120
def., 31 marzo 2005.
49
Di cui le direttive in materia di crisi e ristrutturazione di impresa erano state l’espressione
paradigmatica.
50
A. Lo Faro, Le direttive in materia di crisi e ristrutturazioni d’impresa, cit., p. 396.
51
Cfr. A. Lo Faro, Le direttive in materia di crisi e ristrutturazioni d’impresa, cit., pp. 396-397.
52
Cfr. Comunicazione della Commissione. Ristrutturazioni e occupazione, cit., p. 6.
15
prendere piede nuove strategie, basate sul benchmarking e sullo scambio di best
practices, la cui attuazione venga affidata agli attori dei contesti nazionali
53
.
In terzo luogo, infine, sembra emergere una nuova rappresentazione delle
crisi e ristrutturazioni d’impresa che va a mutare non il metodo dell’intervento
comunitario, quanto piuttosto il merito stesso di quell’intervento
54
. I processi di
ristrutturazione d’azienda non vengono più esclusivamente considerati come
sintomi patologici delle crisi economiche, ma vengono interpretati «alla stregua di
fisiologiche risposte manageriali ad impulsi provenienti dai contesti di mercato, in
una logica di assestamento della struttura produttiva che non procede
necessariamente attraverso eventi traumatici (la “crisi”, appunto) dilazionati nel
tempo (la “ristrutturazione”), ma attraverso aggiustamenti successivi che si
susseguono quasi senza soluzione di continuità»
55
. Le ristrutturazioni, dunque,
non si traducono più in fenomeni da temere e di cui diffidare, ma in fenomeni da
accompagnare, al fine di coglierne anche i potenziali elementi di positività
56
.
È doveroso infine aggiungere che le argomentazioni fin qui esposte in
merito all’applicazione e all’evoluzione del Metodo aperto di coordinamento, che,
per ciò che riguarda nello specifico le crisi e le ristrutturazioni d’impresa,
appartengono al futuro della regolazione comunitaria, non vanno lette e analizzate
nell’ottica di un definitivo accantonamento del metodo di armonizzazione
legislativa, ma al contrario devono essere considerate come fattori sottintesi al suo
consolidamento
57
.
Il quadro giuridico odierno sul tema posto alla nostra attenzione in questa
sede «risulta quindi ben più movimentato rispetto a quello delle origini, pur non
sembrando avere guadagnato molto in termini di completezza e coerenza
interna»
58
.
53
Cfr. A. Lo Faro, Le direttive in materia di crisi e ristrutturazioni d’impresa, cit., p. 397.
54
Ibidem.
55
M. Novella, Il trasferimento di imprese, in F. Carinci, A. Pizzoferrato (a cura di), Diritto del
lavoro dell’Unione Europea, Torino, Utet Giuridica, 2010, p. 681.
56
Cfr. A. Lo Faro, Le direttive in materia di crisi e ristrutturazioni d’impresa, cit., p. 397.
57
Ibidem.
58
M. Roccella, D. Izzi, op. cit., p. 118. Per una più approfondita spiegazione di tale giudizio v. J.P.
Lhernould, Le droit européen des restructurations, un droit en zig-zag?, in DrSoc, 2008, p. 1265
ss.
16
CAPITOLO II
IL TRASFERIMENTO D’IMPRESA
1. Premessa
La circostanza che un’unica disciplina, quella cioè relativa al trasferimento
d’azienda, neppure particolarmente voluminosa, sia balzata prepotentemente
all’attenzione dei principali attori del contesto comunitario, può spiegarsi per una
serie di motivi: «per la massiccia diffusione ed il peso economico, senza dubbio,
dei fenomeni di ristrutturazione aziendale e di outsourcing
1
, che ricadono entro il
suo campo d’applicazione; ma anche, e soprattutto prima del restyling di fine
secolo, per i nervi scoperti e le zone d’ombra che punteggiano il suo testo,
aprendo varchi nei quali si insinuano possibilità di fuga dai vincoli legali e
divergenze interpretative»
2
.
Basata sull’art. 100 del Trattato (ora art. 94 TCE), la direttiva n.
77/187/CEE del 14 febbraio 1977 venne adottata al fine di eliminare le differenze
intercorrenti tra le discipline degli Stati membri in merito all’entità della
protezione accordata ai lavoratori coinvolti in una vicenda di trasferimento
d’azienda, in quanto potenziali minacce al buon funzionamento del mercato
comune
3
. La direttiva n. 77/187/CEE è stata in seguito ampiamente rivisitata dalla
direttiva n. 98/50/CE, del 29 giugno 1998, la quale ha cercato di rimuovere alcuni
dei varchi presenti nel testo precedente, ed infine formalmente abrogata dalla
direttiva n. 2001/23/CE, del 12 marzo 2001, con la quale si è provveduto a
codificare la normativa comunitaria, per esigenze di chiarezza, senza tuttavia
apportare ulteriori innovazioni rispetto al testo del 1998
4
.
1
Il quale si realizza tramite il trasferimento di una parte dell’impresa.
2
M. Roccella, D. Izzi, Lavoro e diritto nell’Unione Europea, Padova, Cedam, 2010, p. 123.
3
Secondo quanto è affermato nel preambolo della direttiva stessa.
4
Cfr. M. Roccella, T. Treu, Diritto del lavoro della Comunità Europea, Padova, Cedam, 2009, p.
383.
17
L’evoluzione del contesto di riferimento e di quello normativo non ha,
tuttavia, modificato o snaturato il significato attribuibile all’intervento
comunitario, dal momento che lo scopo che soggiace alle tre direttive sopra citate
è rimasto, nelle intenzioni del legislatore europeo, «quello di evitare che il
trasferimento dell’impresa o di parte di essa sia l’occasione per ridurre
surrettiziamente la forza lavoro occupata e/o per peggiorare i trattamenti
economici e normativi applicati ai prestatori di lavoro»
5
.
La disciplina non pone limiti o divieti alla circolazione delle imprese o di
parti delle stesse: le decisioni relative all’opportunità di trasformare, rimodulare
ed eventualmente riaggregare l’impresa rimangono, cioè, confinate nella sfera di
autonomia decisionale dell’imprenditore, il quale resta libero di poter utilizzare
tali strumenti sia per garantire la sopravvivenza dell’impresa, sia per rispondere
alle variazioni del contesto economico tramite dinamiche di sviluppo
organizzativo
6
. La garanzia delle prerogative imprenditoriali in merito ai processi
di trasferimento d’azienda trova una sua valida e lucida spiegazione nella
consapevolezza del legislatore comunitario «che la migliore tutela per il
lavoratore non si realizza ostacolando o vietando le decisioni di trasferire
l’impresa (o il ramo d’impresa), posto che le più concrete chances di
mantenimento nel lungo periodo dell’occupazione e dei diritti del singolo
dipendono, in molte circostanze, non solo dalle previsioni normative che in tal
senso eventualmente dispongano, ma dalla possibilità del prestatore di lavoro di
seguire il destino di imprese o di rami di esse che abbiano la capacità di
sopravvivere e di svilupparsi nel mercato»
7
.
Quest’ultima considerazione non deve tuttavia indurci a concludere che
l’intervento comunitario in materia sia sintetizzabile nell’intento di favorire le
dinamiche di trasformazione, segmentazione e circolazione d’impresa:
considerare queste direttive esclusivamente come strumenti di riorganizzazione
delle imprese e di adattamento dei livelli occupazionali
8
significherebbe appiattire
la ratio dell’intervento comunitario esclusivamente sulla protezione degli interessi
5
M. Novella, Il trasferimento di imprese, in F. Carinci, A. Pizzoferrato (a cura di), Diritto del
lavoro dell’Unione Europea, Torino, Utet Giuridica, 2010, p. 682.
6
Sulla salvaguardia delle prerogative imprenditoriali connesse alle scelte economiche
fondamentali sulla gestione dell’impresa cfr. M. Roccella, T. Treu, op. cit., p. 382 e M. Novella, Il
trasferimento di imprese, cit., p. 682.
7
M. Novella, Il trasferimento di imprese, cit., p. 682.
8
Così come sostenuto in G. e A. Lyon-Caen, Droit social International et europeén, Paris, Dalloz-
Sirey, 1993, p. 308.