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scoprirne le possibilità di competitività ed efficienza nei mercati non soltanto lo-
cali ma internazionali.
Nel primo Capitolo del presente lavoro è stato qualificato il concetto di di-
stretto industriale con l’introduzione delle definizioni storiche di distretto indu-
striale riconducibili ai pionieristici studi di Alfred Marshall (1890) e ai recenti
contributi di Giacomo Becattini.
Non saranno proposte, però, soltanto le varie definizioni degli studiosi, ma,
saranno esposte anche le metodologie utilizzate per l’identificazione dei distretti,
cercando di evidenziare gli aspetti positivi e negativi, nonché le problematiche an-
cora aperte. Ampio spazio sarà dato alla metodologia applicata dall’ISTAT, non-
ché al ruolo istituzionale svolto dalle regioni.
Il Capitolo, però si sofferma a proposito dei diversi aspetti del distretto,
partendo, dal presupposto che la comunità di persone che in esso vive, opera e si
sviluppa, ha come caratteristica principale il fatto di incorporare un sistema omo-
geneo di valori che “si esprime in termini di etica del lavoro e dell’attività, della
famiglia, della reciprocità, del cambiamento”. La popolazione di imprese, ad esso
appartenenti, di fatto fa parte di uno stesso settore industriale e ciascuna è specia-
lizzata in una o più fasi del processo produttivo tipico del distretto.
Nel secondo Capitolo, il Distretto Industriale, in quanto sistema locale ca-
ratterizzato dalla compresenza in una ristretta area geografica di un insieme di
piccole imprese indipendenti e specializzate in fasi diverse di uno stesso processo
produttivo, sarà analizzato dal punto di vista della gestione strategica dello stesso.
Partendo dall’analisi delle risorse detenute dal sistema, saranno specificati
i benefici che tali contesti riescono a trarre dalle risorse esterne, traducibili in eco-
nomie di agglomerazione, e dalle risorse interne, cioè dalla figura
dell’imprenditore e dal complesso di valori, conoscenze e saperi che sono imper-
niati nei soggetti che non solo lavorano nella comunità, ma sono parte integrante
della stessa.
LE DINAMICHE FINANZIARIE NEI DISTRETTI INDUSTRIALI
5
Obiettivo di questo capitolo, infatti, è quello di analizzare anche sul piano
empirico se le imprese distrettuali siano, malgrado la dimensione, effettivamente
più competitive di quelle “isolate” e da quali elementi tale competitività sia de-
terminata. A questo scopo, il vantaggio competitivo dei Distretti viene ricercato e
analizzato, attraverso un’analisi dei dati, nei differenziali di redditività delle im-
prese distrettuali rispetto a quelle “isolate” e nella ricerca di un’evidenza empirica
che ne spieghi la relazione con variabili economiche e di contesto.
Nel terzo Capitolo, infine, si proporrà un’analisi degli aspetti finanziari re-
lativi a tali sistemi locali ed in particolare dopo aver analizzato le particolari rela-
zioni finanziarie che vengono ad istaurarsi tra le imprese del distretto, si analizze-
ranno le principali fonti di finanziamento scelte e, soprattutto, se la scelta ricade
su di una banca esterna al sistema distrettuale o verte su di una banca, che per ra-
gioni di vantaggi non solo economici ma anche competitivi, ha scelto proprio di
localizzarsi all’interno del distretto.
Nello sviscerare il rapporto duale che viene a crearsi tra le imprese e le
banche si analizza, pertanto, il ruolo che hanno le banche locali e le banche coope-
rative all’interno degli stessi, ruolo alquanto importante poiché tali tipologie di
banche, per riuscire ad avere successo in tali sistemi con forti interdipendenze tra
le imprese, devono riuscire almeno a ridurre i comportamenti opportunistici tipici
di questo sistema e cioè l’opportunismo nelle scelte dovuto a fenomeni di selezio-
ne avversa e azzardo morale. Tali comportamenti che si sviluppano all’interno dei
distretti sono, principalmente, dovuti al generarsi di asimmetrie informative esi-
stenti tra le parti del sistema, e, cioè tra le banche locali detentrici di informazioni
che all’interno del distretto sono facili da acquisire e le imprese le quali in vista di
comportamenti di selezione avversa proposti dalle stesse possono optare per la
scelta verso una banca esterna.
In definitiva, sarà analizzato anche il ruolo assunto dagli Accordi sul Capi-
tale proposti dal Comitato di Basilea, e sulle successive modificazioni dello stes-
so, approfondendo nello specifico il forte impatto che tali Accordi hanno avuto e
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6
avranno sulle piccole e medie imprese, non dotate di ingenti capitale e di procedu-
re organizzative tali da ridurre i rischi relativi agli investimenti. Come soluzione a
tali problemi sarà proposto il ruolo di garante svolto dai Consorzi di Garanzia, u-
nico strumento che potrebbe rendere meno difficoltoso la problematica della espo-
sizione del proprio merito di credito da parte delle imprese appartenenti ad un si-
stema distrettuale. Analizzare il rapporto banche-PMI nel distretto, dovrebbe, in
effetti, rappresentare il punto di partenza per una riflessione più profonda, svolta
anche da parte degli stessi attori locali, circa la strategia da voler mettere in campo
per far crescere l’imprenditorialità nello stesso distretto, creare maggiore fiducia
nei giovani che intendono mettersi in proprio, far diventare più mature e competi-
tive le realtà imprenditoriali che già esistono e che, in molti campi, rappresentano
l’Italia nel mondo.
LE DINAMICHE FINANZIARIE NEI DISTRETTI INDUSTRIALI
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CAPITOLO 1
I DISTRETTI INDUSTRIALI: RELAZIONI TRA I DIVERSI ATTORI DEL DI-
STRETTO.
1. ORIGINE E SVILUPPO DEL DIBATTITO SUI DISTRETTI INDU-
STRIALI.
I fenomeni di concentrazione spaziale di attività produttive nel corso degli
anni hanno guadagnato sempre più spazio nell’ambito di studi e dibattiti economi-
ci, sia teorici che empirici. L’interesse verso questi sistemi di agglomerazione e-
conomica risulta comprensibile, perché essi, in alcuni contesti, per lo più regiona-
li, vanno ad identificare l’architettura produttiva principale dell’economia locale e
manifestano spesso una notevole capacità di contribuire in modo consistente allo
sviluppo.
La paternità del concetto di distretto industriale spetta a Marshall (1890)
che, nei suoi “Principles of Economics”, introduce nello schema teorico di analisi
neoclassica il concetto di distretto industriale e lo definisce come “un’entità socio-
territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territoriale circo-
scritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone
e di una popolazione di imprese industriali”. La comunità di persone ha come ca-
ratteristica principale il fatto di incorporare un sistema omogeneo di valori che “si
esprime in termini di etica del lavoro e dell’attività, della famiglia, della reciproci-
tà, del cambiamento”. La popolazione di imprese appartiene ad uno stesso settore
industriale, in senso ampio, e ciascuna è specializzata in una o più fasi del proces-
so produttivo tipico del distretto
1
.
1
Marshall A. Principles of Economics, Macmillan & Co, Londra,1890; trad. italiana “Principi di
Economia”, UTET, Torino, 1959.
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8
I vantaggi di questi sistemi si esprimerebbero, dunque, in una consistente
specializzazione produttiva e in una manodopera altamente specializzata e con-
centrata nel territorio del distretto, ma gli effetti di queste agglomerazioni non si
esauriscono però solo nell’ambito dei processi produttivi e delle dinamiche del
mercato del lavoro, ma anche nella capacità dei distretti di integrarsi o disintegrar-
si verticalmente, in relazione alle mutevoli condizioni del mercato e della tecnolo-
gia, anche in quanto agiscono come fattori di dinamica industriale ed innovativa.
Il dibattito nato negli anni Settanta attorno ai distretti industriali marshal-
liani partiva dalla conferma empirica dell’esistenza di rendimenti crescenti nel
processo produttivo geograficamente concentrato rispetto a quello isolato. Tale
dibattito ha portato alla riscoperta del distretto come unità d’indagine
dell’economia industriale, come nuovo paradigma teorico per l’interpretazione
della realtà sociale, spostando l’attenzione dall’impresa al luogo del quale essa fa
parte, cioè dell’ambiente socio-territoriale nel quale il processo produttivo si svol-
ge.
2
Gli studiosi di economia, dopo aver riscoperto alla fine degli anni Settanta
il distretto industriale ed aver messo a punto modelli e teorie specifiche per inter-
pretarne la struttura e le dinamiche, stanno dedicando uno spazio crescente nei lo-
ro studi e nelle loro ricerche a tale modello di organizzazione economica, che, fra
l’altro, continua a suscitare grande interesse anche all’estero, sia presso gli acca-
demici, sia presso i responsabili delle politiche economiche a livello nazionale e
locale, in quanto espressione di un modello produttivo di successo della realtà ita-
liana.
Il rinato interesse verso questi fenomeni si deve, anche, grazie ai lavori
pionieristici di Krugman, i quali hanno dato nuovi impulsi alla ricerca ed hanno
restituito interesse e “legittimità” teorica ad un argomento, quello della dimensio-
ne spaziale dei fenomeni economici, che dopo un periodo di relativo interesse ne-
2
Becattini G., Il distretto industriale: un nuovo modo di interpretare il cambiamento economico,
Rosenberg & Sellier,Torino, 2000.
LE DINAMICHE FINANZIARIE NEI DISTRETTI INDUSTRIALI
9
gli anni ‘50 era stato tralasciato dagli economisti. L’attenzione sempre maggiore
verso questi fenomeni ha portato, infatti, Krugman (1991) a definire il distretto
come la “ (…) concentration as one of the most striking feature of the geography
of economic activity”.
La tipicità del modello di sviluppo locale italiano, inoltre, ha spinto alcuni
studiosi a creare all’interno della classificazione dei distretti industriali una speci-
fica categoria per l’analisi del caso italiano. In realtà, la sua peculiarità è stata
chiaramente messa in risalto dalla classificazione di Markusen dove il distretto
marshalliano vero e proprio (quello più “puro”, caratterizzato da una molteplicità
di piccole e medie imprese collegate orizzontalmente e verticalmente all’interno
della filiera produttiva) viene messo a confronto con:
1. il distretto hub and spoke, identificato dalla presenza di un impresa
leader attorno alla quale ruotano imprese di servizi o subfornitori;
2. la satellite industrial platform, figlia della delocalizzazione del di-
stretto che concentra in nuove aree territoriali le unità di produzione mante-
nendo nelle aree dei distretti originari le funzioni più strategiche e a più alto
valore aggiunto;
3. il distretto state anchored, nel quale imprese o istituzioni pubbliche
(istituzioni di ricerca, istituzioni militari) svolgono il ruolo di propulsione.
3
3
Più in dettaglio Markusen (1996) elenca le seguenti caratteristiche chiave per i quattro tipi di ag-
glomerazione: 1) Distretto Marshalliano: struttura economica dominata da piccole imprese di pro-
prietà locale, economie di scala relativamente basse, commercio intradistretto, decisioni di inve-
stimento localizzate, prevalenza di relazioni contrattuali di lungo periodo, basso grado di coopera-
zione con imprese esterne, mercato del lavoro interno flessibile, alto tasso di immigrazione e basso
di emigrazione della forza lavoro, evoluzione verso un'unica cultura locale, risorse finanziarie, te-
conologiche e di business esterne alle imprese e interne al distretto. 2) Distretto Hub-and-Spoke:
dominio di una o più grandi imprese verticalmente integrate e circondate da piccole imprese, core-
firms localizzate internamente, alti legami con domanda e offerta all'esterno, economie di scala
relativamente alte, forti rapporti intradistrettuali tra grandi imprese e fornitori, decisioni di inve-
stimento esterne al distretto, relazioni di lungo periodo tra grandi imprese e fornitori, alto grado di
cooperazione con imprese esterne, bassa incidenza di scambi tra clienti e fornitori, bassa coopera-
zione tra imprese grandi per ridurre rischi e stabilizzare mercati, alto tasso di immigrazione e basso
tasso di emigrazione della forza lavoro, evoluzione di un'unica cultura\identità territoriale, risorse
finanziarie e tecnologiche in mano a grandi imprese, assenza di associazioni di promozione
dell’export, forte presenza del governo nella regolazione e promozione dell’attività imprenditoria-
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Markusen, infine, identifica quello italiano come un’originale evoluzione
del distretto marshalliano, infatti, quella costellazione di piccole imprese concen-
trate localmente, operanti in una “industrial atmosphere” si è nel tempo evoluta,
assumendo caratteristiche aggiuntive rispetto alle originarie, cooperando attraver-
so network interni al distretto grazie anche all’impegno di istituzioni locali. Di o-
pinione simile sono Langlois e Robertson (1995), secondo cui, il distretto indu-
striale italiano presenta una struttura differente rispetto all’archetipo marshalliano,
perché nel primo caso è presente un livello di coordinamento senz’altro superiore
e una competizione limitata solo ad alcune sfere di attività. Inoltre, nei distretti
italiani “la diversificazione del prodotto piuttosto che del prezzo è la caratteristica
competitiva dominante”.
La letteratura italiana sui distretti industriali, si è concentrata sia sulle ca-
ratteristiche economiche, sia sugli aspetti sociologici del fenomeno. Da un certo
punto di vista, il focus sulle caratteristiche economiche dei distretti industriali
rappresenta il tentativo di approfondire i concetti di divisione del lavoro e specia-
lizzazione produttiva già sottolineati da Marshall. Dall’altro lato, l’attenzione pre-
le, alto grado di coinvolgimento pubblico nella fornitura di infrastrutture. 3) Satellite ndustrial
Platform: struttura economica dominata da grandi imprese localizzate fuori dal distretto, economie
di scala moderatamente alte, commercio intradistrettuale minimo tra acquirenti e fornitori, decisio-
ni di investimento prese esternamente dalle grandi imprese, assenza rapporti di lungo periodo con i
fornitori locali, alto grado di cooperazione con imprese esterne, basso grado di cooperazione tra
concorrenti per la riduzione del rischio e stabilizzazione del mercato, mercato del lavoro esterno al
distretto o interno alle imprese verticalmente integrate, alto grado di immigrazione e emigrazione a
livelli, manageriali, professionali e tecnici, scarsa identità culturale locale, principali risorse finan-
ziarie, tecniche e di business esternamente insediate, assenza di associazioni che provvedono a
fornire infrastrutture, forte coinvolgimento governativo nella fornitura di infrastrutture. 4) State-
anchored industrial districts: struttura economica dominata da una o più grandi istituzioni governa-
tive, economie di scala relativamente elevate, basso di grado di turnover nei business locali, so-
stanziale commercio intra-distretto tra istituzioni dominanti e fornitori, decisioni di investimento
effettuate a vari livelli di governo, esterno o interno, contratti e commissioni tra istituzioni domi-
nanti e fornitori di breve termine, alto grado di cooperazione tra imprese esterne, moderata presen-
za di scambi di personale tra fornitori e clienti, basso grado di cooperazione tra imprese interne per
la divisione dei rischi, lavori commissionati da grandi istituzioni, alto grado di immigration del la-
voro, evoluzione verso una unica cultura locale, assenza di risorse finanziarie e tecniche specifi-
che, scarso coinvolgimento governativo nella fornitura di infrastrutture.
LE DINAMICHE FINANZIARIE NEI DISTRETTI INDUSTRIALI
11
stata all’analisi delle dinamiche sociali è comprensibile se inquadrato rispetto alla
industrial atmosphere marshalliana.
L’analisi dei distretti, quindi, si rende completa se considerazioni sulla
struttura economica vengono integrate da analisi sul tessuto e sulle dinamiche so-
ciali presenti, per ottenere una fotografia che possa al meglio rappresentare la
complessità del sistema.
1.1. DISTRETTO INDUSTRIALE: NASCITA DEL CONCETTO DI DI-
STRETTO E DEFINIZIONI.
Il concetto di distretto industriale ha presentato, nel corso degli anni, gros-
se difficoltà, se non veri e propri problemi, di interpretazione e analisi, sia a livel-
lo empirico che di sola concettualizzazione. Non esiste, infatti, tuttora una defini-
zione universalmente riconosciuta che sappia adeguatamente inquadrare il feno-
meno secondo un’interpretazione standard.
Il dibattito teorico sorto intorno all’idea di distretto industriale ha inevita-
bilmente condotto al problema dell’identificazione territoriale del distretto e allo
sviluppo di metodologie per l’identificazione degli stessi.
Il termine distretto industriale fu coniato da Alfred Marshall nel 1867,
quando, in alcuni scritti giovanili, volle fare riferimento alle industrie tessili del
Lancashire e a Sheffield, regioni inglesi caratterizzate da una notevole concentra-
zione di piccole e medie imprese, le quali riuscivano ad ottenere risultati econo-
mici paragonabili a quelli dei grandi stabilimenti industriali dell’epoca, sfruttando
le sinergie derivanti dalla loro vicinanza fisica. In “Industry and Trade” - l’opera
della maturità - egli ha modo di scrivere: “Quando si parla di distretto industriale
si fa riferimento ad un’entità socioeconomica costituita da un insieme di imprese,
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facenti generalmente parte di uno stesso settore produttivo e localizzate in un’area
circoscritta, tra le quali vi è collaborazione ma anche concorrenza”
4
.
Fondamentale, dunque, è il richiamo ad una categorizzazione socio-
economica del distretto - con ciò che ne consegue in termini di fiducia reciproca
tra i residenti di un certo territorio - ed alla concentrazione territoriale e alla divi-
sione del lavoro tra imprese. In questo contesto s’inserisce il richiamo
all’“atmosfera industriale”, così definita da Marshall: “In un distretto industriale
dove si concentrano grandi masse di persone addette a mestieri specializzati simi-
li, i misteri dell’industria non sono più tali; è come se stessero nell’aria, e i fan-
ciulli ne apprendono molti inconsapevolmente”
5
I distretti industriali, così concepiti, sono stati oggetto di studio anche in
Italia, dove rappresentano una realtà economica che ha contribuito e contribuisce
in modo rilevante alla crescita ed alla competitività dell’economia nazionale.
Sulla base di quest’impostazione, ed avendo sotto gli occhi la realtà sua
più vicina (il distretto laniero di Prato), Giacomo Becattini amplia e puntualizza il
concetto: “Il distretto industriale è un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla
compresenza attiva, in un’area territoriale circoscritta, naturalisticamente e stori-
camente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese
industriali”, inoltre, “per quanto concerne la comunità di persone, il tratto più rile-
vante è costituito dal fatto che essa incorpora un sistema abbastanza omogeneo di
valori che si esprime in termini di etica del lavoro e dell’attività, della famiglia,
della reciprocità, del cambiamento”
6
.
L’elemento caratterizzante un distretto industriale è, in sintesi, la presenza,
in un territorio circoscritto, di una comunità di persone e di una popolazione di
imprese; la comunità di persone è definita da un sistema di valori omogeneo, dif-
4
Marshall A., Industry and Trade. A study of industrial technique and business organization,
Macmillan & Co, Londra, 1919, traduzione italiana a cura di Masci, “Organizzazione industriale”
UTET Torino, 1934.
5
Marshall A. Principles of Economics, op.cit.
6
Becattini G., Il distretto industriale: un nuovo modo di interpretare il cambiamento economico,
op. cit.
LE DINAMICHE FINANZIARIE NEI DISTRETTI INDUSTRIALI
13
fusi all’interno del distretto, trasmessi di generazione in generazione da un «si-
stema di istituzioni e regole»; la popolazione di imprese, invece, è costituita da un
elevato numero di piccole e medie imprese specializzate in una o più fasi o fun-
zioni del processo produttivo, relative ad uno stesso settore o a settori a questo
sussidiari. Si tratta, dunque, di un sistema imperniato su un modello di divisione
estesa del lavoro, che, facendo leva sui vantaggi della specializzazione, consente
alle piccole e medie imprese che lo compongono di godere degli effetti di scala
tipici della grande impresa. Altro elemento fondamentale di tali sistemi riguarda il
sistema di relazioni che si stabilisce fra la popolazione d’imprese e la comunità di
persone, tra le quali s’instaura una sorta di «interdipendenza», che si traduce, fra
l’altro, in relazioni lavorative e sindacali assai meno conflittuali rispetto a quanto
avviene nelle imprese non inserite in un distretto e, più in generale, in una più ele-
vata propensione delle imprese alle relazioni cooperative.
Il distretto, in definitiva, non è il risultato di un disegno consapevole e pre-
definito di aggregazione territoriale, ma è l’esito generalmente spontaneo di pro-
cessi locali di integrazione economica e sociale di imprese, ed infatti, gli aggregati
che ne derivano sono difficilmente definibili secondi confini precisi sul territorio.
Nel corso dell’ultimo decennio è stato avviato in Italia un percorso giuridi-
co-istituzionale, per altro non ancora concluso, che, partendo dalla prima defini-
zione ufficiale di distretto industriale del 1991, ha portato in molte Regioni, prima
all’identificazione dei distretti, poi alla messa a punto di politiche di incentivazio-
ne e di sviluppo concepite ad hoc.
La legge n. 317 del 1991, che prevede interventi per l’innovazione e lo svi-
luppo delle piccole imprese, ha dato per la prima volta nel nostro ordinamento un
riconoscimento giuridico ai distretti industriali con l’obiettivo di promuovere lo
sviluppo e la crescita, anche qualitativa, delle piccole e medie imprese locali.
L’intenzione del legislatore era di fornire un incentivo non alle singole imprese,
bensì a quelle che, unendo sinergicamente le loro iniziative in un progetto innova-
Anna Robustelli
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tivo e di sviluppo economico di interesse comune, erano in grado di perseguire
degli obiettivi che potessero assicurare loro un solido vantaggio competitivo.
In base a tale normativa, al primo comma dell’articolo 36 si definiscono
distretti industriali: “le aree territoriali caratterizzate da elevata concentrazione di
piccole e medie imprese, con specifico riferimento al rapporto tra il numero delle
imprese e la popolazione residente, nonché alla specializzazione produttiva
dell’insieme delle imprese”.
Il secondo comma dello stesso articolo delega poi alle regioni il compito di
individuare in concreto i distretti industriali, sulla base, però di «indirizzi e para-
metri di riferimento» che saranno fissati con il successivo Decreto del Ministero
dell’industria, del Commercio e dell’Artigianato del 23 Aprile 1993 (Decreto
Guarino), sulla base dei quali verranno poi definiti i “Sistemi locali del lavoro
(SLL)”, individuati dall’ISTAT e dal lavoro di Fabio Sforzi, assumendo come
punto di partenza della procedura di individuazione i flussi di lavoro intercorrenti
tra un insieme contiguo di Comuni.
Gli indirizzi e i parametri di riferimento per l’individuazione dei distretti
industriali ai sensi dell’art. 36 della legge 317/91 sono i seguenti:
1. le zone da prendere a riferimento per la definizione sono una o più aree
territoriali contigue caratterizzate come sistemi locali del lavoro così come
individuati dall’ISTAT;
2. in tali zone possono verificarsi contestualmente le seguenti condizioni: