2
A questo proposito è stato interessante lo studio condotto sull’analisi del BAQ,
un test che misura la distorsione dell’immagine del corpo, in particolare applicato a
soggetti con disturbi del comportamento alimentare. Occorre dunque rivedere il
significato e il valore del corpo, cosa permessa anche dai più recenti studi della realtà
virtuale (VR) utilizzata anche a scopo terapeutico. Questo indica che realtà e corpo sono
strettamente correlati nel rapporto di conoscenza e quindi nello stare al mondo: l’uomo
non è tale perché ha una coscienza, ma perché è corpo, è coscienza, è anima, è
equilibrio tra componenti diverse indispensabili l’una all’altra. Non si può andare oltre
il corpo, tant’è che modificare i parametri reali ponendosi in VR , provoca sensazioni di
malessere e di smarrimento che si ripercuotono anche a livello psichico e vengono
superate solamente quando il corpo si abitua al nuovo contesto.
Affrontare questa tesi è stato possibile grazie al Prf. Lorenzo Magnani, alla
collaborazione della Dr.ssa A.P. Verri dell’IRCCS Mondino e della Dr.ssa E.Vallero
che mi han permesso di raccogliere i dati relativi al BAQ. Desidero inoltre ringraziare la
Prof.ssa S.Vegetti Finzi e il Prof. Stefanelli della facoltà di Ingegneria che ha fornito il
materiale sulla Realtà Virtuale.
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Capitolo primo
IL VALORE DEL CORPO
Un approccio fenomenologico allo studio del corpo e dello
schema corporeo
E’ dai tempi di Platone che si discute dell’anima e del corpo ma questo pare
essere un argomento intramontabile. Ed è da Platone che il corpo si ritrova ad essere la
“prigione dell’anima” (Fedone, 66b), a rappresentare il negativo dell’uomo, perché è la
sua parte sensibile, quella che lo rende animale.
Ma come può l’anima essere separata dal corpo, o meglio come può l’uomo
pensarsi senza corpo? Non esiste una coscienza senza un oggetto, non avrebbe voce la
coscienza se non avesse un mezzo per parlare e qualcosa da comunicare. Il corpo è
fisicità, è materialità. Il corpo è mondo, perché la materia forma il mondo. Allora
quando si parla di coscienza bisogna capirne il punto di partenza, quando ci si appella
alla conoscenza e al pensiero occorre chiedersi quale sia l’origine. C’è questo perenne
tentativo di trascendere la realtà, ma come posso andare oltre la stessa esistenza, visto
che questo infine significa negarla e quindi la morte?
Occorre ritrovare l’inizio tornando all’essenza in un lavoro di scoperta e non di
creazione. Bisogna riscoprire il corpo nel suo rapporto con se stesso e con la realtà
circostante, il quale si realizza in un primo momento tramite la percezione.
L’approccio fenomenologico inteso da Merleau-Ponty va in questa direzione
intrecciando la questione filosofica della coscienza con gli studi di fisiologia e
psicologia. Il mondo fenomenologico infatti, non è l’esplicitazione di un essere
preliminare, ma la fondazione dell’essere e, conseguentemente, la filosofia è la
4
realizzazione di una verità (Merleau-Ponty, 1945, p.30). La fenomenologia in questo
senso, studia l’apparizione dell’essere alla coscienza e non la possibilità dell’essere
(Merleau-Ponty, 1945, p.106).
1. Il bisogno di riscoperta del corpo
Gettato, rifiutato, amato, odiato, esibito, riprodotto. Forse più di tutto controllato.
Il corpo è diventato un oggetto al pari di tanti altri che ci circondano: come questa biro o
questo computer. Perché come tutti gli altri oggetti ormai lo si è conosciuto e si ha la
presunzione di possederlo completamente. O forse perché tutto ciò che è fuori , tutto
quello che è esposto, è sottoposto a giudizio. Tutto quello che è fuori diventa immagine,
nel senso di apparenza, di distanza tra il nostro modo d’essere e l’essere al mondo.
Si avverte un bisogno di controllo come affermazione delle proprie possibilità.
Applicare questo al corpo può diventare ossessivo fino ad arrivare nel patologico, ma è
l’ultimo oggetto da conoscere che è rimasto da sottoporre all’indagine scientifica.
D’altra parte il suo atteggiamento dimostra che l’uomo ha bisogno di tenere qualcosa
per sé, una sfera privata in cui lo sguardo altrui non giunge: per fare questo eleva la
mente e degrada la materialità.
Ed è anomalo perché senza di esso non ci sarebbe vita: se io non avessi le mani non
potrei scrivere su questo foglio e, allo stesso modo, se non avessi gli occhi non potrei
rileggere queste righe. Il corpo è il solo mezzo che abbiamo a disposizione per avere un
mondo (Merleau-Ponty, 1945, p.202).
L’esistenza stessa va ricercata nel corpo: esso la simbolizza, perché la realizza e
ne è l’attualità , senza non avrebbe alcuna possibilità (Merleau-Ponty, 1945, pp.232-
234). Inoltre deve essere rivalutato come la forma nascosta dell’essere se stessi:
l’esistenza personale diviene, in tale modo, la ripresa di una manifestazione di un dato
essere in situazione (Merleau-Ponty, 1945, p.233).
L’essere, quella spiritualità che tanti predicano e tutti cercano si mostra nel
divenire che è fatto di spazio e di tempo. Nello spazio e nel tempo c’è il corpo. Tutto
sommato esso è la possibilità della mente, che altrimenti non potrebbe né esistere né
esprimersi.
5
Bisogna quindi recuperarne il valore, comprenderlo non come “prigione
dell’anima”, ma come apertura originaria sul mondo che sentiamo sulla nostra pelle,
tocchiamo e da cui ci facciamo investire: in una parola lo percepiamo (Galimberti,
1983, pp.65-68). Occorre infatti passare dalla percezione come ponte tra l’individuo e la
realtà esterna, e comprendere infine come la coscienza (e la mente) non possano
separarsi dal corpo, ma abbiano al contrario bisogno di lui per poter crescere e
affermarsi.
Il mondo è il luogo abitato dal corpo: per conoscerlo bisogna collocarsi in esso e
quindi viverlo, perché “siamo nel mondo e siamo condannati al senso” (Merleau-Ponty,
1945, p.29).
Per arrivare alla conoscenza bisogna ridare valore ai dati più semplici e
immediati che vengono offerti ai sensi quali raccoglitori di informazioni . Tra l’oggetto
e il soggetto si colloca questo momento che è appunto la percezione. Occorre scoprire il
significato di questi termini mettendo in evidenza quello che è il dramma del corpo.
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2. L’attività del soggetto sull’oggetto
Cos’è l’oggetto? E’ qualcosa di esterno
1
(Merleau-Ponty, 1945, p.141) che si
può cogliere tramite i sensi e che non è condizionato da una esistenza individuale, ma
in un certo qual modo supera il limite della dimensione in cui è inserito. Il soggetto è, a
sua volta, colui che percepisce e che agisce sull’oggetto collocandolo in un contesto
preciso e definendone l’esistenza.
L’oggetto ha delle qualità che noi sentiamo, ma sono qualità che non
esisterebbero se qualcuno non le percepisse: i valori di cui viene caricato un oggetto
partono sempre da un soggetto che lo vive, lo assume su di sé facendolo emergere dallo
sfondo e lo pone nello spazio e nel tempo (Merleau-Ponty, 1945, pp.418-419). Infatti
tramite il corpo è la misura di tutte le cose (Merleau-Ponty, 1945, p.398) e il soggetto,
in quanto fatto di corpo, è la fonte di senso del mondo circostante. La cosa, e quindi
l’oggetto, non potrà mai separarsi da qualcuno che la percepisce, dal momento che la
presenza del soggetto che la coglie, è la testimonianza prima della sua esistenza
(Merleau-Ponty, 1945, p.418).
Il percepito assume quindi valore dal percipiente. “Valore” non è inteso solo
come convalida del suo esserci, ma anche come significato di cui è caricato. Un
esempio è dato dal dolore: esiste una soglia che permette di classificare diversi tipi di
dolore indipendentemente dall’individuo, tuttavia il modo in cui una persona lo vive è
diverso da quello di un altro, perché porta in quella esperienza la sua relatività e il suo
essere diverso. È certo che quello che io posso percepire, mi è permesso dal fatto che ho
qualcosa in comune con gli oggetti: se io non avessi una certa propensione verso di essi
non li vedrei o non li sentirei affatto, perché semplicemente ne ignorerei la presenza. Si
comprende infatti la percezione di un corpo, proprio perché si è corpo (Merleau-Ponty,
1945, p.124). E la prima condizione perché io conosca è essere consapevoli
dell’esistenza di quel qualcosa (Merleau-Ponty, 1945, p.316). Oggetto e soggetto
diventano un tutt’uno attraverso l’esperienza del ricordo: tutto quello che entra in
contatto con me va a sommarsi a un bagaglio di conoscenze via via sempre più vasto
che mi permette di riconoscere il nuovo confrontandolo con il passato (Merleau-Ponty,
1945, p.55).
1
A questo proposito Merleau-Ponty scrive: “L’oggetto è tale solo se può essere allontanato dal mio
campo visivo” In questo modo si sottolinea il distacco che si può creare tra soggetto e oggetto. In
particolare si considera la vista, come modalità preferita per identificare e conoscere le cose esterne a noi.
7
Tuttavia, la coscienza non si limita a ricevere, ma ciò che si percepisce è il
risultato di attenzione, selezione e volontà (Merleau-Ponty, 1945, pp.85ss.). La volontà
permette di esporsi al mondo per conoscere, la selezione implica la scelta di scoprire
una cosa piuttosto che un’altra. In genere l’attività si costruisce intorno a attenzione,
ricordo, esperienza: sono fondamentali perché si costruisca un rapporto tra soggetto ed
oggetto.
L’attenzione non è una semplice di associazioni di immagini, né il ritorno in sé
di un pensiero già padrone dei suoi oggetti, ma la costituzione attiva di un oggetto che
rende esplicito e particolare ciò che prima era offerto solo nell’orizzonte indeterminato
(Merleau-Ponty, 1945, p.68). Per percepire si rende necessario recuperare la fisionomia
dei dati già conosciuti, che in questo modo permettono il riconoscimento dei nuovi
(Merleau-Ponty, 1945, p.55 e p.77). Infatti il ricordo “riapre il tempo perduto e ci aiuta a
riprendere una situazione che evoca” (Merleau-Ponty, 1945, p.135).
Questi permettono di passare alla fase del giudizio e dell’elaborazione ad un
livello superiore, in cui ci si pone in una posizione assoluta sospendendo la dimensione
e la condizione in cui è avvenuto il primo contatto. Infatti quando si conosce si tende a
formulare un giudizio valido non solo per me in quel particolare momento, ma in senso
generale.
La conoscenza si presenta dunque come un movimento, una tensione del
soggetto verso il mondo.
Al punto in cui si è arrivati sembra che soggetto ed oggetto rimangano su due
piani divisi, in realtà nell’uomo vanno a confluire entrambi creando quello che è
definito come il “dramma del corpo” (Merleau-Ponty, 1945, p.118).
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3. Il dramma del corpo
“Il corpo è il mio punto di vista sul mondo, ma è anche uno degli oggetti di
questo mondo. Rimuovo la coscienza che avevo del mio sguardo come mezzo di
conoscenza e tratto i miei occhi come frammento di materia” (Merleau-Ponty, 1945,
p.117). Queste poche righe riassumono ciò che si intende con questa espressione.
L’uomo non è solo soggetto, così come non è solo oggetto: è entrambe le cose.
Qui si legge la chiave del dramma, o meglio di un’apparente contraddizione. Apparente
perché in fondo l’uomo in questo modo si rende un essere completo in grado di abitare
il mondo.
Significa che esso vive allo stesso tempo le due condizioni. Si è soggetto nel
momento in cui si è protagonista agente sulla realtà, ma si diventa oggetto quando ci si
perde nello sfondo. L’esperienza più chiara ed immediata è quella del toccarsi: se con
la mano destra prendo la sinistra, ho la sensazione doppia della mano che afferra e di
quella che è afferrata (Merleau-Ponty, 1945, p.144).
D’altra parte non si smette mai di essere nel mondo: di fronte a me c’è sempre
qualcosa che posso percepire. Se ho gli occhi aperti vedrò sempre qualcosa: non posso
sottrarmi alla realtà, perché per farlo dovrei negare la vita stessa. Ogni sguardo si pone
su un frammento di mondo, perché il corpo “è il luogo attraverso cui passa il mondo e si
realizza l’attualità del fenomeno” (Merleau-Ponty, 1945, p.314). Corpo e mondo sono in
un rapporto di reciproco scambio: ognuno proietta se stesso nell’altro arricchendosi di
conseguenza. Vedere è convalidare l’esistenza di quello che viene offerto agli occhi: so
che qualcosa esiste perché lo posso percepire (Merleau-Ponty, 1945, pp.113-118).
Vedere, sentire... è abitare il mondo, squarciare un velo che rende quello che ho
di fronte speciale per la mia esistenza perché ne è entrato a far parte. Ma per vivere
questo contatto è necessario che io stesso sia oggetto. E come nella conoscenza di un
oggetto è fondamentale sapere del suo darsi alla realtà, allo stesso modo bisogna essere
coscienti del corpo, perché alla fine “il corpo è il perno del mondo” (Merleau-Ponty,
1945, p.130).
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4. Lo schema corporeo
Il nostro organismo è dotato di recettori esterni e interni in una possibilità
continua di sentire e sentirci: sappiamo dove ci ha punto un insetto senza esplorare ogni
angolo del corpo (Merleau-Ponty, 1945, p.159); sappiamo come coordinare i movimenti
per portare il cibo alla bocca, senza ripassarne tutta la sequenza. Sappiamo tutto questo
in virtù dello “schema corporeo” (Merleau-Ponty, 1945, p.152). Introdurre questo
concetto è piuttosto importante sintomo del fatto che l’argomento “uomo” è uno dei più
complessi e non si può avere la pretesa di esaurirlo con un solo studio. L’intero corpo,
infatti non è per il soggetto un aggregato di organi giustapposti nello spazio. Egli lo
tiene in un possesso unitario e conosce la posizione di ogni singola parte grazie a questo
schema, in cui sono comprese tutte le membra (Merleau-Ponty, 1945, p.151).
La consapevolezza dell’avere un corpo risiede appunto in questo schema che si
organizza a partire dalla collaborazione di olfatto, tatto e udito nel neonato per poi
arricchirsi di tutti gli stimoli che arrivano dall’esterno. Il bambino rappresenta più di
tutto l’essere oggetto, perché prima di tendere verso il mondo in maniera attiva deve
costruire il confine tra dentro e fuori, deve esperire il suo corpo come superficie
limitata. Nello schema c’è tutto questo, c’è il nostro saper sul mondo, perché ogni passo
che facciamo per aumentare il bagaglio conoscitivo presuppone una modifica di esso,
segno del forte coinvolgimento che il corpo vive nell’intessere relazioni con un oggetto
e del suo essere suscettibile al tempo.
In un passo di “L’Essere e il Nulla”, Sartre scrive che “il corpo è ciò che
individualizza l’anima. Solo sarebbe vano supporre che l’anima possa staccarsi da
questa individuazione, separandosi dal corpo con la morte o con il pensiero puro,
perché l’anima è il corpo in quanto il per sé è la propria individuazione...” (Sartre,
1943, p.338)
Non si deve considerare il corpo come una prigione, ma come una componente
indispensabile nella formazione dell’identità di un uomo che spesso è stata associata
all’anima. Allo stesso tempo questa frase si adatta bene allo schema del corpo visto che
racchiude in sé quello che noi siamo, il nostro presente, passato e futuro. Questo non
equivale a dire che l’anima è lo schema corporeo, ma solo che quest’ultimo è il punto di
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partenza della nostra storia, dell’identità e infine della crescita dell’anima che è intesa
come la parte spirituale dell’Io. Con lo schema del corpo, infatti si recupera l’unità del
corpo, quella dei sensi e dell’oggetto (Merleau-Ponty, 1945, p.314).
C’è una varietà di definizioni che ruota intorno a questo argomento: come
riassunto dell’esperienza corporea, come associazioni di immagini e disegno del corpo,
da un punto di vista dinamico come base per la costruzione del sé (Merleau-Ponty,
1945, pp.151-154). In realtà non si può dire che una è più adatta di un’altra, perché tutte
queste potrebbero andare bene. Allo stesso modo non si possono escludere gli studi
fisiologici visto che dalla pratica clinica è emerso come disturbi cerebrali e cerebellari
(cioè a livello del cervelletto) possono provocare distorsioni sulla rappresentazione di
sé.
Un esempio è dato dalla cecità psichica di Schneider (Merleau-Ponty, 1935,
pp.124,170ss.) in cui un soggetto ad occhi chiusi non è in grado di dire in che punto
viene toccato, incapace di conoscere il proprio corpo se gli viene negata la visione. Un
altro caso emblematico è il cosiddetto “arto fantasma” che vivono le persone in seguito
ad una amputazione: queste mantengono la percezione dell’arto anche se questo non c’è
più. E’ come se la loro immagine non si fosse modificata e il processo di negazione e
rimozione è talmente forte che anche a livello fisico si avverte qualcosa che in realtà è
scomparso (Merleau-Ponty, 1945, pp.124ss.).
Proprio perché fa parte della nostra storia ed è un disegno di noi stessi, nel caso
della malattia
2
si evidenzia una difficoltà estrema a vedere come stanno le cose. Lo
specchio che rimanda l’immagine da fuori non si accorda con quella che continua a
esserci nella mente. Si pensi ancora all’anoressia o alla bulimia: in questi casi una
ragazza può diventare scheletrica, ma quello che vede di lei sarà pur sempre un corpo
ingombrante troppo grasso e troppo grosso. O anche le lesioni all’area di Broca
3
, sede
del linguaggio, provocano afasia motoria (mancanza di coordinazione per la formazione
della parola) e quindi problemi al livello corrispondente dello schema (Merleau-Ponty,
1945, pp.266-267).
2
Merleau-Ponty porta degli esempi di disturbi a livello dello schema corporeo (1945, pp.170-188) nel
tentativo di mostrare come il corpo e la percezione giochino un ruolo fondamentale nella conoscenza e
nell’accostarsi al mondo.
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L’area di Broca è considerata come la sede del linguaggio, situata a cavallo della scissura di Rolando
nell’emisfero sinistro che è responsabile delle funzioni cognitive legate al pensiero logico. Il nome deriva
dal suo scopritore che insieme a Wernicke studiò l’afasia, collegando un disturbo comportamentale a
lesioni cerebrali.
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Tutte queste visioni distorte sono legate anche a danni cerebrali, ma basta dire
che la fisiologia insegna dell’esistenza di una mappa corporea a livello sia della
corteccia cerebrale che cerebellare. Per questo motivo lo studio di Merleau-Ponty
mostra la necessità della collaborazione tra psicologia e fisiologia: non si può trovare
una spiegazione a certi fenomeni ricorrendo all’una o all’altra disciplina. Somatico e
psichico si intrecciano tra di loro trovando la realizzazione in quella che è la persona
(Merleau-Ponty, 1945, p.137). La mente e il cervello, quindi si spartiscono il controllo
del corpo da un punto di vista rappresentativo e funzionale
4
.
Lo stesso movimento è controllato dal cervelletto: questo organo è collegato da
vie afferenti alle aree motorie, al midollo spinale e all’allocorteccia
5
che gli permettono
non solo di controllare il movimento nel presente, ma anche quello che è appena
accaduto potendo fare una previsione sui movimenti futuri in base ai messaggi sulla
tensione e contrazione dei muscoli (Taglietti et al.,1996, pp.230-236). Il movimento può
essere vissuto in modo consapevole o no, ma rimane sempre una modificazione
temporanea dello schema e un appropriarsi dello spazio e del tempo.
Queste due categorie sono quelle che definiscono la vita, perché si vive in un
ambiente e in una determinata epoca. Non solo ci appartengono e ci identificano come
soggetti, ma noi stessi siamo spazio e tempo.
Il corpo è una linea di confine tra l’Io e la realtà esterna. Assume quindi il
significato di limite nello spazio fisico, temporale e sociale. Si tratta ora di cogliere
questo nuovo significato associandolo allo schema.
4
L’esame dei Potenziali Evocati permette di vedere come stimolando particolari sensi, come la vista, si
abbia una maggiore attività in determinate aree del cervello, che si rivela da un aumentata flusso
sanguigno. Studi di fisiologia han dimostrato infatti che esiste una rappresentazione somatotopica a
livello corticale.
5
L’allocorteccia è la parte della corteccia cerebrale filogeneticamente più antica e comprende il
rinencefalo e la formazione ippocampale a loro volta facenti parte del sistema limbico, coinvolto nei
processi di memoria e delle emozioni (Taglietti et al.,1996, p.442).
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5. Corpo come limite nello spazio fisico
Lo spazio corporeo è un orizzonte oltre lo spazio esterno su cui si scagliano gli
oggetti, è un protendersi verso il mondo, è l’individuazione di noi stessi nel mondo
perché l’essere superficie implica un limite in cui finisce il dentro e comincia il fuori. Il
corpo non è per me un semplice frammento nello spazio, ma per me non ci sarebbe
spazio senza corpo (Merleau-Ponty, 1945, p.156).
Nello spazio si ripete l’esperienza della dicotomia soggetto - oggetto. Infatti si
può vedere quello esterno come possibilità di appropriazione e di movimento e quello
interno come testimonianza dell’esistenza e modalità di identificazione. Ancora, lo
spazio interno è l’insieme degli organi che ci costituiscono dando materia all’aspetto
fisico esposto allo sguardo altrui e connotandolo con l’attributo della pienezza, di contro
alla sensazione di “vuoto” che alcune persone, con distorsioni, vivono in associazione
all’angoscia. La pienezza del corpo è legata non solo agli organi, ma anche ai pensieri
che occupano, a loro volta, lo spazio virtuale della mente. L’essere pieno equivale alla
completezza, e quindi all’armonia e all’equilibrio.
Il rapportarsi all’esterno invece, implica l’orientamento degli oggetti e del
mondo(Merleau-Ponty, 1945, pp.154-155 e p.330). E’ in base al corpo che si dà un
significato a espressioni come “accanto”, “su”, “vicino” o “lontano”... Ad esempio la
stessa prospettiva è una costruzione dell’uomo, le illusioni ottiche sono vissute
dall’uomo, sono manipolazioni a livello della retina che non hanno un corrispettivo nel
mondo reale
6
(Merleau-Ponty, 1945, p.326) . Nell’uomo c’è un bisogno intrinseco di
definizione e di punti di riferimento. Il suo modo di porsi nei confronti del mondo va in
questa direzione: egli deve riscoprire il mondo come qualcosa di dato, ma per farlo deve
definirlo in tutti i sensi. La percezione agisce in questa direzione fornendo all’uomo un
campo di presenza che si estende in due dimensioni: quella del qui- là e quella del
passato- presente- futuro (Merleau-Ponty, 1945, p.352).
6
In generale l’intera struttura dell’occhio lavora per permettere una visione ottimale degli oggetti: basta
pensare all’allungamento o la contrazione dei muscoli ciliari e quindi del cristallino per la messa a fuoco
delle immagini. I neuroni della struttura retinica tramite vie afferenti rimandano poi i messaggi all’area
visiva primaria, dopo essere passati per i nuclei specifici dei talami (corpi genicolati laterali), dove
avviene l’elaborazione più completa (Taglietti et al., 1996, pp.352-365).
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6. Corpo come limite nel tempo
Il tempo stesso è misurato dal soggetto, perché un corpo nasce, cresce, invecchia
ed è in base a questo che un oggetto è definito nuovo o vecchio (Galimberti, 1983,
pp.77-84).
Il corpo è la misura della vita, perché quando muore gli oggetti del mondo
sopravvivono, ma la nostra percezione finisce ed è soppiantata da quella di altri soggetti
che daranno a loro volta senso allo spazio, al tempo e alla realtà. Di conseguenza lo
spazio corporeo non è solo posizionale, ma anche situazionale. Il tempo passa perché
c’è qualcuno che lo misura contando le ore. Torna anche in questo caso il tema della
misura: è il risultato del bisogno di controllo e di dover chiudere ogni cosa in limiti ben
precisi.
Questo non significa che il mondo viene costruito, perché altrimenti si andrebbe
contro lo scopo della fenomenologia, come se ne è parlato all’inizio, ma in ogni istante
si mostra il tentativo di descriverlo nel modo più completo.
E’ l’individuo che si colloca nel mondo e nel corso della sua vita lo abita rendendolo
proprio nello sforzo di superare il limite stesso che reca con sé: il corpo.
Le dimensioni temporali in realtà collassano tutte sull’essere corpo: il presente è
infatti, l’essere nel momento dell’oggetto che si presenta allo sguardo di un osservatore.
Il passato è ciò che torna confrontandosi con l’attuale. Il futuro è la percezione di ciò
che sarà. A loro volta, il futuro così come il passato, convergono sul presente che vive il
suo istante finché non sarà misconosciuto dall’incedere del futuro (Merleau-Ponty,
1945, p.116).
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7. Corpo come limite nello spazio sociale
Al tempo stesso il corpo è spazio limitato, confine tra l’Io e il Tu (Merleau-
Ponty, 1945, p.235ss.). Io mi posso toccare in quanto superficie, posso sfiorare una
mano e quello che ne ricevo è una sensazione doppia: quella della mano che preme e
quella che è premuta in virtù della esterocettività e enterocettivià (cioè di recettori
interni e esterni). Posso prendere la mano della persona che mi sta accanto e quella vivrà
l’esperienza dell’oggetto, così come può accadere il contrario: nel momento in cui io mi
apro agli altri questo dramma diventa più intenso, ma è altresì indispensabile perché è
testimonianza dell’essere al mondo. L’oggettificazione conosce il suo massimo nella
malattia, perché ci si rende all’altro assumendo l’identità del malato impotente e
sottoposto a cure altrui: privi della libertà e della propria diversità.
Cosa significa? Io conosco un oggetto perché lo vedo, diventa uno strumento per
il mio corpo, ma quando la situazione si ribalta assumo la consapevolezza del non poter
essere senza altri. Quella che è la mia identità, quello che conosco di me è il riflesso
formato dallo specchio degli altri corpi che mi stanno attorno. Questo specchio rimanda
un messaggio circa le possibilità e permette di rendere attuali le potenzialità.
Io non posso vedere i miei occhi, ma posso dire quello che i miei occhi vedono
(Sartre, 1943, p.351). Ho bisogno di uno specchio per osservarmi come sono. Lo
schema corporeo mi dà coscienza dei miei limiti, di distinguermi da tutti quelli che mi
circondano, mi dà, in breve, la coscienza di esistere.
L’altro è anche comunicazione, rendendo il corpo un mezzo per tessere legami
(Merleau-Ponty, 1945, p.344-374). Il corpo infatti è soprattutto spazio espressivo
(Merleau-Ponty, 1945, p.202). Esso è possibilità di linguaggio nei confronti degli altri
soggetti ed oggetti, perché innanzitutto quello che faccio è un movimento verso la realtà
circostante. Il gesto infatti è la rottura del silenzio, la parola è dare espressione alla
coscienza stessa (Merleau-Ponty, 1945, pp.245, 313-315, 459). Un esempio sulla forza
comunicativa è dato dai disturbi alimentari: sono un urlo represso di disagio che si
esprime tramite il corpo
7
.
7
L’anoressica rifiutando di alimentarsi, rifiuta di assumere il corpo. Questa modalità equivale
letteralmente a non alimentare la propria presenza in un mondo che non interessa. Il corpo infatti, deve
essere inteso come un teatro dove “si vive ciò che non si può vivere sul teatro del mondo” (Galimberti,
1983, p.143).
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Il neonato che vive in una modalità oggettuale non ha ancora determinato i suoi
confini: il corpo della madre, o più in generale quella della figura di attaccamento, è
visto come un’estensione del proprio (Galimberti, 1983, p.178). La formazione dello
schema corporeo è un processo graduale e un primo passo è appunto la distinzione tra il
“mio” e il “tuo”. Nel corso della crescita si rafforza questa percezione, ponendosi come
individui e ciò che si vive nell’apertura con l’Altro è, oltre a un incontro tra corpi, un
rapporto tra coscienze
8
.
8
Cfr. anche Sartre, 1943, pp. 411-483.