INTRODUZIONE
Nessuno può essere libero
se costretto ad essere simile agli altri.
Oscar Wilde
Pur nascendo in tempi relativamente recenti, il Diversity Management (DM) si
sta velocemente affermando come approccio teorico/pratico molto importante non
soltanto per chi studia le problematiche organizzative delle imprese, ma per gli
stessi imprenditori e/o manager che quotidianamente devono gestire la propria
azienda in un contesto competitivo sempre più complesso ed articolato. Ma in che
cosa consiste il Diversity Management? Esso può essere definito come un processo
di cambiamento interno all‟azienda, il cui scopo è quello di valorizzare ed utilizzare
al meglio i contributi che ciascun dipendente è in grado di offrire per il
conseguimento degli obiettivi aziendali. Il Diversity Management dovrebbe quindi
concretizzarsi nell‟applicazione di strategie aziendali che diano alle persone la
possibilità di sviluppare ed applicare, all‟interno del contesto lavorativo in cui
operano, uno spettro ampio ed integrato di abilità e competenze che riflettono il
proprio genere, la propria nazionalità/etnia, la cultura di riferimento e le esperienze
pregresse. La creazione del vantaggio competitivo d‟impresa, infatti, sempre più
frequentemente è associata a concetti come quelli di “cultura” e “identità”
organizzativa e la possibilità di costituire culture d‟impresa rare, scarsamente
imitabili e generatrici di valore, rappresenta un motore di consolidamento e
sviluppo delle performance aziendali. Come avremo modo di specificare nel
prosieguo di questo lavoro, il DM nasce agli inizi degli anni ‟90 negli Stati Uniti. Di
recente anche i Paesi europei più avanzati si stanno confrontando con tale tematica.
Diverse sono le cause di questo trend: ritroviamo in primis fattori di natura
oggettiva come la globalizzazione dei mercati, la crescita dei fenomeni migratori o
la femminilizzazione del mercato del lavoro. Nella nostra società, soprattutto nel
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segmento affluente e quindi tendenzialmente affrancato dai bisogni di
sopravvivenza, sono altresì in atto fenomeni di diversificazione ed articolazione
delle richieste che i singoli muovono all‟universo lavorativo. Persone sempre più
istruite, ad esempio, chiedono al lavoro percorsi di autorealizzazione non univoci
ma fortemente personalizzati; la complessità crescente dei task e la conseguente
complessità delle organizzazioni richiedono posizioni estremamente diverse tra loro
per background e specializzazione che, pur all‟interno di una dinamica fisiologica
di coordinamento organizzativo, rischiano di innescare patologie di comunicazione
e conflittualità che necessitano di una gestione accurata. Nei Paesi occidentali,
infine, stanno verificandosi relativamente al lavoro e alle persone due fenomeni
contrapposti: da un lato, per i noti fenomeni di costo del welfare e per
l‟allungamento progressivo della vita media, si tende ad innalzare l‟età lavorativa;
dall‟altro sta affermandosi nella cultura manageriale uno stereotipo giovanilista che
considera valide le persone fino ad un‟età relativamente bassa. Se non si è
intrapresa la carriera entro una certa età, le persone vengono considerate a basso
potenziale. Questo porta all‟allargamento progressivo di una fascia di lavoratori,
anche qualificati e con buone posizioni lavorative, considerati stereotipicamente
non più consoni all‟organizzazione. A questo si può aggiungere che i bisogni e le
attese cambiano nei diversi momenti del ciclo di vita del singolo. Il risultato di
questi fenomeni tra loro intrecciati è la frammentazione di esigenze, bisogni e valori
che giustificano l‟irruzione del tema della diversità nell‟universo aziendale.
Nonostante ciò, molte aziende non hanno ancora colto l‟essenza di questo
fenomeno e nelle loro politiche di gestione delle persone si muovono come se tutti
fossero uguali e classificabili in grandi categorie contrattuali. L‟egualitarismo
spinto, pur essendo politicamente più facile da sostenere, mortifica l‟individuo e gli
fa cercare strade individuali di soluzione dei propri problemi. In questo modo non
si coglie che le persone rappresentano un patrimonio di primaria importanza.
L‟assenza di strumenti di connessione tra le risorse intangibili ed i costi/benefici
tangibili, inoltre, non aiuta le aziende a monitorare un fenomeno empiricamente
rilevabile. La perdita di alcuni talenti, il turn over ravvicinato e l‟assenza di percorsi
realizzativi che demotivano le persone non sono costi immediatamente
quantificabili: il buon senso ci dice, però, che sono crescenti.
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Questi e molti altri aspetti saranno oggetto della prima parte di questo lavoro.
Vedremo, nello specifico, come parole quali diversità e Diversity Management sono
ormai diventate frequenti nel lessico manageriale. Molte sono le aziende che
preparano o hanno iniziato progetti che vanno sotto questa etichetta. Cospicua è la
letteratura scientifica e manageriale sul tema. In questa situazione di attenzione e di
“moda manageriale” si pone l‟esigenza di selezionare alcuni elementi essenziali per
chi avesse un interesse gestionale nell‟intraprendere una strada di Diversity
Management, nonché di mettere in guardia sulle criticità e problematiche che
questo percorso comporta.
Nella seconda parte sarà affrontato il tema della Responsabilità Sociale d‟Impresa
(CSR). Esso presenta un inscindibile legame con il Diversity Management. A
questo proposito, si pensi all‟articolazione della CSR nelle sue due dimensioni:
interna ed esterna. Risulta facilmente intuibile l‟inevitabile ricaduta delle prassi
socialmente responsabili sui dipendenti e, di conseguenza, molti dei progetti
implementati dalle aziende si trovano a metà strada tra i due concetti.
Nella terza ed ultima parte sarà presentata una ricerca sul campo. Essa è stata
realizzata grazie al coinvolgimento di una serie di aziende nazionali e
multinazionali che al proprio interno adottano politiche di Diversity Management.
La ricerca si propone di comprendere il significato attribuito dalle aziende italiane a
tale concetto; esplorare i principali elementi di supporto/ostacolo all‟attuazione
delle politiche di Diversity Management; realizzare una sorta di censimento delle
buone pratiche. In conclusione saranno presentati i risultati della prima fase della
ricerca e si procederà ad un confronto degli stessi con la letteratura teorica di
riferimento.
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Capitolo primo
Diversity Management:
inquadramento generale
1.1
Alcune definizioni
Molte sono le definizioni elaborate dagli studiosi rispetto al concetto di Diversity
Management. Una delle più recenti risale all‟anno 2001: Barabino, Jacobs e
Maggio intendono il Diversity Management come “un approccio diversificato alla
gestione delle risorse umane, finalizzato alla creazione di un ambiente lavorativo
inclusivo, in grado di favorire l‟espressione del potenziale individuale ed utilizzato
come leva strategica per il raggiungimento degli obiettivi organizzativi” (Barabino
et Al., 2001 pag. 20). Tale definizione pone l‟accento su un importante aspetto del
Diversity Management: la diversità considerata in senso inclusivo implica
l‟equilibrata partecipazione di tutti i soggetti indipendentemente dalle proprie
peculiarità, che anzi vengono considerate una ricchezza da “esprimere” alla vita
dell‟organizzazione. Si evidenzia, inoltre, l‟importanza di un rapporto
complementare tra impresa e risorse umane affinché queste ultime possano
soddisfare i propri bisogni e le proprie aspettative assicurando, al contempo,
prestazioni funzionali al raggiungimento degli scopi aziendali.
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Loden e Rosener (1991) individuano una doppia dimensione che definiscono
“primaria” e “secondaria” del Diversity Management. Nel primo caso ci si riferisce
agli aspetti non modificabili e rientranti nel patrimonio innato di un individuo.
Nello specifico:
età
genere
origine etnica
capacità/caratteristiche mentali e fisiche
razza
orientamento sessuale
Nel secondo caso, invece, si considerano tutti gli elementi acquisiti dalle persone
nel tempo e modificabili nel corso della propria esistenza. Tali aspetti subiscono
l‟influenza delle variabili ambientali, dei contesti specifici in cui si sviluppano e
delle culture organizzative con cui si entra in contatto. Nel dettaglio ci si riferisce a:
background educativo
situazione famigliare
localizzazione geografica
religione
reddito
esperienza militare
ruolo ed esperienza organizzativa
stile di lavoro
Kandola e Fullerton (1994) spiegano che parlare di diversità significa “capire che
ci sono differenze tra le persone che lavorano e che queste, se opportunamente
gestite, sono una risorsa per rendere il lavoro più efficace ed efficiente. Le persone
sono diverse l‟una dall‟altra in molti modi: per età, genere, razza, cultura, etnia,
scolarità, valori, aspetto fisico, intelligenza, personalità, esperienza, abilità e modo
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di approcciarsi al lavoro. Guadagnare il vantaggio della diversità significa imparare,
comprendere ed apprezzare queste differenze. Progettare un posto di lavoro che
sviluppi questi valori – diventando flessibile nell‟accoglienza di bisogni e preferenze
peculiari – crea le condizioni per un ambiente più motivante ed accogliente”
(Kandola e Fullerton, 1994 cit. in Cuomo e Mapelli, 2007 pag. 32-33). I due autori
introducono un‟ulteriore classificazione della diversità, distinguendo in diversità
visibile e non visibile. Nel primo caso si considerano tutti quegli aspetti che
immediatamente percepiamo, ad esempio il colore della pelle o il genere. Nel
secondo, invece, ci riferiamo a caratteristiche non riconoscibili a primo impatto.
Questa classificazione è stata introdotta per rendere maggiormente consapevole il
top management: per cogliere e comprendere la personalità delle singole persone
non è sufficiente la considerazione delle sole caratteristiche evidenti; si rende
necessaria, invece, un‟analisi dettagliata di tutti i contesti lavorativi. Solo in questo
modo si potrà creare un ambiente effettivamente capace di valorizzare i contributi
di tutti, evitando che qualche gruppo possa essere avvantaggiato da un‟irrilevante
classificazione o dalla sua accidentale nascita.
R. Thomas Roosevelt Jr. (1999), uno dei principali esperti di Diversity
Management, definisce tale concetto come “ogni combinazione di elementi
individuali che sono differenti per alcuni aspetti e simili per altri. E‟ in questa
commistione che la vera diversità vive. In questo modo abbandoniamo i nostri
abituali modi di pensare la diversità, ossia che in ogni situazione/
organizzazione/società ci sono le persone importanti e poi gli altri (coloro che sono
diversi per alcuni aspetti, in genere per razza o sesso). In questa tradizionale
concezione sono gli altri che rappresentano la diversità. Una volta che cominciamo
a vedere la diversità come commistione generale, formata dalle persone importanti
e dagli altri, diventa ovvio che la diversità non è una questione di razza, genere o di
qualsiasi diade noi vs loro, ma è una miscela dinamica e complessa di attributi,
comportamenti e talenti” (Roosevelt, 1999 cit. in Cuomo e Mapelli, 2007 pag. 33-
34). Lo stesso autore critica la convinzione comune che considera il Diversity
Management come una mera e semplice tecnica manageriale. La diversità non è un
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problema per manager e proprietari d‟azienda ma richiede la partecipazione attiva
di tutti coloro che animano l‟ambiente organizzativo.
Smith (1998) propone la seguente definizione della diversità: “la qualità di essere
differenti ed unici, come individui o come gruppi”. L‟autore prosegue sostenendo
che “Diversity Management significa riconoscere l‟effettiva gestione di ciascun
dipendente in accordo con l‟unicità specifica del suo contributo, del suo
background e delle sue aspettative, aiutando i gruppi di dipendenti a lavorare
insieme in modo più efficace e profittevole” (Smith, 1998 cit. in Cuomo e Mapelli,
2007 pag. 34). Attraverso queste affermazioni Smith sottolinea l‟importanza di una
corretta gestione dei singoli individui e dei team di appartenenza. L‟obiettivo da
perseguire è la valorizzazione dell‟eterogeneità intrinseca ad ogni gruppo (oltre al
riconoscimento di una specifica identità, aspetto significativo affinché un gruppo
possa definirsi tale e distinguersi da altri gruppi). Ampliando il contributo di Loden
e Rosener, Smith ha elaborato un suo modello per illustrare le dimensioni della
diversità. Oltre ai livelli descritti in precedenza, l‟autore introduce un terzo livello di
diversità inerente le dimensioni organizzative, ossia le caratteristiche della vita
lavorativa individuale. Nello specifico ci si riferisce a:
livello gerarchico funzionale
campo/contenuto del lavoro
anzianità
luogo di lavoro
squadra di appartenenza
affiliazioni di appartenenza
status manageriale
Smith, inoltre, afferma che “forti diversità possono avere effetti positivi o negativi
su un business ed il problema, dunque, non è la diversità in se stessa ma il modo in
cui viene gestita” (Smith, 1998 cit. in Cuomo e Mapelli, 2007 pag. 35).
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1.2
I principali mutamenti nei contesti organizzativi
Le aziende, nel corso degli anni novanta, hanno subito importanti modifiche in
funzione di diversi fenomeni: l‟aumento della competizione; la corsa
all‟innovazione tecnologica; l‟intensificazione dei processi di fusione e di
integrazione; la progressiva caduta dei tradizionali confini geografici e di settore; la
diversificazione dei bisogni e delle esigenze della clientela; il passaggio dalle logiche
di prodotto a quelle di servizio etc. Tutto ciò ha spinto le aziende ad intraprendere
processi di cambiamento di varia natura (Tosi, 2002).
Si pensi all‟evoluzione del modo di lavorare: grazie all‟avvento e lo sviluppo dell‟ICT
(Information and Communication Technology) l‟azienda che un tempo è stata
un‟organizzazione ad alta intensità di manodopera (labour intensive) è oggi
focalizzata sulla conoscenza come principale risorsa che alimenta il funzionamento
organizzativo (knowledge intensive). Se questo è vero, per quale motivo gli attuali
stili di gestione rimangono ancorati allo stile utilizzato per la produzione di beni
fisici e tangibili? Mentre da un punto di vista teorico si evidenzia l‟importanza del
lavoro per obiettivi (modalità sicuramente più adeguata per un‟attività professionale
spesso evanescente e virtuale) da un punto di vista pratico si rimane ancorati a
modalità industriali poco attente all‟importanza reale e non solo dichiarata delle
persone.
Altri cambiamenti possono interessare i confini organizzativi: un‟azienda che oggi
vuole essere competitiva sul mercato deve abbandonare la logica del “fare tutto in
casa” e focalizzarsi sulle core competencies, ossia tutte quelle attività per mezzo delle
quali un‟impresa viene riconosciuta ed apprezzata sul mercato da parte dei propri
clienti. L‟esternalizzazione delle attività periferiche (non distintive per l‟azienda)
segna il passaggio da un modello a “unico centro” ad un modello “policentrico o a
rete”. Alle aziende, inoltre, si richiede la proiezione delle singole attività su scala
globale massimizzando la propria specializzazione secondo una strategia che
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Demattè (2004) definisce in questi termini: “più focalizzati ma dispiegati su ampi
spazi”.
Una terza tipologia di cambiamento riguarda i processi di snellimento, semplificazione
ed appiattimento delle strutture organizzative: la crisi del fordismo porta
all‟obsolescenza dei modelli organizzativi centrati sulla specializzazione
funzionale, la chiara definizione delle posizioni, la centralizzazione del controllo e
delle informazioni. Strutture burocratiche eccessivamente rigide sono state
trasformate in strutture snelle e più adatte ad operare in contesti ipercompetitivi. I
nuovi modelli organizzativi puntano sull‟individuo come nucleo portante: si passa
da una condizione in cui la conoscenza è nelle mani del top management ad una
situazione caratterizzata da relazioni orizzontali e in cui viene incentivata una
professionalità diffusa a tutti i livelli. Già nel 1961 l‟economista premio Nobel
Schultz introdusse nella teoria neoclassica la nozione di “capitale umano” (livello
di conoscenza aggregata presente in una società e che influenza qualsiasi processo
produttivo) ma solo di recente una vasta produzione scientifica ha messo in luce la
rilevanza del patrimonio di competenze di cui le persone sono depositarie come
fattore chiave per il successo ed il vantaggio competitivo aziendale. Le aziende,
quindi, dovrebbero implementare la strategia che Pfeffer (1994) ha denominato
“Putting People First”: questa espressione sintetizza l‟insieme delle politiche e dei
meccanismi di gestione in grado di far emergere e tutelare il patrimonio posseduto
dalle persone. In questo senso, per esempio, diventa cruciale per le aziende limitare
il turn over per alcune fasce critiche di lavoratori al fine di consolidare
l‟apprendimento organizzativo.
Con la nuova filosofia postfordista l‟organizzazione viene ad acquistare connotati
completamente diversi da quelli dell‟organizzazione “macchina”: la piramide
centrata, la chiusura e l‟autonomia lasciano il posto alla diversità, alla discontinuità
e alla complessità. Si parla, a tal proposito, di effetto “ODD”: outsourcing
(esternalizzazione), delayering (appiattimento della piramide gerarchica) e
deconstruction (frammentazione della catena del valore). All‟interno di questo
scenario diventa indispensabile ripensare al rapporto persona/organizzazione. Nel
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modello classico si era soliti ricorrere ai tradizionali meccanismi di generazione del
consenso mentre oggi si assiste al tramonto del posto di lavoro a vita e di tutte le
tutele ad esso associate. L‟impresa non è più in grado di garantire la sicurezza del
passato e, necessariamente, viene a modificarsi il contratto psicologico tra
lavoratore ed azienda. A questo proposito Rousseau (1997), una delle più celebri
esperte sull‟argomento, individua un continuum ai cui estremi si collocano due tipi
ideali di contratto psicologico: il contratto relazionale e quello transazionale. Il primo è
basato su accordi a lunga scadenza in cui sono coinvolti anche aspetti socio-emotivi
come il commitment, la fedeltà e la fiducia. Si tratta di un accordo fondato sulla
lealtà delle parti in cui le ricompense non derivano solo dalla prestazione
lavorativa, ma anche dalla partecipazione attiva alla vita dell‟organizzazione. Il
contratto transazionale, al contrario, denota un accordo caratterizzato da obblighi
monetizzabili, specifici e a breve termine in cui si richiede un limitato
coinvolgimento da entrambe le parti della relazione (Toderi e Guglielmi, 2003).
Alla luce delle recenti evoluzioni organizzative e del mercato del lavoro è possibile
evidenziare un progressivo spostamento dei contratti psicologici verso il polo
transazionale: rapporti di lavoro flessibili hanno sostituito i tradizionali contratti a
tempo indeterminato e si diffondono forme contrattuali meno impegnative per le
organizzazioni come il lavoro temporaneo, contingente o in affitto. Si sono anche
modificati i contenuti del contratto psicologico e si sono instaurati nuovi patti
informali fondati su una maggiore flessibilità, mobilità e sulle competenze
professionali (Anderson e Schalk, 1998). Le aziende non sono più in grado di
assicurare un posto di lavoro fisso ed opportunità di carriera a lungo termine e per
attrarre risorse puntano sull‟offerta di un ambiente di lavoro favorevole alla crescita
e all‟apprendimento. In questo modo si facilita anche l‟acquisizione di conoscenze
e competenze necessarie per incrementare l‟occupabilità di ogni individuo
nell‟organizzazione o altrove. Le aspettative nei confronti del lavoratore non sono
più basate sulla lealtà e sull‟impegno ma sulla sua capacità di generare valore
aggiunto per l‟organizzazione e sul suo essere responsabile per la propria carriera. I
lavoratori di oggi ricercano la sicurezza e la stabilità del posto di lavoro attraverso
quella che viene definita “employability” (Ellig, 1998): si tratta della ricerca di
luoghi e strumenti che consentano di essere “impiegabili a vita” grazie all‟accumulo
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di esperienze finalizzate alla maturazione e valorizzazione delle proprie
conoscenze/competenze professionali. Il ciclo di vita lavorativo diventa meno
rigido e standardizzato ma, allo stesso tempo, più precario e rischioso in quanto
meno tutelato.
Nuovi e diversi sono quindi gli elementi che possono garantire la motivazione, la
soddisfazione, la dedizione e la fidelizzazione delle risorse umane. A questo
proposito si pensi alla retention – dal verbo inglese “to retain” – che indica la
capacità aziendale di trattenere, conservare ed assicurarsi i servigi del personale.
L‟obiettivo è quello di attrarre e trattenere le persone attraverso il giusto impiego
delle singole attitudini, capacità e competenze necessarie a garantire la crescita del
valore economico aziendale.
Diverse realtà imprenditoriali hanno compreso la portata dei cambiamenti
descritti in precedenza e hanno seriamente iniziato ad implementare politiche e
progetti di Diversity Management con il fine di progettare strumenti gestionali in
grado di consentire l‟accettazione e l‟accoglimento delle “diversità compatibili” con
l‟organizzazione (Bombelli, 2003). Si utilizza il termine compatibilità in quanto le
organizzazioni devono saper riconoscere e fare propri gli elementi di diversità in
grado di sostenere le performance aziendali.
1.3
I fattori alla base delle politiche di Diversity Management
Un primo elemento che oggi giustifica l‟approfondimento del tema è la
progressiva complessità dei task e della struttura interna delle organizzazioni. Oggi si
assiste ad un cambiamento nelle modalità di erogazione del lavoro e si scopre il
valore aggiunto proveniente dalle diversità professionali. Le organizzazioni si
aspettano prestazioni più efficaci ed efficienti e tutto ciò spinge le stesse ad
aumentare la specificità delle singole mansioni.
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Parallelamente a questo fenomeno si verifica un innalzamento qualitativo delle
richieste che i singoli individui muovono nei confronti della realtà lavorativa. In Italia, così
come negli Stati Uniti, assistiamo ad una modificazione del rapporto individuo-
lavoro: le persone considerano sempre più il proprio impiego come un ambito dal
quale trarre realizzazione ed appagamento. Lo stesso Maslow, d‟altronde,
postulava l‟esistenza di un sentiero evolutivo che spinge ogni essere umano a
soddisfare i propri bisogni secondo un principio gerarchico: si parte da quelli
fisiologici sino ad arrivare ai bisogni più complessi legati all‟autorealizzazione.
Oggi il tasso di scolarizzazione si innalza ed alcune fasce di lavoratori sono sempre
meno interessate a semplici aumenti retributivi ma aspirano ad incarichi
personalizzati e ad alto valore aggiunto funzionali al miglioramento della qualità
della propria vita. Le persone richiedono, inoltre, la possibilità di inserirsi in
contesti lavorativi permeati da relazioni serene e costruttive.
I recenti fenomeni di globalizzazione ci introducono verso un ulteriore elemento
che differenzia la forza lavoro delle attuali organizzazioni rispetto a quelle passate:
la presenza nel medesimo contesto di persone di diversa etnia e nazionalità. Il tema
culturale si sta oggi affacciando anche nelle piccole e medie imprese italiane: dati i
fenomeni migratori registrati negli ultimi anni è possibile trovare personale
extracomunitario all‟interno dei reparti produttivi, nei cantieri, negli uffici, nei
laboratori etc. Le cause di questo fenomeno sono da ricondurre soprattutto, oltre
che alle ondate migratorie che quotidianamente si registrano nel nostro Paese, alla
carenza di manodopera locale per alcune posizioni professionali.
In aggiunta al tema cross-culturale si evidenzia un trend da non sottovalutare: la
femminilizzazione del mercato del lavoro. In Italia questo fenomeno, anche se si è
diffuso con un certo ritardo rispetto al Nord America e ad altri Paesi europei, sta
oggi prendendo piede: sono in atto mutamenti che spingono le donne a ricercare
una propria identità professionale, allontanandosi progressivamente dalla
tradizionale immagine della “casalinga madre di famiglia” (Bombelli, 2000).
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Anche il fattore età, nei Paesi caratterizzati dal benessere economico, sembra
acquisire una certa rilevanza: l‟allungamento della vita media conduce alla coesistenza
di persone di diversa età all‟interno di ogni realtà lavorativa. Sono due le
considerazioni da fare: in primo luogo è importante capire come affrontare e gestire
al meglio lo stereotipo “giovanilista” che, pur non essendo suffragato da dati reali,
si sta rapidamente diffondendo nella nostra cultura sociale ed organizzativa. Oggi
c‟è la tendenza ad assumere personale con età inferiore ai quaranta/quarantacinque
anni in quanto considerato potenzialmente utile e valido per l‟organizzazione. Tutti
quei soggetti che non hanno intrapreso una carriera entro tale soglia vengono
ritenuti a basso potenziale – sebbene qualificati – e ciò contribuisce
all‟innalzamento dei tassi di disoccupazione della fascia di popolazione “over 45”
(Bombelli, 2003). In secondo luogo, il fattore età si collega al tema del ciclo di vita:
persone di diversa età hanno aspirazioni e bisogni specifici non solo rispetto agli
altri, ma anche rispetto alla fase del ciclo di vita che si sta attraversando (si pensi
alle diverse necessità di donne con o senza figli).
Possiamo individuare un ulteriore elemento favorente l‟implementazione delle
politiche di Diversity Management: la presenza di soggetti con problemi di disabilità
all‟interno dei contesti organizzativi. L‟Organizzazione Mondiale della Sanità
chiarisce i termini della questione: la menomazione è il danno biologico che una
persona riporta a seguito di una malattia (congenita o meno) o di un incidente; per
disabilità si intende l‟incapacità a svolgere le normali attività della vita quotidiana
(a seguito della menomazione); l‟handicap, invece, è lo svantaggio sociale derivante
dalla condizione di disabilità. Riferendoci a tali definizioni possiamo dedurre che
una persona in sedia a rotelle è sicuramente disabile ma, potenzialmente, potrebbe
non essere handicappata se venissero rimosse tutte le barriere architettoniche
presenti sul territorio. L‟esempio riportato evidenzia la soggettività della condizione
di handicap: essa è legata alle aspettative di vita e alle specifiche esigenze della
persona disabile ed è proprio su questo punto che il Diversity Management può fare
la differenza. Nel panorama italiano, nonostante le normative in tema di
inserimento lavorativo e le numerose iniziative attivate grazie ai finanziamenti
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europei, i livelli di occupazione per i soggetti disabili risultano ancora piuttosto
bassi.
Un‟ultima criticità organizzativa riguarda la gestione delle malattie da trauma o
cronicizzate, ad esempio cardiopatie, nefropatie, malattie oncologiche, neurologiche
degenerative etc. Le aziende non mostrano una particolare sensibilità nei confronti
delle persone che si scoprono portatrici di una patologia (anche durante il percorso
professionale) ed attivano comportamenti discriminatori sulla base di
un‟ingiustificata credenza, ossia l‟idea della malattia come limite all‟efficienza
lavorativa.
1.4
Cultura organizzativa e diversità
Il Diversity Management si afferma a seguito di un percorso storico
contraddistinto da tre fasi (Wilson, 1997).
L’età della disuguaglianza (1950-1970): essa coincide con il culmine
dell‟industrializzazione e gli inizi dell‟età dell‟informazione. Le comunità sono
relativamente omogenee e la tolleranza nei confronti delle differenze si concretizza
attraverso l‟impiego di misure “coerenti con le normative vigenti”.
L’età dell’uguaglianza (1970-2000): in questa fase si individuano gli anni del
cambiamento. Essi sono segnati dalla presenza di una legislazione a favore delle
Pari Opportunità. Le organizzazioni, quindi, mettono in atto comportamenti volti
ad eliminare qualsiasi forma di discriminazione. L‟applicazione esasperata del
principio dell‟imparzialità legislativa, tuttavia, presenta delle carenze in quanto non
si arriva ad una considerazione adeguata delle differenze.
L’età dell’equità (dal 2000 in poi): essa giunge per risposta ai limiti della fase
precedente. Le differenze, attraverso il principio dell‟equità, vengono riconosciute e
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valorizzate. Il salto di qualità si verifica quando le organizzazioni iniziano a
predisporre le condizioni necessarie a sviluppare il talento a tutti i livelli.
È bene sottolineare un aspetto: il riscorso ad azioni positive per la tutela di precise
categorie di persone vengono spesso confuse con i progetti e le politiche di
Diversity Management. Come afferma la stessa Bombelli (2007): “il Diversity
Management non è una variante contemporanea delle Pari Opportunità anche se ne
può essere considerato la naturale prosecuzione” (Bombelli, 2007 pag. 17). Mentre
le azioni positive e le Pari Opportunità sono istituzioni pubbliche ed affrontano
tematiche di ordine pubblico/diritto privato, il Diveristy Management è una tecnica
manageriale che ha come obiettivo il miglioramento delle condizioni lavorative
(oltre all‟aumento dell‟efficacia ed efficienza organizzativa). Cambiano quindi i fini
perseguiti: le Pari Opportunità si propongono il superamento di ogni forma di
discriminazione (ci si rivolge solo alle categorie svantaggiate) mentre il Diversity
Management va oltre il problema della discriminazione in quanto mira alla
valorizzazione dei talenti individuali considerando, al contempo, i vantaggi per
l‟organizzazione (questi ultimi non vengono necessariamente presi in
considerazione dalla logica delle Pari Opportunità).
Andiamo ora ad analizzare il modello dell‟Equity Continuum proposto da
Wilson (1997). L‟autore individua sei livelli progressivi. Tale continuum può avere
una duplice chiave di lettura: storico-temporale e spaziale. Detto in altri termini,
alcune aziende possono posizionarsi su tutti i livelli codificati ma il passaggio da un
livello all‟altro non avviene né in modo automatico, né con il solo scorrere del
tempo.
Il rifiuto della diversità (livello 0)
A questo livello le organizzazioni si trovano in una situazione di totale rifiuto
della diversità. Le ragioni sono diverse: si pensi, ad esempio, alla mancata
anticipazione organizzativa dei cambiamenti correnti o futuri a livello demografico,
dei comportamenti e delle motivazioni della forza lavoro.
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