2
consuetudinario, il quale ha invece retto quasi esclusivamente in passato, fino
alla fine del XIX° secolo, le relazioni tra gli Stati.
In un mondo così composito ed in continuo movimento quale quello attuale,
diviene più ostica di quanto non lo fosse decenni addietro la formazione di norme
consuetudinarie generali, mentre non si esclude che la cristallizzazione derivante
dalla ripetizione di un dato comportamento e dall’elemento dell’opinio juris ac
necessitatis si realizzi su scala minore, a livello regionale
1
.
Ciò che è fuor di dubbio è che il diritto internazionale, non trovando sbocco in
questa direzione, come meccanismo reattivo, ha già da tempo intrapreso la via
della codificazione e quindi (in assenza di un legislatore sovraordinato) della
creazione della norma giuridica attraverso l’accordo scritto, il cui processo di
negoziazione sarà tanto più lungo e faticoso quanto più divergenti sono gli
interessi degli Stati negoziatori.
La preminenza del diritto convenzionale in campo internazionale è una tendenza
in costante ascesa, grandemente favorita dall’importante ruolo svolto dalle
Nazioni Unite, da altre organizzazioni internazionali e dai loro organi
2
, fungendo
essi non solo da forum per le trattative preliminari necessarie al raggiungimento
del consenso, ma rappresentando anche un continuo stimolo alla cooperazione
interstatale ed alla stipulazione di accordi multilaterali.
1
Si veda U. LEANZA, Il diritto internazionale. Da diritto per gli Stati a diritto per gli individui, Torino,
Giappichelli, 2002, p. 131.
2
Cfr. M. GIULIANO – T. SCOVAZZI – T. TREVES, Diritto internazionale. Parte generale, Milano,
Giuffrè Editore, 1991, p. 233.
3
Ovviamente tali accordi, oltre ad avere i pregi della fonte scritta, dunque
l’immediata applicazione conseguente al consenso e l’efficacia limitata ai
soggetti che lo hanno prestato, costituiscono l’incontro (come si è detto) di
posizioni anche molto distanti tra loro e possono pertanto assumere, talora, delle
forme carenti di forza a causa della vaghezza del contenuto, di formulazioni
compromissorie e ambigue, fino all’estrema soluzione rappresentata
dall’adozione di testi cosiddetti di soft law.
Infatti, di pari passo con la crescente istituzionalizzazione di forme di
cooperazione a tutela di interessi comuni alla comunità internazionale, spesso ci
si è trovati di fronte alle resistenze dei singoli Stati o di gruppi di Stati, tesi alla
difesa dei propri interessi soggettivi, ed alla conseguente impossibilità di munirsi
di un regolamento vincolante dotato del necessario carattere dell’universalità. In
questi casi l’unico strumento praticabile è costituito dal ricorso a dichiarazioni di
principi o a raccomandazioni prive di obbligatorietà giuridica, che non di meno
garantiscono un quadro generale ed una potenziale base di partenza per il futuro
sviluppo di importanti convenzioni.
4
1.2. Influsso della scienza sul diritto ambientale internazionale
Tutto quanto detto sopra è particolarmente vero in una specifica branca del diritto
internazionale ovvero quella che si dedica alla tutela ambientale.
La protezione dell’ambiente umano è considerato oggigiorno un interesse
globale, così come lo sono il mantenimento della pace o la tutela dei diritti civili,
e negli ultimi anni, a seguito dei ripetuti allarmi lanciati non solo dai gruppi
ambientalisti ma anche da rispettati istituti scientifici, esso ha assunto un’urgenza
che non sarebbe sbagliato definire prioritaria. Basti pensare ai sempre più
frequenti episodi di sconvolgimenti climatici, dai pericolosi cicloni ed uragani
che hanno flagellato gli Stati Uniti, l’America centrale o più di recente alcune
isole della Polinesia, alle violente alluvioni abbattutesi nell’estate del 2002
sull’Europa continentale. Oltre al fatto che la deforestazione continua a ritmi
impressionanti
3
, e con essa un’enorme perdita in termini di diversità biologica, i
suoi effetti, congiuntamente a quelli dovuti in particolare all’inquinamento
veicolare ed industriale, hanno iniziato ad assumere delle forme ben visibili.
E’ oramai di pubblico dominio la notizia relativa alla presenza di una enorme
nube tossica, prodotta dall’inquinamento di Paesi in via di sviluppo quali Cina ed
India, che si estende fino all’Africa ed al bacino del Mediterraneo, provocando
3
E’ stato calcolato che nel mondo ogni 2 secondi viene disboscata un’area pari a quella di un campo da
calcio. Si veda il Rapporto relativo alla politica forestale del WWF e del IUCN, Forest for life, 1996, al
sito www.wwf.int.
5
ingenti danni alla vegetazione, ai raccolti ed al sistema respiratorio di centinaia di
migliaia di persone
4
.
Questa lunga serie di fenomeni climatici possono essere ricondotti o comunque
collegati a quello più ampio del surriscaldamento relativo allo strato inferiore
dell’atmosfera: il c.d. “effetto serra”, da attribuire appunto all’esponenziale
aumento dei gas serra nell’atmosfera, i quali hanno l’effetto di intrappolare il
calore presso la superficie terrestre. Benché questo sia un meccanismo in parte
dovuto a fattori naturali e ad una sorta di alternanza delle fasi di riscaldamento e
raffreddamento nella storia del pianeta, è pur vero che la concentrazione di questi
gas è cresciuta enormemente dalla rivoluzione industriale in poi, tanto che solo
nell’ultimo secolo la temperatura media si è elevata di circa 1°C. Le conclusioni
presentate nel Terzo Rapporto dell’International Panel on Climate Change
(IPCC)
5
, che risale al 2001 e poggia sulle ricerche effettuate tra il 1995 ed il
2000, confermano questo dato affermando che vi è un’evidenza nuova e più
4
Si veda articolo a p. 20 de Il Corriere della Sera del 30 ottobre 2002, il quale si basa su di uno studio
effettuato dai ricercatori del tedesco Istituto Max Planck circa l’allargamento del fenomeno rappresentato
da questa nube, le cui dimensioni arrivano ad occupare una superficie di ben 16 milioni di chilometri
quadrati.
5
L’IPCC è stato costituito nel 1988 congiuntamente dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale
(WMO) e dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), allo scopo di raccogliere e
valutare i dati scientifici relativi all’evoluzione del fenomeno del cambiamento climatico provocato
dall’uomo. Si tratta di un organismo che, avvalendosi della collaborazione di oltre 1600 scienziati di
varie nazionalità, ha svolto e continua a svolgere un ruolo chiave nell’azione di stimolo diretta ai governi
affinché questi si adoperino nella realizzazione di un quadro normativo internazionale a tutela
dell’ambiente.
6
solida, e cioè che la maggior parte del surriscaldamento osservato negli ultimi
50 anni sia imputabile alle attività umane
6
.
Inoltre le previsioni per il futuro sono ancora più preoccupanti, visto che se il
precedente Rapporto (del 1995) stimava un aumento della temperatura, nei
prossimi 100 anni, compreso tra 1 e 3,5°C, quest’ultimo arriva a considerare un
intervallo che va da 1,4 fino a 5,8°C ovvero un tasso di surriscaldamento che non
avrebbe precedenti negli ultimi 10.000 anni
7
.
E’ chiaro che di fronte a simili previsioni, sarebbe insensato per la comunità
internazionale non intervenire prima che lo stato delle cose si aggravi rovinando
in una situazione di irreversibilità, specie in considerazione del fatto che l’entità
statale risulta di per sé insufficiente a fronteggiare quelli che sono divenuti dei
veri e propri rischi globali. Ma quanto esposto sopra ci aiuta soprattutto a
comprendere come, in un contesto particolare quale quello del diritto
internazionale ambientale, la formazione di nuove norme giuridiche sia
notevolmente influenzata dai progressi scientifici e tecnologici e dallo stato di
6
Cfr. Dossier Sale la febbre del pianeta, Sintesi del III Rapporto per i decisori politici dell’International
Panel on Climate Change, a cura del WWF Internazionale, 2001, p. 5, consultabile al sito ufficiale
dell’oganizzazione (si veda supra nota 3)
7
Inoltre, sulla base del rapporto annuale redatto dal Worldwatch Institute di Washington, che si pone tra
le più importanti organizzazioni ambientaliste del mondo, uno tra gli effetti non proprio secondari
dell’effetto serra sarebbe quello dello scioglimento delle calotte polari con conseguente innalzamento
degli oceani, i quali si prevede possano salire addirittura di 27 centimetri entro i prossimi cento anni, con
evidenti rischi per le isole e le zone costiere più basse. Cfr. Worldwatch Institute, State of the world
2003, Edizioni Ambiente, 2003.
7
avanzamento delle ricerche in campo ecologico
8
. E’ sufficiente qui ricordare che
se il Primo Rapporto dell’IPCC (del 1990), in qualità di primo documento
scientifico ufficiale riconoscente l’esistenza dei mutamenti climatici e la loro
potenziale gravità, si pose alla base della redazione della Convenzione Quadro
stipulata a Rio nel 1992, il Secondo Rapporto ha costituto la premessa
indispensabile per l’adozione del protocollo attuativo della convenzione
medesima, meglio noto come il Protocollo di Kyoto
9
.
Le continue ricerche scientifiche servono dunque a monitorare la capacità che
l’uomo ha di incidere sull’ambiente e di modificarlo, avvertendo circa i pericoli
di questa azione. Sulla base di tali risultati e anche dietro la spinta dell’opinione
pubblica, si aprono dibattiti politici all’interno delle istituzioni oggi adibite a
questo scopo, ed infine, a seconda del tipo di consenso raggiunto su di una data
problematica, si perviene alla stesura di testi giuridici più o meno vincolanti.
8
Si veda T. SCOVAZZI, Considerazioni sulle norme internazionali in materia di ambiente in Rivista di
Diritto Internazionale, 1989, vol. LXXII, p. 593
9
Verranno più avanti illustrate le caratteristiche, gli obiettivi e gli impegni contenuti in questi due
importanti strumenti giuridici di livello internazionale per quel che riguarda la tutela dell’ambiente.
8
1.3. La proliferazione degli accordi a tutela dell’ambiente
A grandi linee il processo sopra descritto, caratterizzato da un costante intreccio
tra scienza e politica, è quello che attualmente conduce alla creazione del diritto
internazionale ambientale, e ciò lo si deve soprattutto alla progressiva
maturazione di una coscienza ambientalista da parte della società.
Difatti prima che ciò accadesse, e quindi fino a tutta la prima metà del secolo
scorso, la tutela ambientale non era nemmeno concepita come valore a sé stante,
bensì come il sottoprodotto della tutela di altri interessi statali già consolidatisi
nella tradizione del diritto internazionale, primo fra tutti la sovranità statale,
intesa anche come il diritto dello Stato di disporre liberamente delle proprie
risorse naturali. Il boom economico post-bellico ha però condotto ad una crescita
più che proporzionale dei rischi ambientali, i quali hanno finito per trascendere lo
spazio fisico dei singoli Stati, consentendo così che si realizzasse, almeno sotto il
particolare profilo del pericolo ecologico, un primo tipo di “globalizzazione”.
Appare chiaro come oggi la tutela dell’ambiente è sempre meno un affare interno
e sempre più un affare internazionale, proprio perché si sono rapidamente
imposte delle tendenze ambientali globali, come la deforestazione, la
desertificazione, l’estinzione di specie della fauna e della flora, le piogge acide,
il riscaldamento globale o l’assottigliamento della fascia di ozono, che
minacciano di alterare radicalmente l’intero pianeta.
9
Questa acquisita consapevolezza ha in qualche modo inciso sulle modalità di
produzione delle norme giuridiche internazionali in tale settore: se in passato esse
potevano scaturire dall’atto unilaterale di uno Stato, poi condiviso anche dagli
altri, da una sentenza arbitrale o da uno stato di necessità
10
, ora la tendenza è
quella ad una formazione che passa essenzialmente attraverso lo strumento
dell’accordo
11
. Gli ultimi 30 anni infatti hanno visto moltiplicarsi i trattati
bilaterali e multilaterali pertinenti all’ambiente, e parte del merito di una così
dilagante produzione normativa lo si deve anche alla Conferenza di Stoccolma
del 1972, la quale ha ideologicamente segnato il passaggio da una visione di tipo
antropocentrico, in cui le risorse naturali erano considerate unicamente in
funzione del benessere dell’uomo, ad una nuova concezione del “bene-
ambiente”, cui viene conferito un valore intrinseco ed un’autonoma dignità.
La volontà di cooperazione dei governi, in qualche modo sancita dal principio 24
della Dichiarazione sull’ambiente umano (La cooperazione per mezzo di accordi
10
Per degli esempi concreti si veda T. SCOVAZZI, op. cit. supra nota 8, p. 593 e ss., il quale cita
rispettivamente: il caso Canada-Stati Uniti del 1970 sul diritto di uno Stato costiero di esercitare entro 200
miglia dalla costa anche una giurisdizione in materia di protezione e preservazione dell’ambiente marino;
il famoso caso della fonderia di Trail del 1938, sempre insorto tra Canada e Stati Uniti, le cui sentenze
arbitrali hanno costituito il primo passo verso la formazione della norma consuetudinaria relativa al
divieto di inquinamento transfrontaliero; ed infine il più recente caso dell’incidente di Cernobyl del 1986,
che ha portato alla rapida conclusione di due convenzioni, relative alla notificazione tempestiva di un
incidente nucleare ed all’assistenza in caso di incidente nucleare o di emergenza radiologica.
11
Cfr. S. MARCHISIO, Gli atti di Rio nel diritto internazionale, in Rivista di Diritto Internazionale,
1992, n. 3, p. 619. In una nota del testo, inoltre, viene riportata un’ interessante opinione del Kiss, inclusa
in un documento di ricerca del 1991 relativo all’UNCED, secondo cui: “International environmental law
is a new branch of international law, wich was emerged since the late 1960’s. Thus, its development was
very rapid. One of its main characteristics is the interconnexion of the substantive problems, wich often
had to be solved at a world-wide level. Consequently, the creation of customary rules was based less on
the practice of states than on treaties and various non-mandatory instruments; the collective reiteration of
rules or principles in different instruments may be considered has having replaced reciprocal state
practice, the more so since international judicial decisions have been rare in this field”.
10
internazionali o in altra forma è importante per impedire, eliminare o ridurre e
controllare efficacemente gli effetti nocivi arrecati all’ambiente da attività svolte
in ogni campo, tenendo particolarmente conto della sovranità e degli interessi di
tutti gli Stati), si è andata progressivamente intensificando, ed è stata favorita
dalla creazione, in esito ai lavori del simposio svedese, di un apposito apparato
istituzionale delle Nazioni Unite: l’UNEP (United Nations Environment
Programme), nato con il preciso scopo di promuovere e coordinare le iniziative
dell’ ONU relativamente alle questioni ambientali
12
.
Sono centinaia, difatti, gli accordi ambientali stipulati in seguito a questa data a
livello sia regionale che globale, ma pur sempre marcati da un certo settorialismo
e, nel loro complesso, da un evidente vizio di frammentarietà.
Prendiamo ad esempio la specifica tutela della risorsa forestale: la protezione
giuridica viene accordata esclusivamente a determinati tipi di foreste, o per il
particolare valore dell’ecosistema da esse rappresentato (è il caso della
Convenzione di Ramsar del 1971 sulle zone umide di importanza internazionale,
soprattutto in quanto habitat delle specie migratrici, nonché dell’ITTA, l’Accordo
internazionale sul legno tropicale
13
, del 1983), o per l’eccezionalità del valore
12
Cfr. L. PINESCHI, Tutela dell’ambiente e assistenza allo sviluppo: dalla Conferenza di Stoccolma
(1972) alla Conferenza di Rio (1992) in Rivista giuridica dell’ambiente, 1994/3-4, p. 495.
13
Va qui rammentato che le foreste tropicali, pur ricoprendo appena il 6% della superficie terrestre,
ospitano circa la metà delle specie esistenti su questo pianeta e ciò può dare un’idea dell’alto contenuto in
biodiversità presente in esse. Cfr. A. GILLESPIE, Sinks, biodiversity and forests:the implications of the
Kyoto Protocol for the other primary UNCED instruments, in Global climate governance, monografia a
cura della United Nations University in collaborazione con UNU Institute of Advanced Studies e con
Global Environmental Information Centre, 1999, al sito www.geic.or.jp.
11
universale, sotto il profilo naturale, tanto da meritare di essere tramandate alle
generazioni future (World Heritage Convention, 1972), o ancora la tutela è legata
al genere arboreo per il fatto di essere considerato una specie a rischio di
estinzione (CITES, Convenzione sul commercio internazionale di specie vegetali
e animali a rischio, 1973)
14
. Nonostante tali progressi, non si può affermare che
le foreste, così come l’ambiente in generale, siano stati fatti oggetto,
nell’ordinamento internazionale, di una protezione di tipo assoluto, che tuteli
questi beni indipendentemente dall’esistenza di qualunque altro requisito
15
.
Risulta, in sostanza, problematico e tuttora prematuro rilevare la formazione di
una norma internazionale consuetudinaria che imporrebbe agli Stati di proteggere
e di preservare l’ambiente in quanto tale, incidendo sulla loro giurisdizione
territoriale.
E’ questa, ad oggi, l’opinione più diffusa tra gli studiosi della materia
16
, anche a
seguito di un’ attenta valutazione di tutti quegli strumenti giuridici internazionali
che tendono a formulare norme ambientali in termini assoluti
17
, e pur senza aver
14
Si veda R. G. TARASOFSKY, Assessing the international forest regime, IUCN Environmental Policy
and Law Paper n. 37, IUCN Environmental Law Center, 1999.
15
Cfr. T. SCOVAZZI, op. cit. supra nota 8, p. 605.
16
Si veda S. MARCHISIO, op. cit. supra nota 11, p. 588, ed anche U. LEANZA, op. cit. supra nota 1, p.
221, e T. SCOVAZZI, op. cit. nota precedente, p. 605.
17
Fanno parte di questo gruppo non solo le Convenzioni citate poco sopra (Ramsar, CITES, WHC), ma
anche le dichiarazioni di principi prive di effetti vincolanti, quali sicuramente la Dichiarazione di
Stoccolma del 1972 (“..la difesa ed il miglioramento dell’ambiente sono divenuti uno scopo imperativo
per tutta l’umanità..”) e la Carta mondiale della natura, adottata in seno all’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite nel 1982, che, precisando ed estendendo la portata di alcuni principi del precedente
documento, ha contribuito alla formazione di un’etica ambientale globale (principio 1: “La natura sarà
rispettata ed i suoi processi essenziali non saranno alterati”).
12
trascurato una corrente minoritaria della dottrina secondo cui all’ambiente
andrebbe invece attribuito il rango di “bene indisponibile primario” e di
“patrimonio comune dell’umanità”
18
.
Dunque, benché si sia ancora lontani dal prefigurare un simile obbligo a carico
degli Stati, tuttavia la gran quantità di trattati regionali e globali di interesse
ambientale sicuramente contribuisce a tracciare un’ autorevole aspirazione di una
parte più o meno ampia della comunità internazionale ed una significativa
tendenza verso ulteriori sviluppi del diritto stesso in questo ambito, oltre al fatto
che essi, per dirla con le parole del Kiss, may reinforce each other on the same
or similar issues
19
. E’ altrettanto vero però che la crescente attenzione ai temi
ambientali e la conseguente proliferazione degli strumenti giuridici internazionali
può condurre ad un’inevitabile sovrapposizione dei contenuti e ad una probabile
interferenza degli obiettivi fissati
20
.
Ed è proprio prendendo spunto da quest’ultima riflessione che si dipanerà il
presente lavoro, con il preciso intento di indagare quali sono i punti di aderenza e
quali invece quelli di maggiore tensione tra le convenzioni scaturite dalla
18
A sostegno di questa posizione minoritaria si riscontra però un commento da parte della Commissione
del diritto internazionale che, riguardo all’art. 40 del Progetto del 2001 sulla responsabilità degli Stati,
reputa l’inquinamento massiccio dell’atmosfera e dei mari una violazione grave di norma imperativa. Cfr.
LEANZA, Ibidem.
19
A. KISS e D. SHELTON, International environmental law, Second Edition, Transnational Publishers
Inc., Ardsley, New York, 2000, p. 77.
20
Si veda a riguardo Ibidem e T. SCOVAZZI, op. cit. supra nota 8, p. 592.
13
seconda grande tappa che, dopo la Conferenza di Stoccolma, ha segnato il
cammino del moderno diritto internazionale ambientale: il vertice di Rio.
1.4. Il cammino verso la Conferenza di Rio.
Occorre premettere naturalmente che quello che venne definito come il “vertice
della Terra” non nasce dal nulla, ma è il risultato di una lenta metabolizzazione
ad opera della comunità internazionale di realtà che crebbero in modo
esponenziale nel corso degli anni ’80 e che non potevano più essere ignorate.
Si tratta in primo luogo dell’esistenza di quei rischi ambientali su scala mondiale
di cui si è già parlato, e nei confronti dei quali si iniziano a prendere proprio
attorno a questo decennio dei concreti provvedimenti normativi
21
. In secondo
luogo si tratta di affrontare in modo consapevole anche le interrelazioni che
vengono a determinarsi tra fattori economici ed equilibrio ambientale: non solo è
vero che uno sviluppo che ecceda i limiti naturali danneggia l’ambiente, è pure
vero che un ambiente degradato impedisce lo sviluppo; così come innegabile è
sia il fatto che i conflitti, internazionali o interni, distruggono l’ambiente e sia
21
Basti pensare alla Convenzione di Ginevra atta a contrastare il fenomeno delle piogge acide risultanti
da fattori inquinanti provenienti anche da molto lontano (1979), o a quella di Vienna per la protezione
della fascia di ozono (1985) seguita dal relativo Protocollo (Montreal, 1987), e naturalmente a quelle sulla
diversità biologica e sul cambiamento climatico firmate a Rio de Janeiro nel 1992 ma elaborate sin dagli
anni precedenti.
14
quello che un ambiente deteriorato genera conflitti
22
. Questa sorta di circolo
vizioso diviene oggetto di studio da parte della Commissione indipendente
sull’ambiente e lo sviluppo (World Commission on Environment and
Development), istituita nel 1983 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
23
con il compito di indicare una soluzione all’impasse determinato dallo scontro tra
gli imperativi dello sviluppo, condivisi dalla gran parte dei Paesi del Sud del
mondo, e quelli della protezione ambientale, lanciati dai Paesi industrializzati
24
.
La relazione finale della Commissione, pubblicata nel 1987 con l’emblematico
titolo “Our Common Future” e nota anche come Rapporto Brundtland
25
, oltre a
confermare i rischi delle recenti tendenze ambientali, appura che la
riproducibilità delle risorse naturali può essere mantenuta soltanto da un uso
razionale delle stesse, pertanto invita ad un modello di crescita che sia in grado di
soddisfare i bisogni della generazione attuale senza compromettere le capacità di
quelle future di rispondere ai loro.
Le Nazioni Unite sembrano recepire le nuove istanze innanzitutto riconoscendo
che i rischi ambientali globali, ed in particolare i problemi derivanti dai
mutamenti climatici, costituiscono una preoccupazione comune dell’ umanità
26
, e
22
Si veda T. SCOVAZZI, op. cit. supra nota 8, p. 603.
23
Si veda la risoluzione n. 38/161 adottata il 19 dicembre 1983 dall’Assemblea Generale.
24
Cfr. G. C. GARAGUSO – S. MARCHISIO, Rio 1992: vertice per la Terra, Milano, Franco Angeli,
1993, p. 32.
25
Il Rapporto (doc. N. U. A/42/427 del 4 agosto 1987) prese il nome dal primo Ministro norvegese Gro
Harlen Brundtland, Presidente della Commissione medesima.
26
Si veda la risoluzione n. 43/53 adottata il 6 dicembre 1988 dall’Assemblea Generale.
15
poi convocando una Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo quale azione
decisiva, urgente e globale al fine di proteggere l’equilibrio ecologico del pianeta
ed elaborare degli strumenti giuridici in grado di frenare e far regredire gli effetti
del degrado ambientale
27
. Solamente in seguito a quattro sessioni di negoziati
preparatori (PREPCOM), svoltesi nell’arco di due anni, si giunge, nel dicembre
1992, all’attesa celebrazione della Conferenza di Rio de Janeiro, la più ampia a
livello intergovernativo tra quelle tenutesi fino ad allora, dato che vide la
partecipazione di ben 183 Stati, oltre a quella di numerose agenzie specializzate
ed organizzazioni di vario genere invitate in qualità di osservatori.
27
Si veda la risoluzione n. 44/228 del 22 dicembre 1988.