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Ma tutte le tutele che noi oggi possiamo osservare, intendendo non solo
le leggi di regolamentazione del lavoro ma anche i sistemi di assistenza
sociale, sono riuscite ad attecchire a livello giuridico solo perché, in fin
dei conti, miravano a difendere l’integrità fisica delle persone, che è
garanzia del corretto svolgimento del lavoro, elemento fondamentale di
tutti i sistemi economici esistenti. E, nel secolo scorso, siamo arrivati
all’essenziale punto che è lo Stato, come Istituzione che tutela il suo
popolo, a dover farsi carico di tali strumenti di garanzia. È stato, senza
dubbio, un percorso difficile e progressivo, ma la grande conquista è
stata quella di aver posto determinati diritti-chiave in un contesto
costituzionale, quindi di aver ottenuto il massimo riconoscimento
giuridico.
La nostra Costituzione, ad esempio, enuncia che la Repubblica Italiana è
fondata sul lavoro e, di conseguenza, primo interesse dello Stato
dovrebbe essere difendere questa grande capacità dell’uomo. Ed è quello
che storicamente gli stati si sono impegnati a fare con le loro politiche di
welfare, non solo mettendo a disposizione dei lavoratori delle strutture
sanitarie, ma integrando la loro vita lavorativa con dei sussidi capaci di
mettere una pezza ai periodi in cui l’uomo non gode di equilibrio fisico.
Infatti, restando in ambito italiano, è proprio sul lavoratore che si è
fondato il modello di welfare detto appunto “occupazionale”, in quanto
le prestazioni vengono a configurarsi come integrazioni di reddito e
come correttivo, almeno parziale, delle ingiustizie prodotte dal mercato
nella distribuzione dei redditi. Non solo, prendendo come punto cardine
il lavoratore con un impiego a tempo indeterminato, per tutelare la
famiglia monoreddito venutasi a creare col boom economico del secondo
dopoguerra, si è costruito un sistema di agevolazioni e sussidi che
permettesse di vivere decentemente.
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Quindi, riprendendo le dichiarazioni di vecchi utilitaristi del calibro di
John Stuart Mill (e di fondamentali Carte), si è cercato anche di
assicurare al lavoratore quel giusto equilibrio psicologico che potesse
metterlo nelle migliori condizioni di lavorare e che potesse permettergli,
attraverso il reddito, di diventare anch’egli possidente, e di ridurre
dunque quel distacco che lo divide dalle classi più agiate, andando a
formare quella che diventerà la classe media. Classe media che diventerà
tale anche grazie al sistema di sicurezza socio-economico improntato
dallo stato.
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I - 2. Quindi, possiamo ben vedere che, a partire da un certo
periodo storico (il secondo dopoguerra), si è fatto strada anche un altro
principio in base al quale è poi stato improntato il sistema di
redistribuzione delle risorse da parte dello stato, e cioè il concetto di
benessere sociale, che riprende ed amplia la semplice protezione
lavorativa dell’individuo.
Solo che ad un certo punto le cose hanno smesso di andare per il verso
giusto.
La linea di rottura che più spesso viene indicata come l’accensione
dell’allarme rosso per il welfare, e quindi la nascita di posizioni
riformatrici dell’intero sistema, è sicuramente il 1973. Con la crisi
energetica, e la stretta sui prezzi delle materie prime, nei paesi
occidentali si manifestano due fenomeni che gli economisti non
avrebbero mai creduto poter vedere insieme: stagnazione e inflazione. È
la cosiddetta “stagflazione”, fenomeno che flagellerà le economie di
molti paesi ma, soprattutto, di quelli carenti in risorse, come l’Italia.
Anzi, in casa nostra le cose prendono una bruttissima piega proprio a
partire dagli anni ’70, in quanto si hanno finalmente i forti aumenti
salariali che faranno fare il salto di qualità alla nostra middle class ma,
per contro, comincia un grande indebitamento dello stato, che
ovviamente si ripercuoterà sulle generazioni future. Tutto ciò ha dato
inoltre il pretesto per procedere ad una svalutazione ad oltranza della
moneta nazionale, contribuendo così ad indebolire ancora di più il
sistema.
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I - 3. Ma qual è stato l’effetto perverso della crisi sui sistemi di
sicurezza sociale di tipo Keynesiano e perché? Il problema, da molti
riconosciuto, è che le moderne economie avevano ormai raggiunto
l’apice del boom economico (quasi il vecchio sogno della piena
occupazione) e lo avevano fatto in un modello fordista in cui si era
ovviamente inserita la politica sociale, in cui, cioè, l’assistenza era
pensata per il lavoratore con un impiego a tempo indeterminato (che si
pensava potesse durare per sempre), ed era mirata a venire in suo
soccorso nel momento della malattia, della vecchiaia e delle difficoltà
congiunturali della piega economica. Ma il punto più importante è che
tutto il sistema era pensato (e aggiungo che non poteva essere altrimenti)
e modellato su un tipo di famiglia con a capo il padre, lavoratore unico, e
con moglie e figli a carico, e quindi prevedeva una serie di agevolazioni
per i familiari che gravavano sul capofamiglia. E questa è stata la
famiglia tipo di tutto il boom economico (inteso nell’onda lunga fino alla
crisi del ’73). Ma, a partire da quegli anni, il tipo ideale incomincia ad
incrinarsi, soprattutto a causa delle modificazioni nel mondo del lavoro e
nei cambiamenti sociali, quando le forme fisse di impiego vengono ad
essere pian piano sostituite da altre più flessibili e quando i legami
tradizionali vengono spazzati via (le “legature” di Dahrendorf). Ma il
sistema assistenza incomincia a farci vedere il suo lato peggiore quando
andiamo ad esaminare il suo reale funzionamento e le prospettive che dà
per un prossimo futuro. Titmuss ha chiamato questo modello
“istituzionale-redistributivo”. Credo che miglior definizione non potesse
esser data. Gli istituti dello stato che erogano servizi e prestazioni nel
campo sociale e assicurativo hanno iniziato a far storia a sé, sono
diventati delle vere e proprie Istituzioni, amministrate secondo una
logica burocratica che si oppone con immensa fermezza ad ogni
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tentativo di cambiamento, anche se questi ultimi vengono approntati solo
per perseguire un minimo miglioramento nella gestione delle
redistribuzioni. Perché non dimentichiamoci che proprio di questo
stiamo parlando: di redistribuzione del reddito a favore delle fasce meno
abbienti della popolazione. Dunque, è proprio qui il nocciolo della
questione. Già dagli anni ’70 la logica delle società occidentali di
mercato ha portato ad un aumento del benessere, con un conseguente
ampliamento della classe media, che comincia a sentire con sfavore
l’elevato carico fiscale e molti istituti del sistema di welfare, ritenuto
inutile per i più abbienti e dannoso per i poveri. Già da queste poche
righe si può notare che questo è il classico risentimento liberista, che
avrà una sua ondata a partire dagli anni ’70 (denominata “neoliberismo”)
e che tanto successo riscuoterà nei paesi anglosassoni, e soprattutto nella
sua patria, l’Inghilterra. Anche perché lì è forte la tradizione
individualista fatta di self help e di filantropia privata.
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I - 4. Tornando al funzionamento del sistema welfare, oltre
all’immobilismo burocratico che caratterizza gli istituti preposti, c’è da
segnalare le storture che si vengono a creare attraverso l’utilizzo degli
ammortizzatori sociali, in virtù di un’interpretazione spesso espansiva
delle regole del gioco.
Per fare un esempio, i sistemi di welfare sono stati concepiti per dare un
aiuto al lavoratore in difficoltà, o magari anche all’azienda in difficoltà.
È però accaduto che questi stessi strumenti siano stati utilizzati in
maniera inflattiva dalle imprese che vogliono liberarsi della manodopera
eccedente (soprattutto in tempi di crisi), utilizzando dunque istituti come
il prepensionamento e la cassa integrazione, spesso con il beneplacito del
potere governativo.
È ovvio che però si viene così a creare una bolla di spesa che rischia di
scoppiare quando la generazione del baby-boom arriverà al
pensionamento vero e proprio, e di qui la corsa oggigiorno alle riforme
delle pensioni. Ed è altrettanto palese che non è solo questo il vero neo
del welfare, perlomeno non l’unico.
A voler insistere sul solito campo, ad esempio, ci sarebbe da dire che il
sistema di garanzie e di assicurazioni è servito, in molti casi, a creare uno
zoccolo duro per il lavoratore, affinché esso potesse entrare nel lavoro
sommerso.
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I - 5. Gli errori e le nuove disuguaglianze (come la under class,
composta da coloro che sono tagliati fuori da ogni processo
redistributivo) che si sono venute a creare nei sistemi per inseguire e
correggere le storture del mercato hanno portato ad una crisi generale di
politica pubblica, in quanto ci siamo resi conto che le misure di welfare
non sono più adatte alla società concreta che si è venuta formando, ed
hanno anche portato ad una crisi del patto redistributivo. Infatti lo stato
non riesce più a ripartire in maniera ottimale i costi delle politiche
sociali, facendo scemare così la propria capacità di protezione. Su tutto
ciò, inoltre, si installa la protesta di chi si rifiuta di pagare sempre di più
per ottenere sempre di meno, considerando anche che il fisco rappresenta
il perno e l’accordo solidaristico fondamentale delle società moderne.
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Ovviamente questo doppio fronte di crisi non può che avere effetti
devastanti sia sulla società civile che sulla classe politica, anche perché i
ceti medi vedono sempre più insidiata la propria posizione e vedono
sempre più vicina la prospettiva di una discesa nella scala sociale. Come
se non bastasse, gli strati inferiori della popolazione rischiano di perdere
le poche franchigie che permettono loro di vivere un’esistenza decorosa,
facendole scivolare nella povertà più assoluta. E non si capisce come lo
stato possa tutelare quest’ultima fascia sociale, quando intende
smantellare (spesso più come minaccia che come reale prospettiva)
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il
sistema di welfare, per far fronte al calo di legittimazione che segue alla
rottura sul piano fiscale.
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Come sostiene P. Donati in La cittadinanza societaria, Laterza, Roma-Bari, 1993.
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Infatti, di fronte alla minaccia di smantellamento degli istituti di assistenza, nella quasi totalità dei
casi si sviluppa una protesta sociale ed istituzionale che porta, di fatto, ad un forzato dietro front, fatto
anche di politiche “tappa buchi” ad effetto temporale molto limitato. La minaccia però, in casi come
questi, può a mio parere servire a porre agli occhi della società, in maniera forte, l’esistenza di un
problema grave e, magari, mettere in moto meccanismi di mutamento.
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I - 6. L’idea che intendo sviluppare in questo lavoro può essere
ben esemplificata dall’unione della parola “liberale” alla formula
“benessere sociale”. E per liberale intendo la strada che Ralf Dahrendorf
ha indicato nelle sue opere a coloro che volessero effettivamente seguire
una via politica con questo nome, in quanto, a detta dell’autore anglo-
tedesco, molti partiti in Europa si dicono liberali ma non hanno niente
nei loro progetti, nelle loro manifestazioni politiche, nei loro interventi,
che possa lasciar presagire un loro appoggio alla pura questione
liberalista. E questo semplicemente perché il liberalismo è la dottrina che
pone al centro di tutto la libertà come valore fondante della società. Se si
perde per strada questo enunciato fondamentale, si perde anche il diritto
ad esser chiamati liberali.
Strettamente collegato a questa idea politica, vi è l’idea di un forte
individualismo che dovrebbe informare tutta l’attività umana, ma in
particolar modo che dovrebbe esser ripreso e messo in opera da quella
parte della società che si prefigge di governare. Perché l’individualismo?
Perché l’obiettivo dovrebbe essere quello di porre al centro delle
politiche sociali l’individuo, il cittadino in quanto tale e non in quanto
membro di qualche associazione collettiva come il sindacato, l’impresa o
la famiglia.
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Inoltre, i processi connessi con la post-modernità portano
l’individuo a ridefinire la propria identità in chiave soggettiva e ad
elaborare bisogni e desideri nuovi, ai quali lo stato non può far fronte se
non introducendo delle politiche che guardino direttamente al singolo.
D’altronde questa è la tendenza che ritroviamo nelle dichiarazioni
programmatiche dei governi di molti paesi occidentali, nelle quali si
enunciano inevitabili riforme in materia sociale.
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Principio che, tra l’altro, sta alla base del pensiero di uno dei più grandi teorizzatori dello stato
sociale: Thomas H. Marshall.
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Dalla nuova destra il problema della povertà è, ad esempio, visto in
maniera rovesciata rispetto a quanto pensavano i creatori di grandi
modelli di welfare del secondo dopoguerra.
In quel periodo infatti, la povertà veniva vista come un problema sociale,
derivante da un iniqua redistribuzione della ricchezza e quindi come una
piaga della cui cura si doveva occupare la società nella sua totalità, sotto
forma di Stato.
Oggi invece la tendenza è quella di vedere il problema come
fondamentalmente individuale, nel senso che la povertà sarebbe
riconducibile ai singoli percorsi individuali. Quindi, affermando tutto
ciò, si afferma anche che l’intervento dello Stato in materia sociale non
ha quasi più senso, visto che si tratterebbe ora di “correggere” queste
traiettorie individuali, compito che il welfare state tradizionale non può
assolvere perché non ne è in grado. Per cui si procede con grande lena
allo smantellamento degli istituti di politiche sociali, senza tener troppo
di conto che la già indigente under class potrebbe diventare ancora più
povera e innescare una protesta tanto sottovalutata quanto pericolosa per
la vita stessa della società.
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Ed è proprio per questo motivo che scelgo Ralf Dahrendorf come guida
filosofico-politica, perché nei suoi lavori possiamo rintracciare un tipo di
individualismo che si connette con la libertà di tutti, e pone anzi dei
correttivi ai problemi sociali in atto.
Ovviamente, il contributo del succitato autore non è di certo l’unico in
materia. Inoltre, procedendo nella lettura delle sue opere, mi sono reso
conto di quanto siano attuali in rapporto al nostro paese.
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Il riferimento all’Italia è forte: secondo l’autore il processo di distruzione delle basi della società
civile è già in atto.