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Introduzione
Viviamo in un’epoca in cui una parte consistente delle realtà economiche risulta
ancora controllata da un soggetto economico pubblico, centrale o locale che sia.
Storicamente, si è ricorsi allo Stato per evitare i c.d. fallimenti di mercato e garantire
peraltro un’equa redistribuzione del benessere; tuttavia, nel corso della storia non sono
mancati nemmeno i c.d. fallimenti dello Stato, che hanno invece portato il mercato stesso
a surrogarsi all’inefficiente operato statale, decretando peraltro una sostanziale
inefficacia dell’organizzazione pubblica sotto il profilo dell’economicità. Difatti, attorno
alla conduzione delle aziende a controllo pubblico si cela molto spesso un alone piuttosto
considerevole di avversione, malfunzionamento, inefficienza e conservazione che, a ben
vedere, sembra minare le reali possibilità di raggiungere e/o mantenere adeguate
condizioni di equilibrio.
In tale contesto, la scelta tra Stato e mercato ha da tempo posto le basi per un
fervido dibattito economico (il c.d. debate on State versus private ownership), che vede il
modello capitalistico essere continuamente contrapposto al modello delle economia
pianificata. Sebbene la scelta tra capitalismo di Stato e capitalismo di mercato, non abbia
ancora trovato una soluzione univoca e condivisa a livello concettuale, sembra essere
piuttosto delineata la direzione intrapresa dai principali governi, specificamente mirata a
privatizzare le numerose imprese statali operanti nei settori nei quali lo Stato deteneva in
passato il controllo, sfruttando spesso una situazione di rendita monopolistica. Per tale
motivo, dopo aver brevemente analizzato l’excursus storico-normativo che le aziende
pubbliche, in Italia e nel resto dei Paesi occidentali, hanno seguito (statalizzazione prima e
privatizzazione, deregolamentazione e globalizzazione poi), nonché il mutamento del
pensiero dominante sul tema, si intende procedere ad una primaria classificazione
d’azienda al fine di delineare i confini all’interno della quale l’intera ricerca troverà il suo
ambito di discussione. Pertanto, partendo dalla generica definizione di azienda che, in
base all’identificazione del soggetto economico, consente di scindere l’azienda pubblica
da quella privata, ci si concentra prevalentemente su quelle aziende pubbliche di
produzione per l’erogazione e per il mercato, ovvero sia le imprese pubbliche, e più
7
precisamente, nella specifica dicotomia tra imprese a totale controllo pubblico (State-
owned enterprises) e imprese pubbliche compartecipate da privati (mixed enterprises).
In proposito, è importante sottolineare come gran parte della letteratura
economica si sia principalmente soffermata solo sulla scelta tra Stato e mercato,
rilegando all’analisi delle diverse forme di controllo pubblico un ruolo meramente
marginale. In realtà, sebbene sia doveroso precisare che la letteratura estera si sia
comunque mostrata più sensibile riguardo la tematica in questione, emerge chiaramente
che la dottrina che ha indagato i livelli di performance delle imprese a capitale misto non
risulta essere così “ricca” come quella relativa alle imprese a totale controllo pubblico. È,
infatti, opportuno precisare che le imprese con proprietà mista pubblico-privata si sono
solo di recente inserite all’interno del dibattito tra imprese a totale controllo pubblico ed
imprese a totale controllo privato, poiché in principio si è ritenuto che queste
organizzazioni potessero condividere specifiche caratteristiche dell’una e dell’altra
categoria, ponendosi come soluzione intermedia per raggiungere tanto i risultati
economici quanto quelli sociali.
Tuttavia, sotto l’etichetta “impresa pubblica” è possibile annoverare una
molteplicità piuttosto variegata di situazioni con caratteri molto spesso differenti tra loro:
è per tale motivo che risulta di primario interesse distinguere le diverse forme di
intervento pubblico in base alla quota di partecipazione detenuta appunto dal soggetto
economico pubblico nella compagine sociale, al fine di connotare un’impresa come
“impresa a totale controllo pubblico” piuttosto che “impresa a controllo pubblico
compartecipata da privati”. Sebbene le due situazioni economico-giuridiche denotino
notevoli punti di contatto, é evidente che necessitino anche di un’analisi separata al fine
di coglierne nel dettaglio i relativi punti di forza e di debolezza. In relazione alle analogie
delle due fattispecie aziendali si intende, innanzitutto, indagare sia le possibili
interferenze che gli interessi del soggetto pubblico possano palesare relativamente ai
caratteri di aziendalità, ovverosia coordinazione sistemica, autonomia decisionale ed
economicità, sia il particolare e delicato ambito di manovra dell’intervento pubblico trova
applicazioni generale, che si esplica tra il rispetto del vincolo economico ed il
conseguimento dell’output sociale.
8
La trattazione verte poi sull’impostazione tracciata da un nuovo filone di studi
prevalentemente volto ad individuare un’economia più “umana”, valida tanto per le
imprese pubbliche quanto per quelle private. Pertanto, ricorrendo ad un unico framework
teorico che consta la contemporanea interazione di tre differenti paradigmi economici
(teoria degli stakeholder, teoria del bene comune e teoria dell’equilibrio aziendale) si
intende offrire uno spunto riflessivo che, basandosi sull’etica economica, è finalizzato alla
comprensione dei motivi sottostanti le difficoltà operative delle imprese a controllo
pubblico in termini di efficacia ed efficienza. Sulla base del medesimo framework teorico
e sulla base della medesima impostazione concettuale, vengono pertanto indagate le
principali divergenze e le principali fonti di conflitto d’interesse, che possono insorgere in
base all’atteggiamento individualistico del soggetto politico, del management, dei
dipendenti pubblici e degli altri soggetti che, in una qualche maniera, interagiscono con
l’impresa ed una serie ulteriore di problematiche quali il fenomeno della corruzione e il
problema principale-agente, che talvolta ricalcano questioni legate al mondo privato e
talvolta rappresentano invece dei veri e propri problemi sedes materiae.
Ne consegue che il focus principale è inevitabilmente posto sulle principali
differenze, tra le imprese interamente pubbliche e quelle a capitale misto, possono
sorgere relativamente alla teoria del bene comune e della stakeholder theory, e sono in
grado spiegare eventuali divergenze in termini di “condizioni di equilibrio complessivo” e
performance economiche. L’obiettivo è dunque quello di individuare quale possa essere il
modello di controllo pubblico da preferirsi, con evidente confronto anche al mondo
privato, ed inquadrare pertanto la trattazione come la naturale prosecuzione di quelle
ricerche che si sono meramente limitate ad individuare le differenze pubblico e privato. Si
procederà, dunque, attraverso un multiple case study, che consenta di individuare non
solo le inefficienze rispetto al settore privato, ma anche rispetto ad economie differenti
da quella italiana. Se da un lato, infatti, il confronto con il settore privato sembra, oltre
che immediato, particolarmente utile per rilevare aspetti particolarmente critici della
gestione pubblica, dall’altro lato, si ritiene altresì importante individuare una sorta di
benchmark a livello europeo con lo scopo di carpire quali possano essere i fattori esterni
(stazionarietà dell’ambiente socio-istituzionale, arretratezza economica del “sistema
9
Paese”, barriere tecnologiche, commerciali o legali, asimmetrie informative, etc.) ed
interni (interessi differenziati dei partecipanti al sistema, burocrazia e gerarchizzazione,
sedimentazioni culturali, etc.), che di fatto limitano l’agire del soggetto pubblico in Italia.
Per calare l’indagine ad un livello di concretezza maggiore si intende infatti
inquadrare la stessa all’interno di un triplice livello di approfondimento ulteriore, che
consenta, in primo luogo, di comprendere quale possa essere, all’interno del contesto
nazionale, il modello proprietario da preferirsi nel difficile tentativo di conciliare livelli
adeguati di economicità con il raggiungimento del benessere per la collettività. In
secondo luogo, si procede ad individuare i principali fattori macro-ambientali che
affliggono il settore pubblico italiano e di fatto limitano l’operato delle State-owned
enterprises e delle mixed enterprises. In terzo luogo, mediante l’indagine comparata
sull’efficienza del sistema pubblico e dei relativi modelli di capitalismo, si analizzano le
principali variabili che consentono ad alcuni Paesi esteri, quali Francia, Germania e Cina di
avere imprese a controllo pubblico, specie se a capitale misto, in grado di raggiungere le
tanto auspicate condizioni di equilibrio complessivo. L’evidenza empirica e teorica
riportata delle diverse realtà economiche estere può fornire una serie di spunti di
riflessione che, se opportunamente colte, potrebbero consentire di migliorare anche il
complessivo livello di economicità delle imprese a controllo pubblico italiane.
Si analizza, infine, il ruolo e l’ambito di applicazione della più recente dismissione
statale italiana, avvenuta in seguito alla nota liberalizzazione del servizio postale e la
recente apertura del capitale sociale di Poste Italiane S.p.A., con annessa quotazione sul
mercato borsistico di Milano. La forma ibrida pubblico-privata potrebbe infatti connotarsi
come una soluzione migliore anche rispetto alle imprese a totale controllo privato, al fine
di continuare a garantire il c.d. “servizio universale”, raggiungendo al tempo stesso
adeguate performance economiche. In tal senso, si intende mostrare come il servizio
universale postale possa in realtà essere garantito anche nel rispetto delle logiche di
efficacia ed efficienza economica, mediante un’effettiva riconsiderazione dell’intero
concetto a livello strutturale e il “finanziamento” da parte degli altri settori operativi
dell’azienda.
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Capitolo I
Il concetto di controllo pubblico: caratteristiche generali ed evoluzione del
fenomeno nelle sue manifestazioni
1. Considerazioni introduttive
La scelta tra Stato e mercato ha da tempo posto le basi per un fervido dibattito
economico, che vede il modello capitalistico essere costantemente contrapposto al
modello delle economie pianificate; si parla in tal senso anche di capitalismo di Stato e
capitalismo di mercato (Cap. I, § 2.). Storicamente si è ricorsi allo Stato prevalentemente
per evitare i c.d. fallimenti di mercato e garantire peraltro una distribuzione più equa del
benessere, ma nel corso della storia non sono mancati nemmeno i c.d. fallimenti dello
Stato, che ne hanno sostanzialmente decretato una sua inefficacia sotto il profilo
dell’economicità, alimentando nuovamente il dibattito in questione.
Per tale motivo, si ritiene innanzitutto necessario analizzare l’excursus storico-
normativo che le aziende pubbliche, in Italia e nel resto dei Paesi occidentali, hanno
percorso (Cap. I, § 3., 3.1., 3.2., 3.3.): dopo un’iniziale strategia di statalizzazione, si è poi
progressivamente assistito ad una serie di fenomeni quali la privatizzazione, la
deregolamentazione e la globalizzazione, che di fatto hanno drasticamente ridotto il ruolo
della presenza pubblica all’interno dell’economia. Tale passaggio si mostra peraltro in
linea anche con l’evoluzione concettuale sul tema; difatti, se in un primo momento lo
Stato veniva universalmente considerato non solo il rimedio naturale ai fallimenti del
mercato, ma anche il principale investitore al quale affidare i settori di maggior interesse
nazionale, in un secondo periodo, si avvertì l’opposta necessità, secondo cui dovesse
essere proprio il mercato a surrogarsi alle inefficienti gestioni pubbliche (Cap. I, § 3.4.).
Dopo aver descritto il lo scenario macro-economico all’interno del quale l’azienda
pubblica si è trovata e si trova tutt’ora ad operare, si definisce dunque il concetto di
azienda pubblica in sé, dapprima sulla base della distinzione tra soggetto economico e
soggetto giuridico, che di fatto consente l’identificazione del fenomeno (Cap. I, § 4.), e poi
11
attraverso un’apposita classificazione, attraverso cui distinguere le aziende pubbliche di
produzione per l’erogazione e per il mercato (le c.d. imprese pubbliche) dalle altre
tipologie di azienda (Cap. I, § 5.). All’interno delle imprese a controllo pubblico possono
essere poi individuate due distinte categorie (Cap. I, § 5.1., 5.2.), oggetto principale
dell’intera trattazione: le imprese a totale controllo pubblico (State-owned enterprises) e
le imprese a controllo pubblico compartecipate da privati (mixed enterprises).
Infine, poiché la trattazione delle due tipologie verrà affrontata separatamente nel
prosieguo dell’analisi, al fine di coglierne le varie sfumature e le principali differenze in
termini di economicità, verranno in questa sede identificate le principali analogie tra i due
distinti modelli di governo aziendale. Ci si concentra, pertanto, da un lato sulle possibili
interferenze che gli interessi del soggetto pubblico possano palesare relativamente ai
caratteri di aziendalità, ovverosia coordinazione sistemica, autonomia decisionale ed
economicità, e dall’altro sulla particolare situazione all’interno della quale l’intervento
pubblico trova applicazione, ovverosia tra il rispetto del vincolo economico ed il
conseguimento dell’output sociale (Cap. I, § 6., 6.1., 6.2.).
2. Stato e mercato: un equilibrio costantemente ricercato
La ricerca del giusto bilanciamento tra economia e istituzioni è sempre stata al
centro del dibattito non solo all’interno della letteratura economica (il c.d. debate on
State versus private ownership
1
), ma anche e soprattutto a livello politico e macro-
economico. Al fine di offrirne una ricostruzione quanto più esaustiva e veritiera, risulta
innanzitutto opportuno distinguere quei regimi in cui vige la completa libertà di scambio
tra gli individui (capitalismo di mercato) dalla c.d. “economia pianificata”, nella quale si
rileva invece la presenza di un’autorità centrale che, appunto, pianifica e coordina le
decisioni dei vari soggetti coinvolti all’interno del processo relativo allo scambio
1
Per ulteriori approfondimenti riguardo tale dibattito si vedano H. G. RAINEY, R. W. BACKOFF e C. LEVINE
(1976, pp. 233-244); BOYCKO, SHLEIFER e VISHNY (1996, pp. 309-319); A. SHLEIFER (1998, pp. 2-5); M. M.
SHIRLEY e P. WALSH (2001).
12
economico, con il fine ultimo di garantire un maggior livello di uguaglianza e al contempo
evitare il manifestarsi e/o ripetersi di fallimenti di mercato (capitalismo di Stato)
2
.
Tuttavia, si precisa come con la locuzione “capitalismo di mercato” non si intenda
nel modo più assoluto indicare quella situazione di scambio economico caratterizzata
dalla totale assenza dello Stato (anarchia), quanto piuttosto una condizione economica
tale per cui quest’ultimo si limiti a svolgere un ruolo meramente complementare al libero
mercato. Si ricorda, infatti, che il presupposto fondamentale affinché le imprese possano
operare in qualsivoglia mercato è giocoforza l’esistenza del mercato stesso, ovverosia un
luogo di incontro tra domanda e offerta che necessita, per poter funzionare, di essere
regolamentato e tutelato da parte delle istituzioni. Anche in assenza di un’economia
pianificata, dunque, si avverte la necessità di una discreta presenza dello Stato,
quantomeno nel ruolo di garante, per far sì che le regole ed il funzionamento del mercato
stesso vengano rispettate dai vari agenti economici coinvolti. È pertanto evidente come
tale situazione si contrapponga, in maniera piuttosto netta, alla condizione in cui lo Stato
assume un ruolo una posizione di assoluta centralità nell’esecuzione di determinate
attività economiche, peraltro promuovendo ed indirizzando anche le scelte economiche
dei soggetti privati.
Come accennato in precedenza, sul tema si rileva da sempre un acceso dibattito a
livello internazionale, la cui soluzione non è mai stata condivisa tra i vari economisti che si
sono occupati del tema: sin dalla prima metà del Novecento, la visione dei sostenitori del
capitalismo di Stato ha infatti trovato un inevitabile punto di scontro con quella promossa
dai suoi più accaniti oppositori
3
. Dunque, se ancora oggi capitalismo di mercato e
capitalismo di Stato rappresentano i due estremi di un continuum lungo il quale è
possibile andare a ricercare la giusta dose di intervento pubblico e/o di mercato che può
invece esser lasciato libero di agire, è altrettanto vero che il pensiero dominante sul tema
non sembra affatto apprestarsi a trovare un definitivo punto d’incontro rispetto alla
2
La prospettiva secondo cui lo Stato dovrebbe svolgere un ruolo di primaria importanza all’interno
dell’economia, perché conosce gli interessi degli individui meglio di quanto non ne sappiano loro stessi, è
nota con il termine di “paternalismo”. A questa si contrappone, il c.d. “libertarismo”, secondo cui lo Stato
non dovrebbe invece interferire con le scelte economiche individuali. J. E. STIGLITZ (2003).
3
Per un quadro di sintesi, a tal proposito, si rimanda a A. SHLEIFER (1998, pp. 2-7).
13
precisa entità ritenuta ottimale
4
. L’evidenza storica ci mostra, inoltre, un sostanziale e
frequente cambiamento di vedute, che ha peraltro avuto ampie ripercussioni sulle scelte
politico-economiche adottate dai vari Paesi, dando luogo dapprima ad un processo di
statalizzazione, a partire dal secondo dopoguerra, e poi alla contrastante strategia di
privatizzazione, avviata, a seconda dei contesti, tra gli anni Ottanta e Novanta.
Difatti, se nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale il capitalismo di
Stato si presentava alle nazioni industrializzate ancora come il rimedio naturale ai
fallimenti del mercato
5
, è a partire dalla seconda metà del Novecento che, riprendendo il
concetto della “mano invisibile” già ampiamente illustrato da Adam Smith intorno alla
prima metà del Settecento
6
, si è invece andata sempre più diffondendo l’opinione
prevalente secondo cui il liberalismo economico potesse essere di per sé sufficiente a
garantire lo sviluppo economico ed il benessere per la collettività. In tale logica, è stato
fortemente ridotto il livello complessivo d’intervento statale, limitando lo stesso ad una
4
Nel dibattito tra gli economisti su quale debba essere il ruolo più idoneo dello Stato nell’economia, si è
sempre tenuto conto sia dei fallimenti del mercato sia di quelli del governo, entrambi piuttosto manifesti
nelle economie avanzate, al fine di raggiungere un optimum sociale. In via generale, vi è consenso sul fatto
che esistano molteplici aspetti che il mercato non affronta in modo adeguato, che possono addirittura
sfociare in un fallimento dello stesso; anzi, è stato dimostrato come i mercati possano essere realmente
efficienti solo sotto una serie di ipotesi e congetture piuttosto restrittive, non sempre esplicate nella realtà.
Tuttavia, è possibile identificare una serie di limiti di vario genere (organizzativi, economici, finanziari, ecc.)
anche nell’operato dello Stato, che quindi dovrebbe limitare i suoi solo per attenuare i problemi più gravi di
un Paese.
5
Interessante notare come in realtà, anche in tale contesto, si manifestarono i primi attacchi teorici al
capitalismo di Stato, prevalentemente dovuti a Hayek e Friedman, che però trovarono un effettivo successo
solamente intono agli anni Sessanta e Settanta, periodo nel quale Alchain tradusse in letteratura empirica
quanto previsto solo a livello teorico dai due precedenti autori e dimostrando di fatto la minore efficienza
delle imprese pubbliche al cospetto delle più performanti organizzazioni private. Sul punto si vedano A.
ALCHIAN (1965, p. 816-829); M. M. SHIRLEY e P. WALSH (2001, p. 3).
6
La locuzione “mano invisibile” fu introdotta dall’economista A. Smith in due delle sue opere più importanti
(Teoria dei sentimenti morali, 1759 e La ricchezza delle nazioni, 1776). Con essa l’autore intendeva far
riferimento alla situazione attraverso la quale i singoli operatori economici (in particolare, i possessori di
capitale), nel tentativo di perseguire le proprie preferenze egoistiche, siano in realtà in grado di generare
benefici per l’intera collettività, anche se non espressamente nella loro intenzione. Secondo Smith, dunque,
gli individui spinti proprio da una ”mano invisibile” mettono in atto delle azioni tali da assicurare benefici
collettivi, pur perseguendo meramente vantaggi individuali. In proposito, è interessante riportare un
passaggio tratto proprio da La ricchezza delle nazioni: «[...] egli mira solo al suo proprio guadagno ed è
condotto da una mano invisibile, in questo come in molti altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle
sue intenzioni. Né il fatto che tale fine non rientri nelle sue intenzioni è sempre un danno per la società.
Perseguendo il proprio interesse, egli spesso persegue quello della società in modo molto più efficacie di
quanto intenda effettivamente perseguirlo»; A. SMITH (1973).
14
mera fruizione dei servizi considerati “essenziali” quali istruzione, cure sanitarie,
informazione indipendente, e così via
7
.
Tale ripensamento del ruolo economico dello Stato si è, dunque, concretizzato nei
processi di privatizzazione, deregolamentazione e globalizzazione, che ne hanno costituito
il naturale e succedaneo passaggio, diffondendosi peraltro in modo esponenziale in tutte
le economie, avanzate e non, e raggiungendo il loro apice proprio negli ultimi vent’anni.
Forme di comunismo, in cui il ruolo dello Stato nell’economia è assoluto e centrale,
appaiono oggi del tutto anacronistiche e praticamente inutilizzate
8
. La storia politico-
normativa dell’ultimo ventennio ha, infatti, registrato il susseguirsi di una lunga serie di
riforme governative, che hanno inevitabilmente condotto numerose economie,
originariamente a stampo socialista, ad una radicale transizione verso un capitalismo di
mercato ed una sostanziale privatizzazione all’interno di quei settori in cui lo Stato
deteneva in passato un vero e proprio monopolio (c.d. monopolio naturale)
9
. È lecito
riportare, infatti, come ad una politica neo-liberista, introdotta a partire dagli anni
Ottanta da R. Reagan e M. Thatcher rispettivamente negli U.S.A. e in Gran Bretagna, si
siano susseguite poi una serie di pratiche governative analoghe in quasi tutti i paesi
avanzati, che hanno di fatto decretato l’inizio del processo di privatizzazione in vari settori
quali energia, acciaio, trasporti, telecomunicazioni e servizi finanziari, tutti settori
precedentemente controllati dallo Stato
10
.
7
A tal proposito, si fa riferimento ai c.d. beni meritori (merit goods), ossia quei beni o servizi cui la
collettività attribuisce un particolare valore funzionale allo sviluppo morale e sociale della collettività stessa.
Spesso l'operatore pubblico soddisfa questi bisogni prescindendo da una domanda specifica dei cittadini,
ma in conseguenza della valutazione dei vantaggi che l'intera società può trarne (istruzione elementare o
caschi per i motorini). Altre volte l'azione pubblica, nell'ambito di questa particolare categoria di beni o
servizi, si esplica attraverso il divieto di tenere un determinato comportamento, come ad esempio fumare
in luoghi pubblici.
8
La fine del regime comunista nell’Unione Sovietica ha segnato una contestuale riduzione dell’ammontare
complessivo delle attività economiche intraprese direttamente dallo Stato. Attualmente, solamente in
Corea del Sud e a Cuba lo Stato continua a rivestire un ruolo così preminente.
9
Cfr, M. M. SHIRLEY e P. WALSH (2001, p. 4).
10
Altri autori preferiscono invece attribuire la nascita dei moderni processi di privatizzazione al governo
Adenauer (Repubblica Federale di Germania), che infatti avrebbe per primo lanciato su larga scala un
programma politico in tale direzione. Difatti, il fenomeno di “denazionalizzaione”, che iniziò già a partire dal
1961 in Germania, portò ben presto lo Stato a cedere la maggioranza delle azioni della Volkswagen,
offrendole perlopiù a piccoli investitori. Nonostante ciò, anche in questa prospettiva l’intervento politico di
privatizzazione introdotto dalla Thatcher continua a rappresentare il più rilevante dal punto di vista della
portata generale. W. L. MEGGINSON e J. M. NETTER (2001, pp. 323-324)