pluralità di procedimenti individuali nell’ipotesi in cui da un unico fatto
dannoso derivi la lesione di più diritti facenti capo a più soggetti. Tali diritti
vengono fatti valere in un unico giudizio, su istanza di uno o di alcuni soltanto
dei soggetti danneggiati e soprattutto senza il concorso della volontà di tutti i
componenti della classe. In pratica, attraverso la class action, un individuo,
oltre ad agire per conto proprio, può intraprendere un’azione legale anche
nell’interesse di tutti coloro che si trovano nella sua stessa situazione e che
vantano questioni di diritto comuni nei confronti del medesimo convenuto.
La class action rappresenta, quindi, un’eccezione al generale principio per cui
può agire in giudizio solo chi difenda un diritto proprio o chi sia stato
espressamente delegato a farlo dal soggetto titolare del diritto. Quando un
elevato numero di soggetti risulta danneggiato da un medesimo illecito, il
ricorso individuale alla giustizia comporta l’instaurarsi di altrettanto numerosi
processi. La class action, invece, permette di riunire le azioni di tutti i
danneggiati in un’unica causa la cui sentenza vincola tanto coloro che hanno
effettivamente preso parte al processo, quanto tutti gli altri appartenenti alla
medesima classe che non vi hanno partecipato. Tale meccanismo consente un
evidente risparmio di tempo, di risorse e di spese processuali ed evita inoltre il
congestionamento dei tribunali ed il pericolo di sentenze tra di loro
contraddittorie. Oltre a questi vantaggi, bisogna aggiungere che l’istituto
esercita anche un’importante funzione di deterrenza e dissuasione dal
compimento degli illeciti.
2
La consolidata applicazione della class action negli Stati Uniti come
strumento per la tutela di interessi di larga diffusione ha da sempre suscitato
l’interesse degli studiosi di diritto comparato. In Italia, però, soltanto a partire
dalla fine degli anni ’70 si è assistito all’intensificarsi della produzione
dottrinaria sull’argomento. Da un lato non pochi autori hanno auspicato
“l’importazione” della class action nell’ordinamento interno, dall’altro la
dottrina dominante ha finora ritenuto improponibile l’introduzione di tale
istituto nei sistemi di civil law a causa della mancanza dei necessari
presupposti di diritto sostanziale e di favorevoli condizioni istituzionali,
sociali, economiche e culturali.
Recentemente la discussione è uscita dal ristretto ambito accademico per
approdare sui banchi del Parlamento. Gli scandali finanziari degli ultimi anni
(Parmalat, Cirio, “Tango bond” ecc.) hanno riportato l’attenzione del mondo
politico sulla necessità di introdurre nel nostro ordinamento più efficaci mezzi
di difesa degli interessi dei piccoli azionisti e, più in generale, dei
consumatori. Già durante la scorsa legislatura, un disegno di legge (n. 3058)
che introduceva un’azione collettiva risarcitoria attivabile dalle associazioni
rappresentative dei consumatori ed utenti, approvato dalla Camera dei
deputati il 21 luglio 2004, si era fermato al Senato, senza essere più esaminato
e dibattuto. Allo stato attuale sono diverse le proposte di legge al vaglio del
Parlamento che puntano ad istituire, nel nostro ordinamento, strumenti ispirati
alle class actions. Tali progetti di legge, tra i quali vi è anche un disegno di
3
legge presentato dal Governo che porta la firma del ministro dello sviluppo
economico Pierluigi Bersani, sono però ancora in attesa dell’esame da parte
delle commissioni di merito. Queste proposte costituiscono un’indubbia
novità nel panorama normativo italiano nel campo dei rimedi a protezione dei
risparmiatori e dei consumatori.
A questo punto è necessario, però, sgombrare il campo da possibili equivoci.
Il progetto del Governo, così come la maggior parte degli altri progetti
proposti, si fonda su una logica differente da quella tipica delle class actions
americane. Diverso è il meccanismo processuale, il ruolo giocato dai soggetti
che vi partecipano ed il contesto normativo. Per questi motivi sarebbe
opportuno evitare di qualificare le azioni che questi testi di riforma
propongono con il nome “azioni di classe”. Nel nostro Paese siamo molto
distanti dall’esperienza nordamericana che questo nome richiama. Lo stesso
legislatore preferisce utilizzare espressioni più appropriate come “azioni
collettive” o “azioni di gruppo”. Mantenendo ferma questa considerazione,
l’analisi dell’esperienza degli Stati Uniti rimane il punto di partenza di ogni
studio sulla materia. Quindi anche il presente lavoro prenderà le mosse
dall’indagine sulle origini della class action per poi procedere ad una breve
disamina del modello nordamericano. Farà seguito un esame comparatistico
degli istituti analoghi alla class action adottati in altri ordinamenti di common
law e civil law. Le azioni collettive stanno guadagnando terreno in tutta
Europa: Regno Unito, Francia, Germania, Austria, Paesi Bassi, Portogallo,
4
Spagna e Svezia forniscono importanti esperienze di confronto con la realtà
italiana. Uguale attenzione meritano, fuori dall’Europa, l’ordinamento
brasiliano e quello canadese. La parte conclusiva sarà, infine, dedicata
all’approfondimento delle proposte di legge attualmente sottoposte all’esame
delle commissioni parlamentari.
5
Capitolo I
Le origini storiche della “class action”
1. Premesse.
Le origini delle class actions devono essere storicamente ricercate
nell’Inghilterra dei primi secoli successivi alla nascita della common law.
L’istituto della representative suit
1
, nelle sue varie tipologie, è unanimemente
considerato l’antenato dell’odierna class action. La dottrina tradizionale
attribuisce alle corti di equity l’invenzione dal nulla dell’istituto in discorso,
tuttavia recenti studi hanno dimostrato che forme embrionali di azioni
rappresentative erano già presenti nel periodo precedente alla nascita
dell’equity
2
. In particolare il professor Stephen C. Yeazell ha messo in
evidenza che le prime azioni rappresentative di cui si ha testimonianza furono
promosse davanti alle corti feudali locali inglesi (manorial courts
3
) a partire
dal XII secolo e che nell’ambito della giurisdizione di equity
4
è avvenuta
l’evoluzione e la consolidazione storica, ma non la nascita, di queste azioni.
1
L’uso del termine class action compare negli Stati Uniti soltanto nel XX secolo (vedi amplius infra nota
33).
2
Su questo punto vedi S.C. Yeazell, From medieval group litigation, New Haven, 1987, pp. 38 e ss., cfr. A.
Giussani, Un libro sulla storia della “class action”, in Riv. cri. dir. priv., 1989, pp. 171 e ss.
3
Si tratta di tribunali nobiliari che giudicavano applicando un diritto consuetudinario eminentemente locale.
Vedi R. David - C. Jauffret-Spinosi, I grandi sistemi giuridici contemporanei, Padova, 1994, p. 274.
4
Vedi Vincenzo Vigoriti, Interessi collettivi e processo, Milano, 1979, p. 261.
6
La dottrina è tuttavia concorde nell’affermare che “le class actions
appartengono più al sistema di equity che a quello di common law”
5
.
Prima di approfondire il discorso sulle origini delle class actions è opportuno
soffermarsi un attimo sulle caratteristiche essenziali dell’ equity e tratteggiare
velocemente la sua evoluzione storica.
2. L’Equity.
La distinzione tra equity e common law trae origine dalla crisi che colpì le
corti regie inglesi alla fine del XIII secolo
6
. Uno dei fattori che determinò
questa crisi fu la limitazione del potere della Cancelleria di emettere nuovi
writs decisa dalle Provisions of Oxford
7
. Il writ, noto anche come brevis, era
lo schema processuale tipico di tutela di diritti sostanziali che permetteva il
ricorso alla giustizia da parte dei sudditi. Esso, anche se materialmente veniva
elaborato dal Cancelliere, consisteva in un ordine di comparizione del Re
dinanzi al giudice. Una volta ricevuto questo documento dal Cancelliere, era
sufficiente seguire la procedura per esso prescritta (form of action) per
ottenere una decisione da parte delle corti regie. La cristallizzazione del
sistema dei writs rallentò l'evoluzione del sistema di common law e comportò
inizialmente la mancata tutela di nuove situazioni giuridiche. In tal modo, la
5
A. Giussani, Studi sulle “class action”, Padova, 1996, cit., p. 4.
6
Sulla distinzione tra common law ed equity vedi R. David, I grandi sistemi giuridici contemporanei,
Padova, 1994, pp. 297 e ss.
7
Cfr. U. Mattei, Il modello di common law, Torino, 1996, p. 8 e ss..
7
common law, chiusa nei rigidi schemi processuali imposti dalle forms of
action, si dimostrò inadeguata di fronte ai nuovi bisogni della vita sociale
inglese.
A partire dal XIV secolo, la crisi delle corti di common law, acuita dalla
crescente corruzione dei giudici, spinse molti ricorrenti insoddisfatti a
rivolgersi direttamente al Re affinché rimediasse al cattivo funzionamento
delle sue corti e giudicasse con aequitas, facendo appello alla sua coscienza
8
.
Il sovrano ben presto cominciò a delegare regolarmente la funzione di
decidere su queste petizioni al Cancelliere, in quanto “keeper of the king’s
conscience”
9
. Negli anni successivi, la Cancelleria accrebbe il suo potere e la
sua autonomia rispetto al sovrano e l’insieme delle sue decisioni formò
progressivamente un corpo di regole e di principi al quale venne attribuito il
nome di equity
10
.
In conclusione l’equity può essere definita come un sistema di dottrine e di
procedure giudiziarie, sviluppatesi grazie all’attività della Court of Chancery,
diretto a rimediare alle carenze della common law
11
.
8
Cfr. V. Varano-V. Barsotti, La tradizione giuridica occidentale vol. 1 Per un confronto civil law common
law, Torino, 2006, p. 268.
9
Il Cancelliere è inizialmente il confessore del Re, un ecclesiastico istruito in diritto romano e canonico. Le
sue decisioni si fondano “sull’equità del caso particolare” e costituiscono un rimedio eccezionale diretto ad
ovviare alle insufficienze della common law ed a ripristinare la legge morale nei casi in cui le corti reali non
decidano secondo giustizia.
10
Le principali caratteristiche che differenziano l’equity dalla common law sono: 1) una procedura ispirata
alla procedura del diritto canonico; 2) la diversità dei rimedi che possono essere richiesti; 3) la discrezionalità
delle corti nel concedere tali rimedi; 4) l’assenza della giuria.
11
V.D. Poirier, Introduction générale à la common law, Cowansville, 2000, p. 9.
8