4
INTRODUZIONE
Nel 1839 un certo signor William Grove, arrangiandosi con degli elettrodi di
platino, una soluzione di acido solforico molto diluito come elettrolita, e
utilizzando idrogeno e ossigeno come reagenti, registrò un passaggio di
corrente continua nel circuito esterno. Era la prima cella a combustibile (che,
per brevità, d’ora in avanti verrà indicata con c.c.). Si può dire che Grove
riconobbe subito sia le potenzialità sia i problemi di un tale dispositivo e,
quindi, furono già da allora evidenziati validi motivi sia per lo sviluppo sia
per l’abbandono di questa tecnologia. In effetti, uno dei problemi maggiori è
quello di ottenere un contatto a tre fasi tra l’elettrolita (liquido), il
combustibile o l’ossidante (gassosi) e l’elettrodo (solido), che permetta il
verificarsi della reazione elettrochimica. Questa è anche la ragione per cui
sono stati sviluppati dei progetti di cella che utilizzano un elettrolita solido,
facilitando quindi la gestione del sistema che implica un contatto con sole
due fasi (due i sistemi realizzati : celle ad ossido solido funzionanti ad alta
temperatura e celle a polimero solido, a bassa temperatura). Per quanto
riguarda i vantaggi delle c.c., Grove osservò che se l’idrogeno veniva
sostituito da altri combustibili più facilmente disponibili in natura, le c.c.
potevano diventare un efficientissimo sistema per la produzione di energia
elettrica. I contributi che vennero dati alle c.c. nel secolo scorso furono
veramente sporadici : una citazione merita un certo Vergnes che, nel 1860,
utilizzò come elettrodo il coke rivestito di platino poroso guadagnandosi il
primo brevetto sulle c.c. della storia. Solo nel 1902, 63 anni dopo
l’invenzione delle celle acide, apparve la prima c.c. alcalina che usava come
elettrolita una soluzione acquosa di idrossido di potassio. Nello stesso
periodo possiamo trovare la prima cella del tipo a membrana (a polimero
solido), quella del tipo ad ossido solido e, infine, anche il primo prototipo di
celle a carbonati fusi (celle che utilizzano come elettrolita dei carbonati ad
alta temperatura che, pertanto, risultano allo stato liquido). Tuttavia, i
problemi tecnici soprattutto riguardanti i materiali più adatti da utilizzare,
non consentirono di raggiungere risultati di rilievo ; per quel tempo (ma,
forse, questo vale in parte anche oggi), le c.c. venivano considerate tanto
promettenti quanto problematiche. Dopo un periodo di relativa stagnazione,
una grande spinta allo sviluppo delle c.c. si ebbe negli anni ’60 quando si
registrò la prima applicazione pratica delle c.c. nelle missioni spaziali
(Apollo). E’ tuttavia doveroso notare che in questo caso non c’erano né
problemi di costo, né problemi di durata elevata che, per applicazioni diverse
da quella spaziale, risultavano allora ancora insuperabili. L’effetto fu
comunque quello di pubblicizzare questa “nuova” tecnologia e stimolare
nuovi progetti di ricerca. Un ulteriore stimolo si è avuto nel corso degli anni
’70 quando, a causa dell’aumento del costo dell’energia, veniva dedicata
maggiore attenzione verso tutti i sistemi che potevano produrre energia con
elevati rendimenti. Infine, negli ultimi anni e soprattutto nei paesi più
industrializzati, una sempre crescente enfasi viene posta sulla questione
ambientale. Questo determinerà un aumento delle potenzialità delle c.c. visto
5
che le emissioni prodotte da un tale sistema sono veramente irrisorie. Il
problema che verrà qui affrontato è proprio quello di stabilire se queste
potenzialità sono sufficienti o no per una commercializzazione delle c.c. ; se
queste ultime sono o non sono superiori tecnicamente alle tecnologie
concorrenti ; o, ancora, se è possibile prevedere una data indicativa di
ingresso nel mercato e, in questo caso, quali saranno le applicazioni che ci si
aspetta vengano servite da un sistema a c.c..
Gli stimoli maggiori che hanno portato a questa ricerca derivano proprio
dalle prospettive di sviluppo veramente affascinanti : da un lato la
costruzione di grandi centrali per la produzione di energia con rendimenti di
almeno il 50% e, forse, addirittura il 60%, dall’altro la possibilità di
sostituire il motore a combustione interna nel settore dell’autotrazione con un
sistema nettamente più efficiente e, soprattutto, ad inquinamento nullo. In
mezzo a questi due estremi esistono moltissime altre possibilità di
applicazioni intermedie sia per sistemi che utilizzano esclusivamente energia
elettrica, sia sistemi che necessitano della cogenerazione. Una gamma così
ampia si spiega solo con l’utilizzo di sistemi differenti : infatti, i già citati
diversi tipi di cella probabilmente non avranno, eccetto alcuni casi, le stesse
applicazioni, ma si rivolgeranno a settori diversi di mercato evitando quindi
di farsi concorrenza tra loro e dovendo essere confrontati solo con le
tecnologie alternative. Malgrado queste eccellenti prospettive, bisogna notare
che le c.c. non sono state ancora sufficientemente studiate ; esiste solo una
scarna letteratura di riferimento e solo negli ultimissimi anni sono nate
riviste specializzate che tengono costantemente aggiornate le persone
interessate sui più recenti risultati ottenuti nei diversi laboratori del mondo
(“European Fuel Cell News”). I testi riportati in bibliografia sono gli unici e
soli che sono risultati disponibili. Lo stato dell’arte è stato ovviamente tratto
solo da quelli più recenti (“Fuel Cell Systems” e “Fuel Cells 2”).
Per capire, dunque, le reali potenzialità delle c.c. si è dapprima studiato a
fondo il principio di funzionamento (capitolo 1) con un’analisi comparata sui
rendimenti di cella e di sistema. Infatti, affinché una c.c. o, meglio, un
insieme di celle che costituiscono una pila funzioni correttamente, è
necessario l’utilizzo di diversi sistemi ausiliari che variano a seconda del tipo
di cella utilizzato. Per questo motivo ciò che va tenuto in considerazione per
una corretta analisi non è tanto il rendimento della pila (detta anche modulo
di potenza) che può essere effettivamente elevatissimo, ma il rendimento
dell’intero sistema che subisce un sostanziale ridimensionamento. Il
passaggio chiave è la conversione dei combustibili correntemente disponibili
in natura in idrogeno puro o in gas ricco in idrogeno. I livelli di impurità
presenti in questo gas riformato devono essere attentamente controllati
poiché esistono elementi come lo zolfo o il monossido di carbonio che
possono avvelenare o danneggiare gli elettrodi della cella ed impedire,
quindi, il verificarsi della reazione elettrochimica. Ed è proprio lo studio
dell’elettrocatalisi uno dei settori di ricerca più delicati e più difficili poiché
le maggiori perdite per irreversibilità dell’intero processo sono concentrate
nei pressi degli elettrodi dove avvengono le reazioni. Un confronto con gli
altri sistemi per la produzione di energia evidenzia un altro aspetto
particolarmente affascinante : le c.c. non sono limitate nelle loro prestazioni
dal rendimento di Carnot. Data la natura elettrochimica del processo, si può
pensare di costruire un sistema che funzioni tranquillamente a temperatura
6
ambiente, cosa chiaramente impossibile per una turbina a gas o un motore a
combustione interna. Questo è dovuto al fatto che le c.c. non utilizzano
l’energia termica come vettore intermedio per la trasformazione dell’energia
chimica del combustibile in energia elettrica, ma operano, come è stato già
detto, una trasformazione diretta.
Poiché i diversi tipi di cella hanno delle caratteristiche del tutto particolari,
sono state studiate ad una ad una nel capitolo 2, descrivendo lo stato dell’arte
attuale e i diversi problemi che ancora affliggono le c.c.. Un cenno è stato
anche fatto alle migliori prestazioni ottenute e alle eventuali applicazioni già
esistenti. Dato che l’obiettivo di fondo di questo elaborato è, come è stato
detto, quello di capire le eventuali possibilità di commercializzazione di
questo sistema, l’analisi non si è limitata ad aspetti tecnici, ma si è cercato di
fornire anche un quadro economico della situazione. Bisogna ammettere che
lo stato di sviluppo ancora molto arretrato di questa tecnologia, soprattutto
per certi tipi di celle, ha generato delle notevoli difficoltà nel reperimento di
dati che avessero una certa affidabilità. Inoltre, poiché si sono riscontrate
delle notevoli e non certo trascurabili differenze tra i dati disponibili in
letteratura e quelli invece riscontrati nei casi reali, si è preferito condurre
un’analisi, presentata nel capitolo 3, il più possibile vicina alla realtà
studiando alcuni casi e sviluppando un confronto con le tecnologie
alternative.
Infine, nel quarto e conclusivo capitolo, si è voluto fornire un quadro della
situazione reale in Italia. Bisogna dire che le aziende che trattano c.c. nel
nostro paese sono veramente poche e, generalmente, sviluppano progetti di
ricerca gestiti a livello europeo. Tuttavia, all’interno di questi progetti,
esistono già delle applicazioni reali, e ritengo sia importante aver fornito una
descrizione per quanto possibile dettagliata sulle prestazioni effettive
ottenute da impianti a c.c.. Questo ha permesso di trarre delle conclusioni
finali che non siano solo basate su considerazioni puramente teoriche, ma che
tengano anche conto dei vari ed imprevedibili problemi riscontrabili in un
funzionamento reale.
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CAPITOLO I
PRINCIPIO DI FUNZIONAMENTO
1.1. Descrizione generale.
La cella a combustibile (c.c.) è un dispositivo che converte l’energia
chimica direttamente in energia elettrica. Il combustibile e l’ossidante non
reagiscono in un processo di combustione rapida, ma reagiscono secondo
precise regole su elettrodi separati : un elettrodo positivo (catodo) ed uno
negativo (anodo). I materiali utilizzati per gli elettrodi generalmente non
partecipano alle reazioni chimiche, ma la loro scelta è, comunque, critica
viste le diverse funzioni che devono adempiere all’interno della cella
(devono essere conduttori elettrici e catalizzatori, solo per citare le più
evidenti). Una c.c. può essere dunque considerata come un tipo particolare di
batteria elettrica in cui si ha un rifornimento continuo sia di combustibile sia
di ossidante.
Prendiamo la c.c. più semplice, cioè quella a idrogeno/ossigeno
rappresentata in figura 1.1.
All’anodo avviene la reazione H
2
ο 2H
+
+ 2e
-
Al catodo 2e
-
+ ½O
2
+ 2H
+
ο H
2
O
Quindi la reazione chimica complessiva della cella è : H
2
+ ½O
2
ο H
2
O.
Figura 1.1. Cella a combustibile ad idrogeno ed ossigeno.
Anodo Elettrolita Catodo
2e
-
H
2
H
2
2e
-
2H
+
2e
-
O
2
½O
2
H
2
O
8
Si osserva una differenza di potenziale tra i due elettrodi e un flusso di
elettroni attraverso un circuito esterno dall’anodo, in cui avviene la reazione
di ossidazione, verso il catodo (reazione di riduzione) e quindi un flusso di
corrente continua in direzione opposta. Questo, in termini termodinamici, è
chiamato lavoro ed è proprio l’output utile della c.c.. Un ulteriore apporto di
energia può essere dato dal calore trasferito dalla cella all’ambiente esterno.
Ricordiamo che una specie chimica si ossida quando un elemento che la
costituisce aumenta il suo numero di ossidazione (che nella maggior parte dei
casi corrisponde ad una perdita di elettroni) ; si riduce quando un suo
elemento diminuisce il suo numero di ossidazione (acquisto di elettroni).
1.2. Origine della tensione e della corrente.
Immergendo un elettrodo di materiale conducente in una soluzione di
elettrolita acido contenente per esempio ioni idrogeno, si può osservare una
differenza di potenziale tra l’elettrodo e l’elettrolita. Questa è determinata
dall’equilibrio tra le reazioni ½H
2
λ > + ≅e > + ≅ λ H
+
+ e
-
dove con > + ≅si è
indicato l’idrogeno adsorbito, cioè uno ione idrogeno che, venendo a contatto
con l’elettrodo, formerà un legame chimico con un elettrone che sta sulla
superficie dell’elettrodo stesso.
Se consideriamo una c.c. avremo dell’idrogeno che si diffonde nella struttura
porosa dell’elettrodo (1
a
reazione : viene cioè adsorbito). Successivamente, a
contatto con l’elettrolita, e in dipendenza da vari fattori quali temperatura,
pressione e concentrazioni, passerà allo stato di ione in soluzione lasciando
dunque un elettrone all’interno dell’elettrodo. Quest’ultimo, essendo un
conduttore, manterrà gli elettroni nello strato più esterno, e cioè in prossimità
dell’elettrolita. Viceversa, a causa delle cariche opposte, si formerà
nell’elettrolita nei pressi dell’elettrodo un accumulo di ioni positivi che
determinerà una struttura a doppio strato e un conseguente gradiente di
potenziale tra elettrodo ed elettrolita (vedi figura 1.2).
Figura 1.2. Rappresentazione del doppio strato e gradienti di potenziale tra gli strati di cariche e
tra gli elettrodi.
Elettrolita
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
+
V
_
_
_
_
_
_
_
_
Elettrodo
Superficie
dell’elettrodo
Strato più
vicino
+
+
+
+
+
+
+
+
E
c
E
a
E
t
Anodo
Elettrolita
e
-
Catodo
_ +
_ +
_ +
_ +
_ +
_ +
_ +
_ +
9
Questo gradiente, tuttavia, guiderà ioni positivi dal potenziale più alto a
quello più basso, cioè dall’elettrolita verso l’elettrodo, cosicché come la
reazione continua a sviluppare il doppio strato, così essa viene sempre più
contrastata dal gradiente di tensione che si sviluppa. La differenza di
tensione che si osserva attraverso il doppio strato una volta che si è raggiunto
un equilibrio è nota come potenziale ideale reversibile del sistema ad
elettrodo. Dovrebbe essere notato che è una differenza di potenziale e non un
vero e proprio potenziale.
Considerazioni analoghe valgono al catodo dove per esempio facciamo
reagire l’ossigeno. Ora, se colleghiamo i due elettrodi, l’eccesso di cariche
negative (elettroni) all’anodo tenderà a spostarsi attraverso il collegamento
esterno verso il catodo dove invece gli elettroni sono necessari per la
reazione di formazione dell’acqua. Questo spostamento di carica è dovuto
proprio alla d.d.p. che si instaura tra un elettrodo positivo (catodo) ed uno
negativo (anodo).
10
1.3. Lavoro elettrico utile della cella.
La totale energia rilasciata in ogni reazione chimica è uguale alla
variazione dell’entalpia di formazione ∋H, che a sua volta è uguale alla
somma dell’entalpia di formazione dei prodotti meno la somma dell’entalpia
di formazione dei reagenti :
∋H = ƒ (H
f
)
prodotti
ƒ(H
f
)
reagenti
H
f
= entalpia di formazione
Normalmente, tutti gli elementi esistenti in natura hanno l’entalpia di
formazione pari a zero, mentre in un composto chimico essa rappresenta la
variazione di entalpia nella sua formazione partendo dagli elementi che lo
determinano nelle stesse condizioni fisiche (pressione e temperatura). Per
esempio, consideriamo la seguente reazione di combustione :
C +O
2
ο CO
2
La variazione dell’entalpia di formazione, ∋H, per questa reazione
(condizioni standard) è :
∋H = H
f
CO2
- H
f
C
- H
f
O2
= (-394 ξ10
) - (0) - (0) = -394 ξ10
J/kgmole di CO
2
= -394 ξ10
J/kgmole di C
Dividendo per gli appropriati pesi molecolari/atomici :
∋H = - 8953 kJ/kg CO
2
= - 32810 kJ/kg C
Lo stato standard, è bene ricordarlo, è per ogni sostanza la forma fisica più
stabile alla pressione di una atmosfera e alla temperatura di misura, di solito
25° C
1
. Il segno negativo indica che questa è energia perduta dalla reazione,
quindi a disposizione per un eventuale lavoro. Questo si verifica ogni volta in
cui ci troviamo di fronte ad una reazione esotermica ; viceversa una reazione
endotermica avrebbe avuto un ∋H positivo.
Teoricamente, tutta l’energia dell’entalpia di formazione potrebbe essere
convertita in energia elettrica se nessuna parte di essa fosse convertita in un’
altra forma di energia. Sfortunatamente, in una reazione di ossidazione, una
parte di energia chimica viene convertita in energia termica e solo la parte
rimanente di energia può essere teoricamente convertita in elettricità. Il
minimo ammontare di energia termica generata è pari ad un trasferimento di
calore eseguito in maniera reversibile e cioè ≥TdS. Poiché la c.c. è un
dispositivo almeno idealmente isotermico si può scrivere
1
In termini più precisi, lo stato standard si riferisce a situazioni in cui le sostanze solide,
liquide o gassose, hanno attività unitaria : per i solidi ed i liquidi ciò si verifica quando
sono allo stato puro mentre per i gas, ciò si verifica quando hanno la fugacità di una
atmosfera. La fugacità di un gas si ottiene dalla relazione f = ϑ υp dove ϑ è il coefficiente di
attività e p la pressione ; a pressioni ordinarie ϑ si discosta di poco dal valore unitario, per
cui fugacità e pressione si identificano. Lo stato standard di una soluzione è riferito ad una
soluzione di attività unitaria. L’attività è la concentrazione effettiva di una specie chimica
ed è questa grandezza che andrebbe sempre usata nei calcoli chimici. L’attività di una
specie in soluzione si può calcolare usando l’espressione a= ϑ υm dove a è l’attività, ϑ è il
coefficiente di attività ed m è la molalità. E’ da notare che l’attività si discosta tanto più
dalla molalità quanto più elevata è quest’ultima e quanto più elevata è la carica degli ioni
(se si tratta ovviamente di una specie ionica). Per soluzioni acquose moderatamente
concentrate di non elettroliti (specie che non si dissociano in ioni) oppure di elettroliti 1/1
(NaCl), l’attività si discosta di poco dalla concentrazione e quindi l’approssimazione
ottenuta usando la concentrazione è di norma accettabile.
11
≥TdS = T ≥dS = T ∋S = T(S
f
- S
i
)
con T = temperatura di funzionamento della cella
S
f
= entropia dello stato finale
S
i
= entropia dello stato iniziale
Da cui risulta :
L
el
δ ∋H - T ∋S (1.1)
con L
el
= lavoro elettrico.
È evidente che il lavoro effettivamente prodotto sarà minore della quantità
∋H - T ∋S a causa delle inevitabili irreversibilità della cella stessa.
L’energia libera di Gibbs G è una funzione termodinamica che è definita
proprio come l’entalpia meno il prodotto della temperatura per l’entropia :
G = H - TS e differenziando quest’espressione si ottiene :
dG = dH - SdT - TdS che, per un processo isotermico (dT = 0), si riduce a :
dG = dH - TdS (1.2)
o anche ∋G = ∋H - T ∋S. Per cui la (1.1) si può anche scrivere
L
el
δ ∋G dove la variazione dell’energia libera di Gibbs si può ottenere dalla
relazione :
∋G = ƒ (G
f
)
prodotti
- ƒ (G
f
)
reagenti
L’energia libera di Gibbs è una funzione della pressione e della temperatura a
cui avviene la reazione. Se scriviamo il primo principio della termodinamica
riferito alla variazione dei parametri interni otteniamo :
TdS = dH - Vdp o anche Vdp = dH - TdS che sostituita nella (1.2) risulta in
dG = Vdp. Per ogni mole di componente gassoso vale V = RT/p con R =
costante universale dei gas = 8314.2 J/kmole υK e quindi per un processo
isotermico si ha :
≥ dG = ≥ (RT/p) dp = RT ≥ (1/p) dp = RT ln (p/p°)
G - G° = RT ln (p/p°) (1.3)
dove G° è l’energia libera di Gibbs alla temperatura considerata (di
funzionamento). Se p è la pressione del componente espressa in atmosfere (p°
= 1 atm.), l’equazione (1.3) si può scrivere :
G = G°(T) + RT ln p (1.4)
dove con G°(T) si è voluto evidenziare la dipendenza di G° dalla
temperatura.
12
1.4. Rendimento ideale e reale di una cella.
Definito dunque il ∋G, possiamo definire un rendimento termico
ideale Κ che sarà pari al lavoro elettrico (ideale) prodotto diviso l’energia
teoricamente fornita :
Κ
id
= ∋G/ ∋H = ( ∋H-T ∋S)/ ∋H = 1-T ∋S/ ∋H (1.5)
Con questa arbitraria definizione di rendimento si possono osservare delle
situazioni apparentemente sorprendenti : i valori di ∋G e ∋H possono
risultare molto vicini (il che garantisce rendimenti molto elevati), ma talvolta
si osservano valori di ∋G maggiori, in valore assoluto, di ∋H (e questo
fornirebbe valori di rendimento superiori al 100 che non ha evidentemente
alcun significato fisico). Il fatto è che con G
2
-G
1
= H
2
-H
1
-T(S
2
-S
1
) e con
° ∋G ° ° ∋H ° si presuppone che del calore (T ∋S) venga trasferito dal sistema
all’ambiente esterno (e che venga completamente perduto) ; viceversa avere
° ∋G ° ! ° ∋H ° implica necessariamente ∋S !0 e quindi Q = T ∋S !0 e cioè un
trasferimento di calore dall’esterno al sistema per mantenere isotermica la
reazione. E’ bene ricordare che stiamo parlando di reazioni esotermiche
( ∋H 0) e quindi con ∋G = ∋H T ∋S avere ∋S !0 significa che ∋G ∋H ma
anche che ° ∋G ° ! ° ∋H ° poiché entrambe le quantità hanno segno negativo. Il
primo principio della termodinamica non viene dunque violato anzi, secondo
me, in questo caso la (1.5) perde di significato poiché se consideriamo il
rendimento come lavoro prodotto diviso l’energia fornita, allora l’energia
fornita è pari alla variazione di entalpia + il calore fornito dall’esterno (che è
pari almeno a °T ∋S °) e quindi il rendimento si modifica come segue :
Κ
id
= ° ∋G °/( ° ∋H °+ °T ∋S °) = 1 cioè il 100 dell’energia fornita la
ritroviamo sotto forma di lavoro elettrico (questo sempre in condizioni
ideali).
Supponiamo ora di avere una cella che lavori a temperatura ambiente : in
questo caso particolare, sempre nell’ipotesi di reazioni con ∋S !0 (che per la
verità sono piuttosto poche), se non forniamo energia termica al sistema, la
cella tenderà a reagire abbassando la sua temperatura. Infatti la quantità di
calore T ∋S è necessaria per mantenere isotermo il sistema, e se questa
quantità non entra in gioco la cella tenderà a raffreddarsi. A questo punto,
non appena la temperatura della cella è inferiore alla temperatura ambiente,
vi sarà un naturale scambio termico tra due corpi aventi temperature diverse.
Ecco dunque che la cella ridurrà la propria temperatura fino a quando la
quantità di calore sottratto naturalmente all’ambiente sarà proprio pari a T ∋S.
La temperatura di equilibrio sarà in realtà molto vicina alla temperatura
ambiente date le piccole quantità in gioco (sia ∋S che T assumono valori
piuttosto ridotti), tuttavia, almeno dal punto di vista teorico, abbiamo di
fronte un sistema dal rendimento pari a ∋G/ ∋H !1 anche se di poco. Infatti in
questo caso l’energia fornita al sistema è pari alla sola variazione di entalpia
visto che l’energia termica proviene dalla sorgente termica ambiente (e
quindi è del tutto gratuita).
13
Questo caso, interessante sicuramente dal punto di vista teorico, non è
sfruttabile tecnicamente per diversi motivi tra i quali i più evidenti sono le
scarse quantità di energia in gioco ma, soprattutto, le bassissime velocità di
reazione riscontrabili a queste temperature. Per completezza riportiamo una
delle reazioni chimiche che presenta ∋S !0 :
C
(s)
+ ½ O
2(g)
ο CO
(g)
è evidente che in una tale reazione si passa da
mezza mole di gas dei reagenti a una mole di gas dei prodotti ; quindi si
aumenta il disordine del sistema e l’entropia dei prodotti è maggiore
dell’entropia dei reagenti, pertanto ∋S
reaz
!0 (+89 J/K per mole).
Come si è potuto notare un rendimento così definito (1.5) non è un buon
indicatore della prestazione della cella. Una più realistica valutazione può
essere ottenuta definendo il nuovo parametro Η, o efficienza, data dal
rapporto tra la potenza elettrica realmente prodotta e la massima potenza
elettrica utile possibile. Il primo termine è dato dal prodotto della corrente
circolante nel circuito esterno per la differenza di potenziale tra i due
elettrodi, il secondo è dato dall’indice di variazione dell’energia libera di
Gibbs d( ∋G)/dt.
Η = P
el,reale
/(d( ° ∋G °)/dt) = I υV/((dn/dt) υ ° ∋G °) (1.6)
con dn/dt = numero di moli di una certa sostanza, combustibile od ossidante,
consumate per secondo ; e ∋G = variazione dell’energia libera di Gibbs della
reazione per mole della stessa sostanza.
Un esempio (es. 1.1) chiarirà il significato dei diversi parametri :
consideriamo una ipotetica cella a metano ed ossigeno :
CH
4(g)
+2O
2(g)
ο CO
2(g)
+ 2H
2
O
(l)
A pressione atmosferica e temperatura ambiente si ha :
∋G = ∋G°(CO
2
) + 2 υ ∋G°(H
2
O) - ∋G°(CH
4
) - 2 υ ∋G°(O
2
) = -94.26 - 2 υ56.69
- (-12.14) - 2 υ(0) = -195.5 kcal/mole
∋H = ∋H°(CO
2
) + 2 υ ∋H°(H
2
O) - ∋H°(CH
4
) - 2 υ ∋H°(O
2
) = -94.05 - 2 υ68.32
- (- 17.89) - 2 υ(0) = -212.8 kcal/mol
Κ
id
= ∋G/ ∋H = -195.5/(-212.8) = 91.87 .
Supponiamo ora che una mole di metano venga consumata in un minuto :
1 mole CH
4
(quantità di sostanza pari al suo peso molecolare (12+4=16)) =
16g di CH
4
dn/dt = 1 mole/min = 1mole/60sec = 0.0167 mole/sec
(dn/dt) ° ∋G °= 0.0167 υ195.5 = 3.258 kcal/sec =13642 W
Supponendo poi che l’output di potenza effettivo sia di 7.5 kW
Η = (7.5 ξ10
3
)/(13.642 ξ10
3
) = 54.98 .
Da notare come le irreversibilità del processo generino uno scambio di calore
con l’ambiente pari a °q ° che è maggiore del termine °T ∋S ° che si avrebbe
in condizioni ideali reversibili. Pertanto anche il lavoro prodotto realmente
sarà inferiore alla quantità teorica ° ∋G ° dello stesso ammontare.
14
Consideriamo ora il sistema descritto in figura 1.3 e supponiamo di far
funzionare irreversibilmente solo la c.c.
2
. Consideriamo un ciclo in cui un
combustibile e l’ossigeno vengano trasformati in acqua generando il lavoro
L
e
e poi l’acqua stessa venga riconvertita in H
2
e O
2
attraverso l’elettrolisi
assorbendo il lavoro ∋G. Tutti gli eventuali lavori di volume vengono
considerati trascurabili. Le irreversibilità della cella fanno sì che il calore
ceduto al termostato sia pari a °q ° che è maggiore del calore reversibile
°T ∋S ° assorbito dalla cella dell’elettrolisi. Il calore irreversibile è dunque
pari a °q
irr
°= °q °- °T ∋S ° che genera un corrispondente aumento di entropia
del termostato ∋S
term
= °q
irr
°/T. Dal primo principio, poiché in un ciclo ∋U=0,
q
ciclo
=-L
ciclo
e dunque °q
irr
°= ° ∋G °- °L
e
°. Poiché, come verrà spiegato
successivamente, il rapporto ∋G/nF con n=numero di elettroni coinvolti nella
reazione e F=costante di Faraday, è pari ad una tensione, la differenza
( ° ∋G °- °L
e
°)/nF=V
ideale
-V
reale
è una misura delle irreversibilità della cella.
Questa differenza è anche chiamata sovratensione. Tornando all’esempio
precedente, possiamo definire anche un rendimento termico reale definito per
esempio in un minuto di funzionamento della cella. L’energia utile sarà data
da 7.5 kW υ60 sec =450 kJ e l’energia fornita sarà sempre ∋H.
Figura 1.3. Ciclo isotermico tra una cella a combustibile e una cella utilizzata per l’elettrolisi
dell’acqua.
2
L’elettrolisi dell’acqua è quel processo con cui, tramite il passaggio di una corrente
elettrica tra due elettrodi, si ottengono ossigeno ed idrogeno. In poche parole, si tratta
proprio del processo inverso di una c.c.
Cella a c. Elettrolisi
H
2
O
2
H
2
O
∋G Le
q ceduto
T ∋S assorbito
Termostato