un ruolo attivo. Tale ruolo sempre più spesso passa attraverso l'uso dello stage,
uno strumento formativo e orientativo che da studi Istat e Almalaurea
sembrerebbe essere sfruttato soprattutto dai laureati di sesso femminile: per
queste ragioni all'interno della tesi è stato scelto di inserire un'indagine
empirica sugli stage in alcuni atenei italiani, in un'ottica di genere. Dopo una
ricognizione sui servizi di placement delle università in Italia, infatti, vengono
presentati i risultati per genere del Progetto FIxO, un progetto del Ministero del
Lavoro per facilitare l'ingresso nel mercato del lavoro di laureandi e laureati
promuovendo gli stage di inserimento lavorativo, per quattro atenei lombardi:
l'Università degli Studi dell'Insubria, l'Università degli Studi di Milano-Bicocca,
l'Università degli Studi di Pavia e l'Università degli Studi di Milano. Lo stage è
effettivamente uno strumento di inserimento lavorativo utile per i laureati? In
che misura? Esistono differenze di genere nella qualità dell'esperienza
formativa e nell'esito professionale post-stage?
6
1. INQUADRAMENTO TEORICO DEL MONDO DEL LAVORO IN
EUROPA: FOCUS SULLE DONNE LAUREATE
1.1 I modelli dell'occupazione in Europa
Secondo i dati più recenti dell'OECD1 nel 2007 su 546.695.000 forze lavoro gli
occupati dell'area erano 515.368.000, con un tasso di occupazione del 66,7% e un
tasso di disoccupazione del 5,7%. Considerando la sola Europa, ed escludendo
quindi gli Stati Uniti, su una popolazione attiva di 242.906.000 individui gli
occupati erano 242.786.000 e il tasso di occupazione diminuiva appena al 63,5%,
con un tasso di disoccupazione del 7,5%. Si tratta, di fatto, di “una conquista
che non ha precedenti nell'epoca post-bellica” [OECD 2008].
Presentando dei dati sul mercato del lavoro in Europa è tuttavia necessario
evidenziare le differenze nella struttura dell'occupazione, che varia molto in
base alle aree geografiche e talvolta da Stato a Stato, influenzata com'è dalla
capacità di un paese di creare occupazione, dai diversi assetti culturali e
istituzionali, dai sistemi formativi e dai modelli di Welfare State. La stessa
definizione delle persone in cerca di lavoro nei paesi europei copre in realtà
figure sociali molto differenti e non è facile portare avanti analisi comparate a
livello sovranazionale: la disoccupazione è un concetto di politica sociale, che
indica le categorie aventi diritto a forme di sostegno. Tale sostegno è soggetto a
variazioni qualora il governo cambi le norme per la sua fruizione, e ciò rende
1 L'OECD (Organization for Economic Cooperation and Development, in italiano OCSE,
Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) è un'organizzazione inter-
governativa a livello internazionale che si prefigge lo scopo di favorire e coordinare la
crescita economica degli Stati membri. Attualmente aderiscono all'OCSE 30 paesi: Australia,
Austria, Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia,
Ungaria, Islanda, Irlanda, Italia, Giappone, Corea, Lussemburgo, Messico, Paesi Bassi,
Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia,
Regno Unito, Stati Uniti.
7
difficile seguire i cambiamenti nel tempo o comparare i paesi tra loro: il metodo
usato per far fronte a tale problema è ricorrere a ricerche internazionali
standardizzate sulla popolazione, in cui si chiede se si è svolta un'attività
lavorativa nelle ultime settimane o se si è cercata un'occupazione [Reyneri
2005].
Principalmente, tuttavia, gli indicatori che si possono usare per definire i
gruppi di persone in cerca di lavoro e quindi la composizione della
disoccupazione sono: genere, età, posizione nel mercato del lavoro (disoccupati
in senso stretto, persone in cerca di un primo impiego). In base a questi
indicatori, tendenzialmente è possibile definire quattro grandi modelli di
disoccupazione in Europa [Reyneri 2005]:
1. Nei quattro paesi mediterranei (Portogallo, Grecia, Spagna e Italia) la
disoccupazione è da “inserimento”, poiché si concentra sui giovani, che
vivono ancora con i genitori e sono alla ricerca del primo lavoro; poco
colpiti sono invece i maschi adulti e i capifamiglia, mentre limitato è il
tasso di attività femminile. Per gli occupati è basso il rischio di perdere il
lavoro e di non trovarne rapidamente un altro (forti tutele nel lavoro full
time a tempo indeterminato, prevalentemente maschile); l'unica variante
è quella spagnola, dato che la diffusione di lavori temporanei ha
trasformato molti giovani da persone in cerca di prima occupazione in
disoccupati in senso stretto. Per quanto riguarda il Welfare State, il
modello mediterraneo è stato individuato da Esping Andersen come
caratterizzato da una scarsa fornitura di servizi di cura e sostegno alla
famiglia, perciò i servizi di cura sono forniti nel privato dalla famiglia
estesa.
2. In Gran Bretagna sembra prevalere la classica disoccupazione
8
“industriale” dei maschi adulti e con responsabilità familiari, mentre le
donne sembrerebbero addirittura meno disoccupate degli uomini e la
discriminazione verso i giovani non è elevata. Il modello è a “moderate
male breadwinner family”, il reddito familiare proviene principalmente
ma non esclusivamente dal maschio capofamiglia (un salario e mezzo);
diffuso è per le donne il part time nel settore privato, talvolta poco
regolamentato. Sono scarsi i servizi pubblici e i sostegni pubblici alla
famiglia, e la spesa pubblica per politiche sociali è più bassa che nei paesi
continentali.
3. In Germania, Danimarca, Svezia e Austria la vulnerabilità alla
disoccupazione è abbastanza distribuita tra le diverse fasce dell'offerta di
lavoro (disoccupazione “equidistante”), perché molto bassa è la
discriminazione sia verso le donne sia verso i giovani. Tuttavia, poiché
gli adulti sono più numerosi dei giovani, tra le persone in cerca di lavoro
prevalgono gli adulti disoccupati in senso stretto e con responsabilità
familiari, ma la presenza delle donne è pari a quella degli uomini. Esping
Andersen raccoglie i paesi della penisola scandinava (Svezia, Finlandia,
Norvegia, Danimarca, escludendo quindi la Germania) nel cosiddetto
modello di welfare socialdemocratico/scandinavo, che prevede
prestazioni di sicurezza sociale su base assicurativa e diritti sociali
universali di cittadinanza finanziati da tassazione, politiche attive per la
famiglia, congedi parentali e di paternità ben retribuiti, ampia offerta di
servizi sociali pubblici. All'elevata attività delle donne sul mercato del
lavoro si accompagna però una forte segregazione occupazionale
femminile nel lavoro part time nei servizi pubblici, e la famiglia è con
doppio salario o con un salario e mezzo (debole male breadwinner
9
family). Dagli anni Ottanta in Germania non esiste più uno specifico
problema di disoccupazione giovanile, dato che il tasso di
disoccupazione è praticamente identico per i giovani e gli adulti sino ai
54 anni. Fin dall'esplosione della disoccupazione giovanile a metà degli
anni Settanta, la Germania è stata il paese europeo meno colpito.
Tuttavia, ancora nel 1983 i tassi di disoccupazione erano lievemente più
alti per i giovani e i trentenni di entrambi i generi. Quindi, come tutti i
paesi europei tranne l'Italia, negli anni Ottanta la Germania è riuscita a
ridurre lo squilibrio tra giovani e adulti e, dato che lo squilibrio iniziale
era minore, lo ha addirittura annullato; anche all'aumento della
disoccupazione negli anni Novanta non si è accompagnata l'esplosione
di quella giovanile, ma il tasso di disoccupazione è aumentato in misura
quasi uguale per tutte le classi di età; quando in seguito la situazione è
migliorata la linea dei tassi di disoccupazione si è abbassata conservando
la stessa forma. La stabilità del modello tedesco, che ha resistito a radicali
mutamenti nel mercato del lavoro, si spiega con un fattore istituzionale.
Infatti, il diffuso sistema di formazione duale, che alterna scuola e lavoro,
non solo favorisce un più rapido ingresso nell'occupazione, ma consente
anche di classificare come occupati, sia pure a tempo parziale, molti
giovani che studiano [OECD 1996]. Al modello tedesco si avvicinano
Danimarca e Austria, in cui il sistema formativo è molto simile.
4. Francia, Belgio e Olanda, infine, si caratterizzano per una struttura della
disoccupazione “discriminante”, con forti penalizzazioni verso le donne
adulte, sposate, che hanno perso un lavoro. Queste costituiscono la fascia
più importante delle persone in cerca di occupazione e le donne risultano
penalizzate rispetto al maschio, che tipicamente ha un lavoro a tempo
10
indeterminato full time ben tutelato ed è portatore – in media,
naturalmente – dell'unico stipendio familiare (strong breadwinner
family). Le prestazioni di sicurezza sociale sono su base
assicurativa/contributiva e vi è una scarsa fornitura di servizi pubblici e
di politiche per la famiglia.
Combinando le due sole – ma in sé significative - dimensioni del genere e
dell'età, è possibile costruire una vera e propria tipologia della disoccupazione
in Europa che evidenzi di volta in volta in quali paesi determinate categorie
abbiano un maggior peso nel comporre la popolazione di disoccupati, resoconto
che naturalmente va completato con la posizione all'interno della famiglia
[Reyneri 2005]:
Giovani Adulti Adulti e anziani
Donne Italia, Spagna,
Grecia
Francia, Olanda Danimarca
Uguale - Belgio, Portogallo,
Finlandia
-
Uomini - Gran Bretagna,
Irlanda
Svezia, Austria,
Germania
11
1.2 Quando il lavoro è “debole”: l'occupazione giovanile
Il tasso di disoccupazione è fortemente influenzato dall'età dei soggetti
considerati: tra giovani e adulti dello stesso genere la differenza può superare
perfino i 30 punti percentuali. I giovani e in minor misura gli anziani sono le
fasce di età, sia tra i maschi sia tra le femmine, più colpite dalla disoccupazione
in quasi tutti i paesi europei.
Particolarmente delicata è la situazione dei giovani al loro primo ingresso nel
mercato del lavoro, che appare storicamente molto sensibile alle condizioni del
ciclo economico e sproporzionalmente influenzata dai trend demografici,
economici e sociali che stanno ristrutturando i mercati del lavoro dell’area
OECD. Anche se nel corso dell’ultimo decennio il tasso di occupazione dei
giovani dai 15 ai 24 anni è crollato in tutti gli Stati OECD in gran parte per il
crescere del livello di istruzione (fatto confermato dalla contestuale
diminuzione del tasso di disoccupazione e del tasso NEET2), il tasso di
disoccupazione giovanile resta sempre circa il doppio del tasso di
disoccupazione degli adulti, e dall'ultimo decennio è aumentato il numero di
giovani impegnati in occupazioni part time o temporanee.
L'ingresso nel mercato del lavoro è di cruciale importanza nella vita di un
giovane. E' un passo decisivo nel processo di transizione verso la vita adulta, ed
è strettamente legato ad altre transizioni, come l'abbandono della casa dei
genitori o l'avvio di una famiglia propria. Inoltre, aspetto cruciale, la futura
carriera, e di conseguenza le future scelte di vita, sono fortemente condizionate
dai primi passi mossi nel mercato del lavoro [Scherer 2004].
Le difficoltà incontrate dai giovani nel passaggio dalla scuola al mercato del
2 Si tratta dell’acronimo per “not in education, employment or training”; designa le persone
non occupate e non impegnate in percorsi di istruzione.
12
lavoro si evidenziano non solo e non tanto attraverso i tassi di occupazione –
piuttosto contenuti – che fanno registrare, ma soprattutto nella qualità del
lavoro che svolgono. Anche se laureati, i giovani non riescono a trovare subito
un'occupazione stabile a tempo pieno e spesso danno inizio alla loro carriera
con impieghi brevi o occasionali. Il lavoro temporaneo è diventato il principale
mezzo di ingresso nel mercato del lavoro per i giovani di molti Stati europei,
così come in Canada e in Giappone, mentre un'occupazione part time è più
comune tra i giovani lavoratori del Nord, dei Paesi Bassi e degli Stati
anglosassoni. Nella maggior parte dei casi, lavori sotto-pagati e temporanei
sono per i giovani al loro ingresso nel mondo del lavoro la base di partenza per
occupazioni meglio retribuite e più stabili. Una minoranza di giovani, tuttavia,
resta intrappolata in lavori sotto-pagati e precari [OECD 2008].
Esistono numerose differenze tra i paesi nelle modalità di ingresso nel
mercato del lavoro da parte dei giovani, che possono dare vita a veri e propri
modelli: l'attesa infatti può essere più o meno lunga e portare ad
un'occupazione inizialmente più o meno stabile. In uno studio del 2004
focalizzato su Germania, Inghilterra e Italia, Stefani Scherer conclude che queste
dimensioni della transizione scuola-lavoro siano influenzate sia dalla più o
meno alta specializzazione del sistema educativo sia dalla legislazione di tutela
dell'occupazione, che interagiscono tra loro. In Inghilterra infatti ad una bassa
specializzazione formativa (i corsi di studio, cioè, sono generalisti, non orientati
a formare professionalità specifiche) si accompagna una scarsa tutela del posto
di lavoro, che porta i giovani a trovare in tempo relativamente breve
un'occupazione molto instabile, spesso seguita da periodi di disoccupazione
prima di un'altra occupazione precaria. All'opposto, in Italia bassa
specializzazione formativa e forte tutela dell'occupazione portano i giovani a
13
dover sostenere una lunga attesa prima di trovare un lavoro, che però ha
carattere di maggiore stabilità: si tratta di un aspetto comune anche ad altri
paesi mediterranei come Grecia e Spagna, nei quali, infatti, il tasso di
disoccupazione giovanile è estremamente più elevato del tasso medio di
disoccupazione della popolazione. In Germania (alta specializzazione formativa
con il sistema di apprendistato, quindi forte orientamento a formare specifiche
professionalità, più forti tutele sul posto di lavoro) il periodo di attesa è breve,
la prima occupazione è instabile ma vi è transizione di lavoro in lavoro, non
alternato a periodi di disoccupazione [Scherer 2004].
Parlando di disoccupazione giovanile è necessario analizzare anche la
cosiddetta “disoccupazione intellettuale”, il fenomeno in base a cui la
disoccupazione colpirebbe in misura consistente le persone con un alto livello
di istruzione rispetto a quelle meno istruite.
Questo discorso è soprattutto sentito in paesi come l'Italia in cui la
disoccupazione è “da inserimento”, quindi colpisce in modo maggiore i
giovani, in linea di tendenza più istruiti delle generazioni che li hanno
preceduti. In particolare, in senso specifico la disoccupazione intellettuale
considererebbe la più elevata scolarità una difficoltà aggiuntiva per un giovane
nella ricerca di un'occupazione. Il tessuto produttivo italiano, costituito in
maggior parte da piccole imprese, tende ad avere una limitata esigenza di
profili professionali medio-alti. Queste aziende, infatti, sono caratterizzate da
una struttura organizzativa con scarse possibilità di carriera e di ruoli
dirigenziali e da una struttura gestionale-produttiva con bassa innovazione
tecnologica, a causa dei costi dell'inserimento di tecnologie avanzate. Maggiori
opportunità per profili altamente qualificati come quelli dei laureati
sembrerebbero invece esistere nelle medie e grandi imprese e nella pubblica
14
amministrazione.
Per quanto riguarda l'istruzione universitaria italiana sono quattro i
principali tipi di critiche che vengono rivolte al sistema accademico [Santoro,
Pisati 1996]:
− la laurea non offre una preparazione adeguata al mondo del lavoro;
− l'incapacità della laurea di fornire un “mestiere”, unita alla diffusione
crescente di questo titolo di studio, fa sì che i giovani laureati abbiano scarse
possibilità di trovare un'occupazione qualificata;
− di conseguenza, i neolaureati sono destinati a rimanere disoccupati a lungo
oppure devono adattarsi a fare lavori meno attraenti, che non richiedono un
livello di istruzione superiore;
− anche quando riescono a svolgere un lavoro congruente con la propria
formazione universitaria, i benefici che da esso si possono trarre, soprattutto
in termini economici, sono inferiori ai costi sostenuti per conseguire la
laurea.
In realtà il possesso di una laurea offre un notevole vantaggio competitivo
sul mercato del lavoro dato che garantisce dal rischio di perdere un lavoro in
età adulta e persino nella fase di ingresso favorisce quasi sempre l'inserimento
lavorativo [Reyneri 2005]. In dieci paesi europei, ad un anno dal conseguimento
del titolo, il 53% dei giovani con un titolo medio-alto ha un'occupazione stabile,
contro il 38,9% dei giovani con una bassa qualifica; allo stesso modo solo il 47%
dei giovani con una qualifica medio-alta è impegnato in un'occupazione
temporanea contro il 61,1% dei meno qualificati [OECD 2008]. Attualmente,
inoltre, le società si avviano, per la maggior parte, verso sistemi di selezione
sociale di tipo credenzialistico: per “credenzialismo” gli scienziati sociali
intendono il monopolio dell'accesso alle occupazioni più remunerative e alle
15
maggiori opportunità economiche da parte dei detentori di “credenziali”, ossia
di lauree, certificati di studio e altre qualifiche formali3 [Collins 1979]. Qualifiche
educative di alto livello sono ora obbligatorie per un'ampia gamma di
professioni e di impieghi nelle grandi organizzazioni, anche se non sono
altrettanto importanti in tutti gli ambiti della struttura occupazionale. La
crescita del credenzialismo è stata alimentata soprattutto dalle esigenze delle
organizzazioni di vagliare i potenziali collaboratori e dalla loro propensione ad
interpretare i titolo da essi conseguiti non tanto come la prova del possesso di
competenze tecniche immediatamente spendibili sul posto di lavoro, ma come
indicatori di caratteristiche economicamente appetibili, come la capacità di
acquisire nuove abilità [Brint 2007]. Secondo l'economista Lester Thurow i
datori di lavoro sono disposti a pagare di più per lavoratori in grado di
adattarsi rapidamente a nuove mansioni e le credenziali educative costituiscono
indicatori affidabili di questa capacità, che chiama “addestrabilità” (trainability)
[Thurow 1972]. Caratteristiche personali come l'affidabilità, la volontà di
conformarsi e l'addestrabilità, di cui un elevato titolo di studio suggerirebbe la
presenza, costituiscono un bene economico agli occhi dei datori di lavoro, che
assumerebbero persone istruite al fine di ridurre i costi implicati dal ricambio
del personale e dai costi di formazione. A questa teoria delle credenziali
educative si oppone la teoria economica del capitale umano, secondo cui gli
individui hanno un incentivo economico ad accumulare conoscenza perché
questa migliora la loro futura produttività lavorativa, che troverà
riconoscimento all'interno di mercati di lavoro concorrenziali in maggiori
retribuzioni future [Ballarino Checchi 2006]: tale prospettiva, infatti,
3 L'avvento della società del credenzialismo era stato previsto all'inizio del Novecento da Max
Weber, che spiegava la crescita delle richieste per l'istituzione di “curricoli regolari ed esami
speciali” con il desiderio della monopolizzazione delle posizioni da parte dei possessori di
certificati di istruzione.
16
presuppone che la scuola e l'università forniscano agli individui competenze
professionali immediatamente spendibili sul posto di lavoro. A questo riguardo,
una questione aperta è proprio quella dell'aderenza dei corsi di studio con le
richieste del mercato del lavoro, di cui molti critici segnalano la mancanza, sia
in Italia sia in altri paesi europei, mentre allo stesso tempo c'è chi sottolinea che
la formazione accademica non si propone l'obiettivo di formare profili definiti,
e spesso le aziende segnalano le cosiddette “competenze trasversali” (cioè
competenze non tecniche e specifiche, ma più legate alla flessibilità mentale, al
metodo di apprendimento della persona e alle abilità di relazione) come il
valore aggiunto che può essere fornito loro da un neo-laureato.
Il fenomeno che si è verificato negli ultimi decenni in tutta Europa è il
mutamento delle caratteristiche della domanda e dell'offerta di lavoro: ad una
crescente offerta di lavoro ad alto tasso di istruzione non è corrisposta una
proporzionale domanda da parte delle imprese di posizioni ottimali per
lavoratori qualificati, che hanno mantenuto – e talora mantengono – le
medesime aspettative lavorative del passato (si tratta della dimensione culturale
che, come è noto, varia più lentamente della dimensione materiale ed
economica) [Reyneri 2005]. Ecco verificarsi la cosiddetta “inflazione delle
credenziali” accennate in precedenza, un mismatch che è causa quindi della
disoccupazione intellettuale. Un successivo slittamento verso l'alto dei livelli di
reclutamento per occupazioni che restano sostanzialmente le stesse, tuttavia,
tende a riequilibrare le aspettative dei soggetti e a eliminare il fenomeno, che
difatti in Italia ad esempio si è presentato con più evidenza negli anni Settanta,
decennio di entrata nel mondo del lavoro dei “baby boomers” che avevano
avuto la possibilità di elevare in modo significativo il livello di istruzione
rispetto a quello dei proprio genitori.
17
Per quanto riguarda il caso italiano, tuttavia, occorre fare una precisazione:
non esiste una vera e propria sovra-rappresentazione di offerta di lavoro
altamente qualificata, al contrario l'Italia presenta un tasso di istruzione (in
particolar modo universitaria) nettamente inferiore agli altri paesi europei, cui
però corrisponde una scarsa domanda da parte delle imprese di questo genere
di offerta.
In ogni caso, negli ultimi anni la richiesta di laureati e diplomati è in crescita:
per il 2008 la previsione di assunzioni per personale neolaureato stimata da
Unioncamere nel rapporto informativo Excelsior era passata al 10,6% del totale
(88.000 unità), dal 9% del 2007 (75.330 unità). Ancora più rilevanti le previsioni
per quanto riguarda i diplomati, che nel 2008 avrebbero dovuto rappresentare il
40,5% dei nuovi assunti, 6 punti in più rispetto al 2007 [Unioncamere 2008]. In
ogni caso, le imprese non sembrano considerare come segnale degno di
attenzione la laurea di per sé, quanto il tipo di laurea [Checchi 2003].
Infine, tra i principali fattori di disuguaglianza nel determinare condizioni e
corsi di vita delle persone (classe di origine o di appartenenza, genere,
generazione), mentre le disuguaglianze di classe sembrano rimaste
sostanzialmente stabili nel corso di tutto il secolo scorso, le disuguaglianze di
generazione e più in particolare quelle legate alla coorte anagrafica hanno
ampliato i propri effetti, come dimostrerebbero anche analisi condotte
sull'Indagine Longitudinale sulle famiglie italiane (ILFI) del 1997. Le persone nate a
partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, rispetto alle generazioni dei loro
genitori, incontrano maggiori ostacoli nella ricerca del primo impiego,
trascorrono porzioni più estese della loro vita lavorativa in disoccupazione,
conoscono maggiori rischi di instabilità occupazionale, vedono ridursi le
opportunità di carriera, si trovano di fronte a un mercato della casa più rigido e
18
riescono a raggiungere ad età sempre più elevate l'indipendenza dalla famiglia
di origine. Le coorti degli attuali ventenni e trentenni costituiscono le prime due
generazioni del XX secolo a non essere in grado di migliorare le proprie
prospettive di vita rispetto a quelle delle generazioni dalle quali discendono:
sarebbero quindi più numerosi i vincoli, e non le opportunità, nell'emanciparsi
dalla famiglia di origine [Schizzerotto 2002].
1.3 Quando il lavoro è “debole”: l'occupazione femminile
Sempre riferendosi all'indagine ILFI e alle analisi di Schizzerotto in
precedenza citate, le disparità di genere risultano invece lievemente ridotte nel
corso degli anni, per effetto soprattutto della crescente partecipazione delle
donne al sistema formativo e al mercato del lavoro.
Un miglioramento generalizzato in tutta Europa ma che non ha eliminato del
tutto gli svantaggi della condizione femminile nella società, proprio per i
problemi legati all'occupazione. In media, infatti, il 20% delle donne in meno
degli uomini ha un lavoro: secondo dati Eurostat nel 2008 considerando
l'Europa a 27 membri il tasso di occupazione femminile era di 59,1% contro il
72,8% maschile [Eurostat 2008].
Occorre ricordare in ogni caso che nella crescita dell'occupazione in Europa il
ruolo delle donne si è rivelato cruciale: la crescita nel tasso di occupazione tra il
1985 e il 2002 in Europa, infatti, è stata quasi del tutto determinata dal tasso di
occupazione femminile in crescita [Villa 2003].
19