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Introduzione
Il presente lavoro, si propone di affrontare uno dei sintomi
maggiormente penalizzanti della schizofrenia, quello delle allucinazioni
uditive. L' immaginario collettivo, considera questo fenomeno (cioè il
“sentire le voci”) come uno dei più chiari sintomi di distacco dalla realtà:
il presente lavoro, vuole in particolare cercare di capire possa portare la
mente di una persona a sentire voci che non hanno riscontro nella realtà
oggettiva, e se siano più rilevanti le cause biologiche piuttosto che quelle
psicologiche, tenendo presente che conoscere le cause di un fenomeno,
non risponde solo ad una curiosità intellettuale, ma è un modo per
contestualizzarlo, capirlo, e, in una prospettiva a lungo termine, poterlo
risolvere o prevenire.
Nel focalizzarsi sulle ipotesi relative alle cause delle allucinazioni
uditive nella schizofrenia, è necessario chiarire in prima battuta che,
nonostante la riflessione in ambito clinico scientifico duri da più di un
secolo, non esiste ancora una linea interpretativa che possa dirsi
conclusiva od esclusiva. Verrà evidenziato come, non appena si tenti di
affrontare il tema più diffusamente, ci si imbatta in due ordini di problemi
metodologici e interpretativi di non facile soluzione.
Dapprima descriveremo infatti una delimitazione di campo,
considerando il fatto che fenomeni allucinatori siano rilevabili in diverse
situazioni patologiche, così come in persone non affette da patologie, e
motiveremo la scelta di limitare il campo al quadro sintomatico
schizofrenico, illustrando le caratteristiche ed i particolari significati che
le allucinazioni uditive vengono ad assumere nella schizofrenia e nel
vissuto quotidiano del paziente schizofrenico. Successivamente, n e l
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presentare un quadro storico degli studi sul tema, mostreremo come vi
siano approcci che prediligono cause di tipo biologico accanto ad altri che
presentano cause psicologiche, ma anche come le rinnovate possibilità di
indagine della diagnostica moderna sembrano poter finalmente dirimere
alcuni questioni centrali sul tema, ipotesi alla cui verifica è dedicato il
presente lavoro. Nel primo capitolo si è dunque ritenuto necessario
allargare inizialmente la prospettiva per avere un quadro di cosa sia la
schizofrenia da un punto storico e fenomenologico. Storicamente è d'uso
datare l'inizio degli studi sulla schizofrenia con la teorizzazione di Emil
Kraepelin sulla dementia praecox in un periodo in cui la patologia veniva
ancora annoverata tra le demenze.Sarà solo con il 1911, e con Eugene
B l e u l e r , c h e v e r r à i n t r o d o t t o il termine schizofrenia, una svolta
significativa, sia perché iniziò a venir pensato come quadro
sintomatologico autonomo, si perché si iniziò a sottolinearne la
separazione delle funzioni mentali della persona che ne è affetta.
Il secondo capitolo propone una panoramica sulle varie
tassonomie proposte nell’affrontare il tema, presentando e interpretando
dapprima i contributi Bleuler, Schneider e Sullivan, fino a soffermarsi
particolarmente sulla distinzione di Jackson tra sintomi positivi e negativi
e sul modello trifattoriale di Liddle che aggiunge a quelli già citati i
sintomi disorganizzati, per esaminare poi classificazioni più recenti che
prevedono anche quattro o cinque fattori. Sempre nel secondo capitolo,
verrà presentato anche il ruolo delle voci all’interno del quadro
sintomatologico attualmente utilizzato nell’affrontare la patologia,
esaminando dapprima i principali sintomi negativi e quelli disorganizzati,
per poi approfondire i sintomi positivi, deliri ed allucinazioni, con
particolare riferimento a quelle uditive.
Sia la biologia che la psicologia, hanno cercato di dare una
spiegazione a questo disturbo della percezione: il terzo capitolo, va ad
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esaminare le teorie di matrice biologica, che considerano le voci un
fenomeno qualitativamente divergente dalla norma e confronta due
differenti filoni interpretativi, quello bottom-up, che riconduce le
allucinazioni uditive ad un problema a livello percettivo, e quello top-
down, che invece le lega piuttosto a disfunzioni nella rielaborazione delle
percezioni, quindi ad un problema a livello cognitivo. Particolare rilievo
verrà dato al ruolo dei neurotrasmettitori, in specie alla dopamina,
analizzando l’evoluzione della teoria, mostrando sotto quali aspetti essa
possa essere ad oggi confermata, e per quali ragioni non possa ritenersi
prova unica e conclusiva, ma necessiti di ulteriori ricerche da inserirsi in
un quadro multifattoriale più complesso.
Nel quarto capitolo presenteremo invece le ipotesi di matrice
psicologica, che, in linea generale, considerano sintomi quali le
allucinazioni uditive, come un fenomeno solo quantitativamente differente
rispetto alla norma. Nel dettagliare il quadro, saranno dapprima presentate
le teorie psicodinamiche, quindi le ipotesi del trauma, quelle sistemiche e
relazionali, ed i modelli stress-vulnerabilità. Saranno in seguito
approfondite le ipotesi cognitive, presentandole alla luce di una doppia
distinzione: da un lato si distinguerà nel fenomeno la componente
percettiva, rappresentata dal sentire le voci, da quella cognitiva, costituita
dalla credenza che si costruisce su questa percezione; dall’altro, si
considererà l’ipotesi che considera le voci come una errata attribuzione
esterna del proprio dialogo interno.
Il quinto capitolo, intende raccogliere e confrontare le ipotesi
biologiche e psicologiche. In particolare l’attenzione si soffermerà sul
correlato emotivo delle allucinazioni uditive, poi sul significato che le
allucinazioni possono avere per la persona che ne è affetta, e infine sul
rapporto tra allucinazioni e deliri: per questi tre aspetti, il presente lavoro
va a presentare sia le spiegazioni di ordine biologico, che le spiegazioni di
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ordine psicologico. Quello che il confronto pare evidenziare, è una
integrazione tra i due tipi di spiegazioni, più che una loro contrapposizione
o contraddittorietà: le ipotesi biologiche sembrano andare a confermare
quanto teorizzato dalle ipotesi psicologiche, e viceversa. Verrà quindi
esposto il modello teorico biopsicosociale, che riflette la complessità del
fenomeno allucinatorio nel quadro della sintomatologia schizofrenica,
prendendo in considerazione anche i fattori di ordine sociale.
La conclusione mostrerà che sia le ipotesi biologiche che quelle
psicologiche, si sono molto evolute negli ultimi due secoli, e che i risultati
migliori possono essere ottenuti con una prospettiva che integri il piano
biologico con quello psicologico, cercando di restituire la complessità
reale del fenomeno, e della sua ripercussione sul vissuto della persona che
ne è affetta.
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I]
La schizofrenia:
definizione, storia degli studi sulla schizofrenia,
esordio e sviluppo della malattia,
1. Definizione di schizofrenia: DSM-5 e DSM-IV a
confronto
Come si potrebbe definire, e descrivere, la schizofrenia?
<<Alcuni autori la considerano una malattia, altri una sindrome, o un
meccanismo mentale, o addirittura un modo di vita>> (Arieti, 1974, p. 9).
Un primo criterio di orientamento può essere fornito dal DSM-5, che pone
la schizofrenia tra i disturbi dell'asse I, più precisamente tra i disturbi dello
spettro schizofrenico ed altri disturbi psicotici, che vengono definiti come
"un gruppo di condizioni psichiatriche, caratterizzate da una serie di criteri
diagnostici, e accomunate da somiglianze sul piano clinico, o sul
meccanismo della malattia, o sulla loro eziologia. Tipicamente, questi
disturbi hanno aspetti clinici in comune con la schizofrenia, in quanto
comportano, in vario grado, una distorsione della realtà " (Mamah e Barch,
2011, p.46). Il DSM-5 definisce i disturbi dello spettro della schizofrenia
ed altri disturbi psicotici, come caratterizzati da alterazioni in uno o più
dei seguenti 5 aspetti: deliri, allucinazioni, pensiero (ed eloquio)
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disorganizzati, comportamento motorio disorganizzato o anormale
(includendo la catatonia), e sintomi negativi. (American Psychiatric
Association, 2013, p. 87).
La diagnosi di schizofrenia prevede la presenza, per un mese (o
meno, se trattati efficacemente), di almeno due o più dei seguenti sintomi :
1 - deliri 2 - allucinazioni 3 - eloquio disorganizzato 4 - comportamento
fortemente disorganizzato o catatonico 5- sintomi negativi (abulia, o
espressione emotiva diminuita). Almeno uno dei sintomi deve essere di
tipo 1, o 2, o 3, ed i sintomi devono essere presenti per una significativa
quantità di tempo nel corso del mese (American Psychiatric Association,
2013, p. 99). Questi sintomi devono durare per almeno 6 mesi, e causare
significativa compromissione del funzionamento della persona, in una o
più delle aree di vita maggiormente importanti, come la attività lavorativa,
le relazioni interpersonali, e la cura della propria persona ( American
Psychiatric Association, 2013, p. 99). I cambiamenti nei criteri diagnostici
della schizofrenia, nel DSM-V , sono modesti rispetto alla precedente
versione del DSM, la versione -IV: non sono stati effettuati cambiamenti
nella durata minima (6 mesi), nella compromissione del funzionamento
della persona (che rimane una condizione necessaria), e nei criteri di
esclusione (disturbo psicotico breve, disturbo schizoaffettivo, p s i c o s i
indotta da sostanze). Il DSM-IV , però, come i DSM precedenti, andava a
definire dei sottotipi, di schizofrenia : paranoide, disorganizzata
(ebefrenica), catatonica, indifferenziata, e residua. (Tandon e Bruijnzeel,
2014, p. 16). Questi sottotipi non sembravano avere una utilità cinica, o di
ricerca : la descrizione della grande variabilità di questa condizione non
era soddisfacente, stabilità, affidabilità e validità erano incerte, e
praticamente venivano utilizzati solo i sottotipi paranoide e residuo. Per
questi motivi, i sottotipi sono stati eliminati dal DSM-V (Tandon e
Bruijnzeel, 2014, p. 16). Notiamo anche che, nel DSM-IV , per la diagnosi
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di schizofrenia veniva richiesto solo un sintomo caratteristico, se uno di
questi era un delirio bizzarro, o una allucinazione; nel DSM-V , invece,
sono richiesti due sintomi caratteristici (Tandon e Bruijnzeel, 2014, p. 16).
Queste differenze tra il DSM-5 ed il DSM-4, riflettono la difficoltà di dare
un inquadramento preciso e definitivo alla schizofrenia, nonchè l e
differenti interpretazioni e descrizioni che sono state date della
schizofrenia, nel corso degli anni: "Riteniamo che tutte queste difficoltà
sorgano anche perché il disturbo schizofrenico, identificandosi più di ogni
altra forma al comune concetto di follia, pone a tutti i più inquietanti
interrogativi per la sua incongruenza, la sua stranezza, la sua bizzarria, che
da sempre sono al centro del dibattito sulla malattia mentale, sulla
devianza, sulla diversità" (Vender, Callegari e Poloni, 2006, pp. 108 -109).
2. Storia degli studi sulla schizofrenia
La schizofrenia è oggetto di studio da un centinaio di anni, tuttavia
la sua precisa natura, e la sua stessa definizione sono ancora poco chiare
(Tandon e Bruijnzeel, 2014, p. 13). Il concetto di schizofrenia, così come
è inteso oggi, ha le sue radici nella definizione di "dementia praecox" di
Emil Kraepelin, del tardo XIX secolo : fu Emil Kraepelin, a descrivere
per la prima volta la schizofrenia, come forma di degenerazione psichica,
ponendola però tra le demenze, per il declino cognitivo che la malattia
comporta (Kraepelin, 1919) ; il termine "praecox" si riferisce all'esordio
della malattia, che spesso coincide con l'età adolescenziale, a differenza
delle demenze caratteristiche della età senile (Arieti, 1974, p. XVII).
Kraepelin comunque rileva che il declino cognitivo della dementia