Lo sport, ai giorni nostri, tuttavia non può più essere ricondotto solamente
alla mera attività fisica o ludica, ad esso, infatti, si collegano anche numerosissimi
interessi di natura economica e giuridica: basti pensare all’annoso problema del
doping sia ai fini della tutela della salute degli atleti, sia con riferimento alla c.d.
frode sportiva che cagiona danni non solo alle società direttamente coinvolte ma
anche a migliaia di soggetti che siano in qualche modo toccati da essa (televisioni,
giornali, agenzie di scommesse e scommettitori, aziende pubblicitarie e così via). Un
altro problema molto rilevante è, poi, quello afferente ai rapporti di lavoro tra gli
sportivi (professionisti e dilettanti) e le società sportive: è ormai esperienza comune
quanto accade periodicamente con i trasferimenti multimilionari dei giocatori o degli
allenatori (in particolare di calcio), i quali assumono importanza sempre più
crescente non tanto ai fini meramente agonistici quanto piuttosto ai fini di marketing
e di promozione dell’immagine delle squadre.
Alla luce di un siffatto quadro complessivo s’impone, allora, l’adozione di
norme speciali in deroga al diritto comune; solo delle discipline specifiche possono
arrivare a comprendere appieno e a tutelare di conseguenza i rapporti giuridici
nascenti in ambito sportivo.
Per questi motivi si riconosce, accanto all’ordinamento statale, l’esistenza di
un ordinamento sportivo
2
, dotato di una propria autonomia amministrativa e
2
L’autonomia dell’ordinamento giuridico non è più oggetto di discussione da alcuni anni, ma in
passato, per molto tempo, la giurisprudenza ha sostenuto la tesi della natura convenzionale, non
giuridica, delle norme sportive. Tuttavia, dopo la diffusione della teoria della pluralità degli
ordinamenti giuridici (a merito di Santi Romano) e della loro coesistenza in funzione delle diverse
finalità perseguite, divenne insostenibile la concezione contrattualistica delle norme sportive.
Nell’ordinamento sportivo si iniziò, infatti, a riconoscere i tre elementi ritenuti indefettibili degli
ordinamenti giuridici: pluralità di soggetti, formazione e organizzazione.
6
regolamentare relativamente agli ambiti che vi afferiscono e caratterizzato da un alto
grado di transnazionalità.
In Italia, l’ente esponenziale di tale ordinamento sportivo è il Comitato
Olimpico Nazionale Italiano (C.O.N.I.) istituito con la legge 16 febbraio 1942, n.
426
3
, la quale gli ha conferito la personalità giuridica collocandolo nella categoria
degli enti pubblici parastatali. Il CONI e le Federazioni sportive nazionali sono,
inoltre, inseriti nel Comitato Olimpico Internazionale (C.I.O.) e nelle Federazioni
internazionali
4
; tale collegamento è molto importante, poiché queste organizzazioni
internazionali dettano a loro volta norme che devono essere applicate a livello
nazionale: in particolare, ad esempio, gli statuti delle Federazioni internazionali
esplicitamente subordinano l’ammissione delle Federazioni nazionali all’impegno di
rispettare le regole (di natura, dunque, contrattuale) che vengono di volta in volta
adottate
5
.
A fronte di una siffatta struttura, è facile comprendere come i rapporti
giuridici nascenti in ambito sportivo trovino, dunque, una complessa
3
La legge è stata abrogata dal d. lgs. 23 luglio 1999, n. 242 (Riordino del Comitato Olimpico
Nazionale Italiano - CONI) che ha nuovamente disciplinato l’assetto del CONI.
4
Lo stesso d. lgs. 242/99 afferma che “Il CONI si conforma ai principi dell'ordinamento sportivo
internazionale, in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi emanati dal Comitato Olimpico
Internazionale” (art. 2) e la legge 17 ottobre 2003, n. 280 dispone che “la Repubblica riconosce e
favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento
sportivo internazionale facente capo al Comitato Internazionale Olimpico”.
5
L’esistenza di un ordinamento sportivo mondiale che si articola in enti internazionali (es. CIO) e
nazionali (es. CONI), i quali a loro volta si compongono di Federazioni con riguardo alle varie
attività agonistiche (es. Fédération Internationale de Football Association – FIFA, Union Européenne
de Football Association – UEFA, Federazione Italiana Giuoco Calcio – FIGC), ha la finalità di
garantire una regolamentazione uniforme degli aspetti specifici dei singoli sport, così da permettere il
confronto tra atleti e squadre di Paesi diversi.
7
regolamentazione, composta da disposizioni normative nazionali e comunitarie,
regole delle organizzazioni statali e regole delle organizzazioni internazionali.
L’intento di quest’opera è, allora, quello di esaminare la problematica della
libera circolazione degli sportivi professionisti nel territorio comunitario attraverso
un’analisi delle fonti di legge nazionali, delle fonti comunitarie, delle norme poste
dall’ordinamento sportivo e delle decisioni giurisprudenziali intervenute per opera
della Corte di giustizia dell’Unione europea e dei giudici italiani; libera circolazione
che verrà in luce attraverso due aspetti, ossia la gestione del rapporto di lavoro e il
trasferimento dello sportivo da una società all’altra
6
.
Si vedrà che l’attività lavorativa prestata dagli sportivi professionisti ha
comportato tutta una serie di problematiche anche a causa della citata pluralità degli
ordinamenti: quello sportivo, infatti, conscio della propria autonomia, aveva posto
negli anni numerose norme volte a limitare i trasferimenti degli sportivi da una
società all’altra e a favorire, attraverso la previsione di un limite numerico
all’impiego degli stranieri nelle competizioni, gli atleti gareggianti nello Stato di cui
erano cittadini.
Siffatte tutele trovavano origine, senza ombra di dubbio, nella necessità di
garantire e di corroborare il livello agonistico nazionale nei vari sport al fine del
raggiungimento di prestigiosi obiettivi a livello internazionale; tuttavia, esse
cozzavano con i principi di uguaglianza e non discriminazione posti dalle
disposizioni nazionali e (soprattutto) comunitarie e ciò ha comportato l’intervento
deciso, anche se un po’ tardivo, della giurisprudenza e dei vari legislatori.
6
Questo duplice aspetto della libertà di circolazione nell’Unione europea costituisce anche la linea
argomentativa e risolutiva seguita dalla Corte di giustizia nella sentenza Bosman.
8
Per entrare nel dettaglio, il divieto di discriminazione tra cittadini degli Stati
membri a causa della loro nazionalità (art. 12, ex 6), la libera circolazione dei
lavoratori nei Paesi CE (art. 39, ex 48) e la libera prestazione dei servizi (art. 49, ex
59) costituiscono tre principi fondamentali introdotti dal Trattato CE in ambito
giuslavoristico
7
; la Corte di giustizia spesso è intervenuta per verificare la
compatibilità di alcune norme dell’ordinamento sportivo con tali principi
8
e a
seguito delle sue pronunce gli ordinamenti sportivi e statali sono dovuti intervenire
impostando una regolamentazione che fosse rispettosa del dettato comunitario.
In Italia, ad esempio, a seguito della sentenza Bosman è stato emanato il d.l.
20 settembre 1996, n. 485 (Disposizioni urgenti per le società sportive
professionistiche)
9
, con cui il legislatore nazionale ha messo mano su una parte della
disciplina posta dalla legge 23 marzo 1981, n. 91.
Questo è solo uno dei vari esempi di trasformazione del diritto sportivo cui si
è assistito nel corso degli ultimi anni e di cui parleremo nel corso dell’opera.
7
Cfr. M. SANINO, Diritto sportivo, Padova, Cedam, 2002, pp. 38 e ss.
8
V. a titolo di esempio: Corte Giust. CE, 12 dicembre 1974, Walrave, causa 36/74, in Foro it. 1975,
IV, p. 81, in cui la Corte ha riconosciuto che l’attività sportiva è disciplinata dal diritto comunitario
solo in quanto configurabile come attività economica; Corte Giust. CE, 14 luglio 1976, Donà, causa
13/76, in Foro it., 1976, IV, p. 361; Corte Giust. CE, 15 dicembre 1995, Bosman, causa C-415/93, in
Riv. Dir. Sport., 1996, p. 541.
9
Il decreto legge è stato poi convertito con legge 18 novembre 1996, n. 586, la quale lo ha anche
parzialmente modificato.
9
CAPITOLO I
PROFILI GENERALI
1. Il lavoro sportivo e la legge 23 marzo 1981, n. 91
1.1. La situazione normativa antecedente al 1981
La disciplina del lavoro sportivo in Italia è stata per lungo tempo assente,
sebbene, sempre più spesso, venissero portate all’attenzione dei giudici controversie
aventi per oggetto il rapporto di lavoro instauratosi tra gli atleti, gli allenatori o i
direttori sportivi e le società sportive.
La principale problematica
10
che si riscontrava era quella relativa alla
qualificazione da dare a tale rapporto, ossia se si fosse in presenza di lavoro
10
La prima controversia sul punto, in Italia, è da ricondursi alla tragedia di Superga, in cui persero la
vita numerosi giocatori del Torino. In quell’occasione il Tribunale di Torino considerò il contratto
quale contratto d’opera, riconducibile per natura a quello tra un impresario di pubblici spettacoli e gli
10
subordinato o piuttosto di lavoro autonomo; come sappiamo, la risposta porta a
conseguenze ben diverse dal punto di vista delle tutele riconosciute e della
circolazione dei lavoratori.
Nel tempo, con riguardo a ciò, si sono diffuse tre linee di pensiero differenti
in giurisprudenza e dottrina:
1. La tesi maggioritaria riconosceva nel rapporto tra atleta e società sportiva
una fattispecie tipica sussumibile nell’art. 2094 c.c.
11
Giurisprudenza e dottrina vi riscontravano di volta in volta quelli che
erano (e sono tuttora) considerati gli elementi caratterizzanti la
subordinazione generalmente considerata: onerosità, estraneità al rischio,
subordinazione ed eterodeterminazione della prestazione lavorativa,
inserimento del lavoratore nell’impresa, collaborazione e continuità.
2. Una tesi minoritaria
12
considerava, invece, il rapporto intercorrente tra
atleta e società sportiva come di lavoro autonomo e più precisamente
come contratto d’opera ex art. 2222 c.c.
artisti. Il Tribunale negò che il calciatore fosse un bene della società di appartenenza e di
conseguenza la morte dello stesso per responsabilità di un terzo (il vettore) non poteva costituire
violazione di un interesse, tutelato ex art. 2043 c.c., della società, quale datore di lavoro, e non poteva
quindi dare luogo ad un risarcimento a favore di questa. Successivamente la Corte di Cassazione ha
sovvertito tale impostazione, sostenendo che l’essenza giuridica del rapporto nei suoi tratti essenziali
fosse quella di un contratto di lavoro subordinato.
11
Cfr. per la dottrina C. GIROTTI, Il rapporto giuridico del calciatore professionista, in Riv. Dir.
Sport., 1977, 183 ss.; GERACI, Natura del rapporto fra società calcistica e giocatore, in Riv. Dir.
Sport., 1971, 262. In giurisprudenza per tale indirizzo cfr. Corte Cass. 29 marzo 1978, n. 1459, in
Giust. Civ., 1978, I, 1280; Corte Cass., Sez. Un., 26 gennaio 1971, n. 174.
11
Lo sportivo, infatti, non poteva essere ritenuto estraneo al rischio
dell’impresa, subendo anzi direttamente gli esiti negativi delle
competizioni; inoltre, la c.d. subordinazione in senso tecnico, per le
modalità con cui veniva esercitata l’eterodeterminazione della
prestazione, non doveva essere considerata come elemento sufficiente per
far ricadere il rapporto nell’alveo del lavoro subordinato
13
.
3. Un terzo orientamento interpretativo si discostava, infine, dai precedenti
vedendo nel rapporto di lavoro sportivo un rapporto atipico non
inquadrabile negli schemi tipici dell’ordinamento statale, e disciplinabile
quindi dagli artt. 1322 e 1323 c.c.
L’argomento più forte, portato a giustificazione dell’atipicità del
rapporto, non poteva che essere l’esistenza dell’istituto del vincolo
sportivo
14
(vd. infra cap. III § 1). Tale istituto investiva, in pratica, la
società sportiva del diritto di utilizzare in via esclusiva le prestazioni
dell’atleta.
12
Cfr. F. BIANCHI D’URSO, Lavoro sportivo e ordinamento giuridico dello Stato: calciatori
professionisti e società sportive, in Dir. Lav., 1972, I, 396 ss.; GRASSELLI, L’attività dei calciatori
professionisti nel quadro dell’ordinamento sportivo, in Giur. It., 1974, IV, 44
13
La dottrina portava esempi di altre attività, come quella dei cantanti lirici, in cui pur essendoci una
certa eterodeterminazione, questa risultava per lo più ininfluente per la qualificazione del rapporto,
che veniva in ogni caso considerato autonomo.
14
Il vincolo sportivo ha un ruolo particolare nell’ottica della circolazione degli atleti ed è un istituto
totalmente sconosciuto all’ordinamento statale ma con una sua logica, all’opposto, nell’ordinamento
sportivo.
12
A fronte di queste opposte ed incerte correnti interpretative, si arrivò
addirittura ad una situazione di blocco del “mercato calcistico”, quando il Pretore di
Milano stabilì che il contratto di trasferimento di un calciatore da una società ad
un’altra, dietro il pagamento di somme a titolo di indennizzo, violasse la disciplina
sul collocamento (l. 24 aprile 1949, n. 264), che vietava la mediazione privata nella
stipulazione del contratto di lavoro subordinato
15
.
Per risolvere tale situazione e dare più certezza al diritto sportivo, con
particolare riferimento alla qualificazione del rapporto di lavoro, prima del 1981,
furono adottati alcuni provvedimenti legislativi di rilevante importanza, e tra tutti il
d. l. 14 luglio 1978, n. 367 (“Interpretazione autentica in tema di disciplina
giuridica dei rapporti tra enti sportivi ed atleti iscritti alle federazioni di
categoria”)
16
che escluse l’applicazione delle norme sul collocamento per gli atti di
acquisto e trasferimento degli atleti e dei tecnici stipulati da associazioni o società
sportive.
Tuttavia, nonostante questi interventi del legislatore, si sentiva sempre più la
necessità dell’emanazione di una legge che definisse e disciplinasse in modo chiaro
il rapporto di lavoro sportivo e si arrivò finalmente alla legge 23 marzo 1981, n. 91.
15
Cfr. Pret. Milano, 7 luglio 1978, in Foro it., 1978, II, p. 319.
16
Questo decreto, secondo una modalità di lettura prevalente, affermava, inoltre, che il rapporto di
lavoro sportivo, anche se riguardante gli atleti professionisti, non era di lavoro subordinato e la sua
regolamentazione sostanziale era riservata all’ordinamento sportivo. Tuttavia non mancarono
interpretazioni che ne limitarono la portata delle novità, riducendo il tutto ad una semplice specialità
del rapporto e non ad una sua atipicità.
13
1.2. Legge n. 91 e specialità del regime del lavoro sportivo
Con l’adozione della legge 23 marzo 1981, n. 91, si pose fine alla situazione di
precarietà che si era venuta a creare a causa delle notevoli divergenze d’opinione,
che avevano fino ad allora coinvolto dottrina e giurisprudenza.
Questa legge non è stata da tutti benevolmente accolta, e la critica che più
spesso le è stata mossa è quella di non aver tenuto sufficientemente conto degli
aspetti, delle caratteristiche e delle esigenze di sport, soprattutto individuali, diversi
dal calcio
17
.
Ciononostante si deve partire da essa per esaminare e comprendere gli aspetti
dell’impiego e della circolazione degli sportivi professionisti, poiché a distanza di
quasi 30 anni rimane la principale fonte normativa nel settore del lavoro sportivo.
La legge 23 marzo 1981 n. 91, contenente “Norme in materia di rapporti tra
società e sportivi professionisti”, è divisa in quattro capi: il primo (artt. 1-9) relativo
allo “Sport professionistico”; il secondo (artt. 10-14) disciplinante l’attività e il
funzionamento delle “Società sportive e Federazioni Sportive Nazionali”; il terzo
(art. 15) comprendente “Disposizioni di carattere tributario”; il quarto (artt. 16-18)
con “Disposizioni transitorie e finali”.
L’art. 1 sancisce il principio della libertà di esercizio dell’attività sportiva
18
,
svolta sia individualmente che collettivamente. Viene così stabilito che non ci
possono essere intromissioni, né da parte dell’ordinamento sportivo né da parte di
quello statale, volte a limitare tale esercizio. Nella sostanza, però, la norma risulta di
17
Cfr. G. VIDIRI, Il lavoro sportivo tra codice civile e norma speciale, in Riv. It. Dir. Lav., I, 2002,
p. 41.
18
Trattasi, ovviamente, di una mera norma programmatica che riprende analoghe previsioni
contenute anche in dichiarazioni comunitarie e atti di organismi sportivi internazionali.
14