5
fondamentali aspetti del lavoro dei fanciulli che erano stati trattati in
quasi tutti gli altri Stati europei, (si pensi al lavoro festivo, ai limiti
d’età per l’ammissione al lavoro ecc.).
L’inefficacia di questa legge fu subito evidente, perché non era
in grado di prestare la tutela dovuta al lavoro dei fanciulli, ed anche
perché fu oggetto di numerosi abusi, inoltre non mancarono deroghe
ed eccezioni alla sua applicazione, e lo Stato non si preoccupò affatto
di nominare un corpo speciale d'ispettori che garantissero la sua
attuazione.
Prima che lo Stato intervenisse ad integrazione di un disegno
legislativo così carente sono trascorsi sedici anni, durante i quali si è
assistito alla crescita del movimento femminile, e all’inasprimento
delle lotte operaie, che hanno mutato notevolmente l’aspetto sociale
dell’epoca.
Fu poi grazie all’impegno del Partito socialista, che si fece
promotore di una campagna a favore di una legislazione “protettiva”,
che si giunse, nel 1902, ad una nuova legge (nota come legge
Carcano, dal nome del ministro presentatore) di tipo “igienico
sanitaria”, tendente a regolare in maniera unitaria il lavoro delle donne
e dei fanciulli.
(2)
Si giunse all’approvazione di questa legge anche grazie ai
grandi industriali soprattutto cotonieri, i quali avevano capito che per
sconfiggere la concorrenza dei piccoli produttori (la cui forza stava
nella speculazione a danno delle donne e dei fanciulli) occorreva
preservare il lavoro degli operai, attraverso una regolamentazione di
tutela
La legge 19 giugno 1902, n. 242, ad imitazione di precedenti
esperienze straniere, vietava alle donne di qualsiasi età i lavori
sotterranei per ragioni morali e sociali; proibiva l’impiego delle donne
minorenni nei lavori pericolosi e insalubri determinati con decreto
reale. Per le donne minorenni era prescritto l’obbligo di un libretto e
di un certificato medico, per essere ammesse al lavoro; inoltre
chiunque avesse alle proprie dipendenze donne di qualsiasi età, era
tenuto a farne in ogni modo regolare denuncia. Si limitava a dodici ore
giornaliere l’orario massimo di lavoro per la manodopera femminile,
prescrivendosi altresì un intervallo di due ore alle donne di qualsiasi
età.
Secondo la nuova normativa, solo le donne minorenni non
potevano lavorare di notte; il legislatore, infatti, aveva previsto di
procedere lentamente, limitando solo alle maggiorenni il lavoro
(2)
Ampi riferimenti in, M. De Cristofaro, “Tutela e/o parità. Le leggi sul lavoro femminile tra protezione
ed uguaglianza”, Cacucci editore, Bari, 1979.
6
notturno, in quanto se la norma fosse stata estesa, subito, a tutte le
donne, ne avrebbe risentito non solo l’industria cotoniera, ma in
genere tutti quegli apparati industriali che non erano in grado di
sopportare una norma di questo genere.
Nelle fabbriche in cui lavoravano almeno 50 operaie, era
obbligatoria l’istituzione di una camera d’allattamento, e comunque
doveva essere consentito l’allattamento sia nella camera annessa allo
stabilimento, sia permettendo alle nutrici di uscire dalla fabbrica nei
modi e nelle ore stabilite dal regolamento interno.
Ma la L. 242/1902 riveste un’importanza notevole per aver
introdotto il “congedo di maternità” di un mese dopo il parto,
riducibile eccezionalmente a tre settimane. Durante il periodo di
riposo post - partum, però alla lavoratrice non era assicurata alcuna
retribuzione, né tanto meno era garantita la conservazione del posto di
lavoro.
La rivendicazione di un congedo di maternità era da tempo al
centro di molte richieste, in numerosi congressi operai. Un grande
impulso alla risoluzione di quest’affannoso problema fu dato dalla
Kuliscioff e dalla Maijno Bronzini, che per molti anni rivendicarono
la tutela delle lavoratrici sia prima che dopo il parto, nonché
l’istituzione di Casse di maternità che non rendessero vani i benefici
della legge.
Questa legge, che pure è nata da un’esigenza fortissima, e dal
bisogno di risolvere in parte i numerosi problemi nati
dall’occupazione femminile nell’industria, presentava dei difetti tali
da farla apparire del tutto misera, se non addirittura ingiusta.
La sua applicazione era affidata al Ministro dell’Agricoltura,
dell’Industria e del Commercio, che avrebbe dovuto esercitare la
necessaria vigilanza per mezzo degli Ispettori dell’industria. La
violazione di tali disposizioni comportava solo l’erogazione delle
sanzioni pecuniarie, e, trattandosi di ammende, l’imputato poteva far
cessare il corso dell’azione penale pagando, prima dell’apertura del
dibattimento, una somma corrispondente al massimo della pena
stabilita per la contravvenzione commessa.
Questa legge, inoltre, offriva una scarsa tutela alle donne, in
quanto non teneva conto del lungo periodo di gravidanza, in cui la
madre e il bambino sono esposti a numerosi pericoli, proprio a causa
del lavoro, della fatica, e delle sostanze tossiche di lavorazione.
(3)
Eppure, il Parlamento si era rifiutato di accogliere il riposo
innanzi al parto, da più parti invocato.
(3)
G. Casalini, “La via crucis della cassa di maternità” in Critica sociale, 1910, 7.
7
I motivi di rifiuto furono principalmente due, la mancanza di
casse di maternità, e l’impossibilità di precisare l’epoca della
gravidanza.
Ma questa legge conteneva in sé una contraddizione, poiché
obbligava al riposo, togliendo però ogni mezzo per effettuarlo con
piena efficacia, quei mezzi indispensabili per vivere, per riposare, e
per non costringere le donne stesse a violare la legge intesa a tutelarle.
Questo problema fu affrontato solo anni dopo, con l’istituzione
delle Casse di maternità (L. 520/1910) amministrata dalla Cassa
nazionale di previdenza.
La legge del 1902 si poneva come obiettivo la protezione delle
donne sul lavoro, essenzialmente per salvaguardare la loro capacità di
procreazione.
Se da un lato le disposizioni rispondono alla necessità di
tutelare la salute delle donne occupate nell’industria, dall’altro
tengono il dovuto conto delle condizioni dell’industria, al fine di non
incepparne lo svolgimento con restrizioni eccessive.
Ed è innegabile che l’intervento protettivo a favore della
lavoratrice già celasse anche un intento limitativo dell’ingresso della
donna nell’attività produttiva. Ciò anche in base al dilagare, in seno al
Governo, della convinzione che la donna fosse naturalmente inferiore,
che la maternità fosse la sua unica funzione sociale.
Si cercava, cioè, di riportare la donna fra le pareti domestiche
specialmente con lo scopo di riequilibrare il rapporto fra manodopera
femminile e maschile (quest’ultima più onerosa e quindi più
svantaggiata dalla concorrenza); l’operazione risultò semplice e fu
anche ben recepita dalla classe operaia, proprio per il pregiudizio per
cui la donna ha per scopo quello di essere madre di famiglia.
La legislazione protettiva ponendo dei limiti all’utilizzazione in
fabbrica delle donne, forniva le basi per quel processo che avrebbe
inevitabilmente, portato alla loro espulsione dalla produzione o quanto
meno, alla loro marginalizzazione nel mercato del lavoro.
Questa tendenza fu accentuata dall’esclusione, dal campo di
applicazione della legge, del lavoro a domicilio e familiare, del lavoro
agricolo, e dei luoghi di lavoro in cui erano impiegati meno di cinque
operai.
Le violazioni della legge furono numerose e spesso legittimate
da regolamenti e norme transitorie.
Un esempio è la circolare n. 12612/18, del 1° Luglio 1903,
giorno d’entrata in vigore della nuova legge (L. 242/1902), che il
Ministro diramò ai Prefetti con cui erano concesse eccezioni a favore
dell’industria dello zolfo, della seta e del cotone.
8
Successivamente la Pretura di Semmantino, il 7 Ottobre 1903,
precisò che la circolare non aveva valore abrogativo nei confronti
della legge, ma il suo scopo era quello di curare degli aggiustamenti
della legge di modo ché la sua attuazione fosse più blanda e meno
drastica, proprio per quelle famiglie che contavano sul lavoro dei loro
fanciulli e delle loro donne.
(4)
Spesso fu proprio la Magistratura, specie quella delle Corti di
merito ad intervenire affermando la non applicabilità della legge nei
confronti di particolari attività industriali, anche andando contro la
tendenza della Cassazione. Una questione molto dibattuta dalla
giurisprudenza fu quella dell’applicabilità della legge alla cernita e
ammassatura di bozzoli. La Pretura di Stradella il 9 agosto 1905 si
espresse in senso negativo: “Il disposto delle legge si applica soltanto
ad opifici o laboratori che hanno per oggetto la trasformazione di una
materia prima per la fabbricazione di un prodotto industriale, ma non
può estendersi alle piccole aziende che compiono solo atti di
commercio o di completamento di un prodotto, come sarebbe la
essiccazione dei bozzoli.
(5)
I Pretori tendevano ad accordare facili e molteplici attenuanti ai
trasgressori trattandosi di una legge nuova ed economicamente
dannosa, specie per l’industria zolfiera.
La giurisprudenza si dibatteva nella distinzione tra attività
intellettuali ed attività manuali, riconoscendo solo alle ultime la
protezione accordata dalla nuova legge. Il caso più interessante fu
quello delle telefoniste, cui toccò di essere definite come lavoratrici
prevalentemente “intellettuali”, a dispetto della qualità delle mansioni
della consistenza dei salari, certo più vicini a quelli operai che a quelli
impiegatizi.
La legge non fu accolta con entusiasmo dal Partito Socialista,
che pur tanto si era impegnato in questa battaglia. Per quanto i limiti
di questa legge fossero già evidenti, ancora più deludenti furono i
risultati che si registrarono a medio e lungo termine, visto che non si
ottenne altro che restringere l’occupazione, specie dell’operaia madre.
Dunque, quella stessa legge che era nata per regolarizzare la
tutela della donna nella produzione, aveva finito col ritorcersi contro,
comportando in alcuni casi l’esclusione ed emarginazione della
manodopera femminile.
(4)
v. M.A.I.C., Notizie sull’applicazione della legge 19 giugno 1902, 27, tratta da M. de Cristofaro,
“Tutela e/o parità” Cacucci editore, Bari, 1979, 65.
(5)
La sentenza è tratta da “Notizie sull’applicazione della legge 19/6/1902", 72.
9
2. Dal regime fascista alla Costituzione della Repubblica
Italiana.
La seconda fase della storia della legislazione italiana sulle
lavoratrici madri si apre parecchi anni dopo la legge Carcano.
Già l’art. 4 della Convenzione OIL n. 3 del 1919 aveva
enunciato il principio del divieto di licenziamento delle lavoratrici
durante i periodi di astensione dal lavoro, che erano il periodo di
astensione obbligatoria (sei settimane dopo il parto), ed il periodo di
astensione facoltativa (sino dalla settima settimana antecedente la data
probabile del parto).
La Convenzione non era stata ancora ratificata, ma il legislatore
italiano sentì ugualmente la necessità di tradurre il principio in una
disposizione a favore delle impiegate, non comprese nella sfera di
applicazione della legge del 1902. L’art. 6 r.d.l. 1825/1924, disponeva,
infatti, che per i casi d’interruzione del servizio per gravidanza e
puerperio, il principale avrebbe conservato all’impiegata il posto per
tre mesi.
Prendeva dunque forma, ma solo per le impiegate, la
configurazione della maternità come causa legale di sospensione del
rapporto.
Il passo decisivo nella direzione dell’unificazione della
disciplina giuridica della maternità, per le operaie e per le impiegate,
nonché dell’articolazione di quella disciplina nei suoi due istituti
fondamentali (l’astensione dal lavoro, il diritto alla conservazione del
posto), fu compiuto dal legislatore fascista, attraverso l’emanazione di
una serie di provvedimenti.
In realtà, è comune ritenere che il periodo fascista sia stato
caratterizzato da una politica antifemminile, tendente ad escludere le
donne dalla vita politica e sociale, e a ridurre il loro ruolo subalterno,
dato che a loro il regime aveva semplicemente affidato il ruolo di
procreare “generazioni di pionieri e di soldati necessari alla difesa
dell’impero”.
(6)
Tuttavia si può interpretare la politica fascista anche come
politica di tutela, in quanto aveva affidato alle donne il compito
importantissimo d’espansione demografica.
Lo stesso Mussolini aveva affermato che l’ossessiva campagna
demografica, non era solo fondamentale, ma pregiudiziale per
raggiungere la potenza politica, e quindi, economica e morale del
paese.
(6)
B. Mussolini, Discorso alle donne fasciste, 20 giugno 1937, pubblicato in, M. Ballestrero, “Dalla tutela
alla parità”, Il mulino, Bologna, 1979, 57
10
L’appoggio più incondizionato alla battaglia demografica venne
dalla chiesa e dal mondo cattolico, che ritrovò in essa gran parte del
proprio pensiero. La donna pensata dai fascisti era quella voluta dai
cattolici, una donna spogliata d’ogni velleità d’emancipazione e
privata del lavoro extra domestico, rinchiusa nella famiglia.
(7)
Ma le concrete misure demografiche furono scarse e di poco
peso; questo risultato era piuttosto prevedibile, dal momento che il
regime si proponeva come obiettivo principale quello di rimandare le
donne a casa, soluzione questa che non poteva essere accolta senza
turbare gli interessi degli industriali. D’altro canto durante il regime
fascista emergono anche numerosi interventi di carattere sociale,
come le esenzioni fiscali e ferroviarie, a favore delle famiglie
numerose, e i premi di nuzialità e di natalità.
Nel corso del ventennio furono emanati dei provvedimenti sul
lavoro delle donne e dei fanciulli, tra cui la legge 26 aprile 1934, n.
653, entrata in vigore nel 1936; provvedimenti per la tutela delle
lavoratrici madri, il R.D.L. 13 maggio 1929, n. 850, convertito nella
legge 2 luglio 1929 n. 1289; il R.D. 28 agosto 1930, n. 1358, norme
d'attuazione della legge del 1929; il R.D.L. 22 marzo 1934, n. 654,
convertito nella legge 5 luglio 1934, n. 1347; il R.D. 12 marzo 1938,
n.2237, norme d'attuazione della legge del 1934.
Tra tutte emergono le leggi del 1934, perché sono riuscite,
grazie all’organicità del disegno con cui sono state previste, a
rimettere ordine nella normativa precedente, modificandola ed
adeguandola alle esigenze politiche ed economiche del momento.
La L. 653/1934 era caratterizzata dall’accomunamento delle
donne e dei fanciulli in un’unica normativa d’ordine pubblico,
proseguendo, in pratica, la politica legislativa precedente, inoltre
rappresentava un elemento di novità, poiché estendeva le sue norme a
tutti i luoghi di lavoro, mentre prima restavano esclusi il lavoro
agricolo e il lavoro a domicilio.
Queste leggi, sebbene nascono con l’intenzione di voler
regolare compiutamente il lavoro femminile, non celano però l’intento
del legislatore di quell’epoca di propagandare la campagna
demografica. Era opinione diffusa che le lavoratrici dovessero essere
tutelate, ma la tutela doveva assumere un carattere assistenziale,
igienico-sanitario, in vista della loro funzione di madri.
E’ innegabile che il legislatore fascista attraverso le sue norme
si sia fatto promotore di una legislazione più adeguata alla tutela delle
(7)
Ampi riferimenti in M. V. Ballestrero “Dalla tutela alla parità”, Il mulino, Bologna, 1972, 63.
11
donne, rispetto al precedente Stato liberale ma, come già si è detto, le
leggi fasciste non celano il loro obiettivo finale, che è quello di
scoraggiare l’occupazione extra domestica delle donne, imponendo
maggiori oneri a tutti gli imprenditori che avessero alle loro
dipendenze delle donne.
Il regime fascista aveva realizzato un sistema che era protettivo
e disincentivante allo stesso tempo, equiparando il lavoro femminile a
quello delle c. d. mezze forze, vale a dire i fanciulli e gli adolescenti.
Nessuna di queste norme garantiva le lavoratrici dai
licenziamenti, a cui da sempre erano esposte, e nessuna norma sanciva
il loro diritto ad essere qualificate e retribuite come gli uomini.
Durante tutto il ventennio fascista, gli interventi legislativi di
carattere protettivo furono accompagnati da un numero sempre
crescente d’interventi a carattere “espulsivo”.
Questi interventi, che rappresentano l’aspetto più brutale e più
noto del regime fascista, tendevano a limitare l’occupazione
femminile extradomestica.
I più noti provvedimenti di questo genere tesero a indebolire
l’occupazione femminile nella pubblica amministrazione. La più
colpita fu la scuola, che da sempre era il settore in cui erano impiegate
in numero maggiore le donne. Il R.D. 6 maggio 1923, n. 1054, e il
R.D.1 luglio 1940, n. 899 impedivano alle donne di essere presidi di
scuole o istituti di istruzione media; il R.D. 9 dicembre 1926, n. 2480,
escludeva le donne dall’insegnamento della storia, dalla filosofia,
dall’economia nei licei classici e scientifici e negli istituti tecnici.
Inoltre i Sindacati fascisti avevano provveduto a mantenere i
salari delle donne più bassi rispetto a quelli maschili del 50%, e
avevano concordato la sotto classificazione del lavoro femminile.
In conclusione si può dire che tutte le leggi fasciste si erano
preoccupate più della disoccupazione maschile che dell’eccessivo
sfruttamento delle donne, ponendo in essere una legislazione
decisamente restrittiva, tendente a limitare l’utilizzo delle c. d. mezze
forze e destinata a favorire il passaggio delle donne da occupate a
casalinghe, riducendo, così, copiosamente il numero dei disoccupati.
12
3. L’art. 37 della Costituzione.
Lasciatasi alle spalle il regime fascista, la discussione circa il
lavoro delle donne, ritorna a farsi più accesa.
Intorno ad essa si era aperto un grande confronto, tra chi
(specialmente le forze di sinistra) poneva la questione
dell’emancipazione insistendo sull’importanza prioritaria del diritto al
lavoro, e chi, invece, affermava la priorità e l’insostituibilità della
funzione familiare della donna.
La questione non era affatto marginale, il lavoro contribuisce
alla specifica identità della donna come individuo, ma d’altro canto
esso crea un conflitto tra la donna lavoratrice e la donna sposa e
madre.
La Costituzione italiana del ’48, finalmente segna una svolta nel
processo di liberazione della donna e di parificazione sociale dei due
sessi. Per la donna si tratta di veder riconosciuti i suoi diritti
d’individuo, obiettivo in cui lo Stato liberale pre-fascista aveva fallito,
e su cui si era innestata la discriminazione fascista.
Diventa, dunque, compito della Repubblica “rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà
e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione politica, economica e
sociale del paese.
La percezione della situazione di marginalità del lavoro
femminile ha motivato l’introduzione, peraltro condivisa da tutte le
principali componenti dell’assemblea, di una norma apposita
sull’argomento, intesa a precisare la regola di parità tra i due sessi.
Ma è indubbio che la precarietà delle soluzioni normative in
tema di lavoro femminile si radica nelle strutture del sistema socio –
economico e che i problemi del lavoro della donna non si possono
risolvere senza incidere profondamente su di esse.
Per affrontare adeguatamente la questione femminile sul piano
normativo, come su quello sociale, occorre riformulare tutti gli
interventi in funzione dell’obiettivo dell’uguaglianza.
Tale prospettiva supera il solo riferimento al principio di parità
formale dell’art. 3, comma 1, della Costituzione, riconnettendosi alla
direttiva dell’uguaglianza sostanziale dell’art. 30, comma 2.
L’ampiezza dell’obiettivo egalitario perseguito dal costituente, è
confermata dall’ultima statuizione dell’art. 37, comma 1, dove il
problema affrontato va oltre l’ambito della parità formale; la norma
cerca, infatti, di favorire situazioni che rendano fra loro compatibile,
per la donna, attività di lavoro e funzione familiare, superando il
13
rapporto tradizionale esistente fra i due ruoli, di subordinazione
sostanziale del primo rispetto al secondo.
L’art. 37, comma 1, contiene due diverse disposizioni di
principio: che la donna ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, la
stessa retribuzione rispetto all’uomo; che le condizioni di lavoro
devono consentirle l’adempimento dell’essenziale funzione familiare e
realizzare una specifica, adeguata protezione a favore della madre e
del bambino.
In tal modo la norma costituzionale tiene conto di soddisfare le
due fondamentali esigenze, che potrebbero apparire anche
contrastanti, dell’uguaglianza di trattamento con gli uomini e della
speciale considerazione delle condizioni della donna sul lavoro.
Si tratta di due modi diversi di concepire la donna, da un lato si
pone l’accento sull’individuo donna, che ha diritto alle stesse libertà e
alle stesse prospettive dell’individuo uomo, dall’altro si punta sul
ruolo specifico della donna nella famiglia e di conseguenza nella
società.
Occorre precisare che la norma in questione non vuole
proclamare l’esigenza di una protezione differenziata e specifica del
lavoro femminile in quanto tale, che potrebbe considerarsi inadeguata,
com’è accaduto in passato, quando la disciplina giuridica del lavoro
femminile precludeva alle donne una serie di lavori, o condizionava in
vario modo l’esplicazione del lavoro femminile.
L’art. 37 della Costituzione si prefigge di realizzare un
programma di interventi pubblici diretti a rimuovere l’effetto delle
disuguaglianza, che può derivare dall’adempimento della funzione
familiare.
(8)
“La norma indirizza il legislatore a favorire situazioni (anche
strutturali) che rendano fra loro compatibili, per la donna, attività di
lavoro e funzione familiare, superando in ciò il tradizionale rapporto
di subordinazione esistente fra i due ruoli.”
(9)
L’unica indicazione specifica a proposito della donna nell’art.
37, è riferita all’esigenza che le condizioni di lavoro le consentano
l’adempimento dell’essenziale funzione familiare e assicurino alla
donna e al bambino un’adeguata protezione.
Fu proprio la soluzione di questo punto che fece scatenare in
sede costituente un vivace dibattito, che traeva origine dalle profonde
divergenze sul modo di concepire la famiglia, e il ruolo della donna al
suo interno.
(8)
G. Giugni, “La disciplina giuridica del lavoro femminile”, 114.
(9)
T. Treu, “Lavoro femminile e uguaglianza”, De Donato editore, Bari, 1977, 35.
14
Tutta la discussione ruotò attorno all’aggettivo “essenziale”
riferito alla funzione familiare della donna introdotto dall’On. A.
Moro, nell’ambito della Prima Sottocommissione.
(10)
L’On. Moro intese con l’espressione da lui usata “togliere di
mezzo la questione della gerarchia, ritenendo ci fosse una perfetta
continuità della donna sia nella vita sociale che in quella familiare”.
Respingeva in questo modo le riserve della sinistra, che dopo
aver tentato, ma senza successo, di eliminare il termine “essenziale”
dal testo della norma, mirava a scongiurare il pericolo di simili
interpretazioni restrittive; a queste posizioni si aggiungono le
precisazioni dei relatori di maggioranza, per i quali la funzione della
donna nella famiglia non va intesa come “esclusiva”
(11)
, né come “più
essenziale di quella dell’uomo”., ma come “ad essa connaturata” e in
assoluto di “essenziale valore sociale” al pari della funzione materna.
(12)
La Commissione ha approvato l’adozione della parola
“essenziale” con voti 7 favorevoli e 4 contrari, pertanto il II comma
dell’art. 37 risulta così formulato “alla donna lavoratrice sono
assicurati tutti i diritti che spettano al lavoratore e in particolare eguale
retribuzione per eguale lavoro. Ad essa sono inoltre garantite quelle
speciali condizioni che le consentono di adempiere nello svolgimento
del lavoro la sua essenziale missione familiare.”
L’unico punto certo nell’iter formativo della norma resta
l’obiettivo di realizzare la piena compatibilità tra le due situazioni,
quella familiare e quella di lavoro in capo alla donna.
In altre parole la norma sancisce che le condizioni di lavoro
devono consentire alla lavoratrice l’adempimento della funzione
familiare-materna, senza assumere alcun atteggiamento di sfavore
verso le spose o le madri, senza che la donna debba essere costretta a
scelte drammatiche o forzate. Non può quindi ricavarsi dalla lettura
dell’art. 37, comma I, Cost. alcuna preferenza, ma neppure alcun
divieto di cumulo fra lavoro extradomestico e responsabilità familiari.
Ne consegue, che la legislazione protettiva della donna si
giustifica solo perché la donna, contro i particolari condizionamenti
storico sociali esistenti, sia restaurata in posizione d’assoluta parità
rispetto all’uomo nel rapporto di lavoro e nella possibilità di usufruire
di quel diritto al lavoro, che è attribuito a uomini e donne e garantito
dall’art. 4 della Costituzione.
(10)
Atti Assemblea Costituente, Prima Sottocommissione, seduta dell’8 ottobre 1946, 503 ss.
(11)
Persico, Intervento all’Assemblea Costituente, 10 maggio 1947, 1575.
(12)
Fanfani, Intervento alla III Sottocommissione, 13 settembre 1946, in La Costituzione della
Repubblica, VIII, 2111.
15
Dalla lettura coordinata degli artt. 3, 4 e 37 della Costituzione
non può che ricavarsi l’idea che la donna ha diritto – dovere di
esercitare un’attività professionale come l’uomo, su un piano di
perfetta uguaglianza, senza discriminazioni basate sul sesso, ossia
senza che stati personali e familiari, finiscano per comprimerla e
limitarla.
Insomma, l’art. 37 può essere interpretato nel senso che esso
favorisce, attraverso il mutamento delle condizioni di lavoro,
l’inserimento e la permanenza delle donne nel lavoro; così facendo
favorisce anche la trasformazione dell’assetto della famiglia e la
modificazione della posizione, in essa, della donna.
V’è da chiedersi quanto di questa norma abbia trovato
applicazione, e se l’interpretazione “emancipatoria” della norma
costituzionale trovi qualche riscontro nella storia della legislazione sul
lavoro delle donne.
16
4. Attuazione dell’art. 37: la tutela delle lavoratrici madri nella
l. 860; L’accordo sulla parità salariale.
Il proclamato trattamento paritetico del lavoro femminile con
quello maschile, pur avendo segnato un mutamento qualitativo
rilevante nella legislazione e nel costume, ha trascinato con se molti
dubbi e perplessità.
Il testo costituzionale, considerato per certi versi “avanzato”, si
trova ad essere calato in una realtà differente da quella che prospetta,
in una società civile che tende a “collocarsi non tanto nella linea più
avanzata della nuova ideologia costituzionale, quanto su quella meno
evoluta delle strutture statali al momento esistenti.”
(13)
Anche quando le richieste di riforma incalzarono, la scelta
cadde su soluzioni moderate, in modo da non stravolgere
l’ordinamento giuridico preesistente.
Si assiste, così, alla produzione di leggi che hanno di mira la
tutela del lavoro femminile e minorile, su cui sorgono molti dubbi di
compatibilità con l’art. 37 della Costituzione.
Tra queste la L. 860/1950, che, per quanto abbia rappresentato
un’utile innovazione per l’introduzione del divieto di licenziamento
esteso a tutto il periodo di gestazione, nonché fino al compimento di
un anno d’età del bambino, si pone come legge di tutela della donna,
senza considerare il non meno importante obiettivo di rivendicazione
paritaria.
La legge n. 860 del 1950, a cui andava certo il merito di aver
garantito una migliore tutela delle esigenze fisiche ed economiche
delle lavoratrici madri, non era stata in grado di rinnovare la politica
legislativa sul lavoro femminile.
Il demerito maggiore è da attribuire all’incapacità
d’interrompere la continuità con le passate esperienze di legislazione
protettiva.
Mancava una qualsiasi forma di tutela a favore delle lavoratrici
a domicilio e familiari. In questo modo s’incoraggiavano gli
imprenditori a cercare l’utilizzazione di lavoro “non protetto”, nel
quale potevano essere scaricati direttamente sulle lavoratrici gli oneri
connessi alla maternità.
Al di là del divieto di licenziamento, questa norma non era
comunque in grado di assicurare alla donna una vera stabilità sul posto
di lavoro. Essa limitava il suo intervento all’ultimo periodo di
gestazione e alla prime settimane del puerperio, affidando la
(13)
Così E. Cheli, La Costituzione alla svolta del primo ventennio, in “Politica del diritto”, 1971, 1168-
1169.
17
protezione della maternità al rapporto privatistico tra datore di lavoro
e lavoratrice.
La legge non si proponeva d’intervenire né sulle condizioni di
lavoro, né sui servizi sociali, indispensabili per consentire alle donne
d’essere lavoratrici e madri.
Fu proprio a causa di questo mancato intervento riformatore,
che per molte donne avere famiglia continuò a voler dire essere
costrette alla disoccupazione o all’occupazione marginale.
Un’altra questione che negli anni ‘50 interessò le associazioni
femminili, i sindacati e i giuristi, fu la vicenda delle clausole di
nubilato e dei licenziamenti a causa di matrimonio, utilizzate dai
datori di lavoro per cautelarsi contro il matrimonio delle lavoratrici.
Era in uso la pratica, specie alla fine degli anni ’50, di far
sottoscrivere alle lavoratrici, fin dall’epoca dell’assunzione, una lettera
di dimissioni priva di data, con la tacita intesa che quest’ultima
sarebbe stata apposta dal datore di lavoro qualora la dipendente avesse
contratto matrimonio o al momento di una sua accertata maternità.
(14)
Queste clausole sollevarono da più parti ampi dissensi, il
dibattito crebbe di livello e dimensione, si moltiplicarono le denunce
delle lavoratrici, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro,
espresse il suo sfavore contro queste pratiche che contrastavano “con i
principi fondamentali dell’ordinamento giuridico che assicurano a tutti
i cittadini il diritto alla formazione della famiglia e alla lavoratrice
l’adempimento della sua essenziale funzione familiare”.
(15)
A risolvere questi problemi è intervenuta la L. 7/1963, le cui
disposizioni sono sopravvissute alla L. 903/1977, che pure ha
contribuito a modificare notevolmente la legislazione protettiva del
lavoro femminile.
Con la L. 7/1963 sono stati sanciti nuovi ed importanti principi,
applicabili a tutte le lavoratrici dipendenti da enti pubblici e da
imprese private, con esclusione delle sole addette ai servizi familiari e
domestici.
Le clausole di nubilato di qualsiasi genere, contenute nei
contratti individuali, collettivi e nei regolamenti, sono nulle e si hanno
per non apposte: questa prescrizione applica il principio di
conservazione dei negozi giuridici, salvando la validità del contratto
contenente le clausole nulle.
Allo stesso modo sono nulli i licenziamenti per causa di
matrimonio, le dimissioni presentate dalle lavoratrici nello stesso
periodo per cui è prevista la nullità del licenziamento: unica eccezione
(14)
A. Membola, “La donna lavoratrice e il nubilato” in “Lav. Sic. Soc.”, 1960, 102.
(15)
C.N.E.L.. “Osservazioni e proposte per la disciplina legislativa del divieto di licenziamento delle
lavoratrici per causa di matrimonio”, in “Riv. Giur. Lav. Prev. Soc.”, 1962, I, 328.
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è il caso in cui la lavoratrice confermi entro un mese le proprie
dimissioni davanti all’ufficio del lavoro. In questo modo il legislatore
ritiene sia sufficientemente garantita la libera manifestazione di
volontà della lavoratrice.
Il principio d’uguaglianza tra i sessi viene peraltro palesemente
contraddetto e smentito anche dai caratteri arbitrari, diversi per l’uomo
e per la donna, usati nella politica delle assunzioni e degli
avanzamenti nella professione.
Hanno inciso, su questa tendenza, norme e regolamenti della
legislazione sul lavoro, come la legge sul collocamento della
manodopera, la legge n. 264 del 29 aprile 1949, la quale all’art. 10
fissava, prima che la L. 903/1977 lo vietasse, categorie e liste separate
che presuppongono una reale discriminazione.
La discriminazione contro la donna urta però contro il dettato
costituzionale che vieta, inderogabilmente, qualsiasi distinzione per
causa di sesso (art. 3), e sancisce in materia di lavoro la parità di
trattamento (art. 37).
Al ritardo della giurisprudenza nell’applicazione dell’art. 37, fa
riscontro quello del Parlamento nel ratificare le convenzioni OIL e il
disimpegno del governo rispetto alla loro applicazione.
La lotta per la parità di retribuzione fra uomo e donna,
fondamentale per la conquista della pari dignità dei sessi e per la
rivalutazione del lavoro femminile, trovando scarsi appigli nel nostro
Paese, ha colto come punto di riferimento la Convenzione OIL n. 100,
adottata a Ginevra il 29 giugno del 1951, al fine di veder attuare nel
nostro ordinamento il principio già sancito nell’art. 37 Cost.
Un’ulteriore fase di questa lotta venne dalla CGIL, che pose la
rivendicazione del superamento degli scarti fra salari maschili e
femminili, si tratta della c. d. vertenza sul “conglobamento”, che pur
riducendo le differenze salariali, non modifica affatto la situazione
d’inferiorità dell’operaia rispetto all’operaio.
Ma sarà con l’accordo interconfederale del 16 luglio del 1960
che si assiste ad un ridimensionamento di tutta la vicenda.
L’accordo frutto di lunghe trattative, risolve la questione della
discriminazione retributiva, introducendo un inquadramento
professionale non più riferito al sesso, ma basato su categorie
differenziate dai diversi parametri retributivi.
Le donne erano relegate nelle quattro categorie più basse, di
modo che restava, comunque, aperta la discriminazione maggiore,
fondata sull’attribuzione alla forza lavoro femminile di un valore
inferiore a quello della forza lavoro maschile.
La contrattazione collettiva, con un richiamo più o meno
esplicito alla parità di rendimentonella convinzione indimostrata di
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una minore produttività femminile non fa che derogare la regola
d’uguaglianza, in quanto introduce, di fatto, una differenziazione
fondata sul sesso.
Rapportare il criterio di rendimento al solo gruppo delle donne
per giustificare un minor trattamento retributivo, equivale a porre in
essere un’operazione discriminatoria, in quanto basata sull’assunto
(non provato) di una generale inferiorità di tutte le prestazioni svolte
dalla donne rispetto a quelle degli uomini.
Pertanto la regola di non discriminazione richiede che si
distingua sulla base delle sole capacità individuali del singolo (uomo o
donna), misurate con criteri uguali, e non di caratteristiche attribuite al
gruppo.
Finalmente, con la sentenza del 15 luglio 1968, n. 2538
(16)
, la
Corte di Cassazione dichiara che “ai sensi dell’art. 37, I comma, della
Costituzione deve ritenersi presupposto necessario del diritto alla
parità retributiva della lavoratrice, l’espletamento d’identiche funzioni
lavorative, a prescindere da ogni indagine sulla parità di rendimento.”
Questa conclusione appare del tutto logica, in quanto la
Costituzione non poteva sancire una presunzione di minor capacità
della donna; presunzione che avrebbe negato lo stesso principio di
parità che, invece, la norma costituzionale tutelava.
Questa ricostruzione ha evidenziato come la posizione
discriminatoria antifemminile, abbia avuto origine proprio dalla
legislazione protettiva delle lavoratrici madri. Ma ora la maternità non
poteva più essere usata come punto d’attacco alla parità.
La dottrina ha asserito che “La diversità che, di fatto, esiste tra
gli uomini e le donne non deve più essere lo strumento di cui servirsi
per sancire norme discriminatorie nei confronti delle donne,
giustificando tale disparità di trattamento con la diversità di funzioni;
è invece necessario che, partendo dal riconoscimento della diversità, si
realizzi la parità della diversità, e non si annetta più ad essa il valore
implicito d’inferiorità, giustificando la disparità di trattamento
praticata ancora oggi.”
(17)
(16)
Pubblicata in “Foro it.”, 1969, I, col. 471.
(17)
ML. De Cristofaro, “Tutela e/o parità?”, Cacucci editore, Bari, 1979, 202.