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Introduzione
«Nulla è durevole quanto il cambiamento.
Non c’è nulla di immutabile, tranne l’esigenza di
cambiare. Tutto fluisce, nulla resta immutato».
(Eraclito, VI-V secolo a.C.)
L’argomento centrale di questa analisi è il diritto alla disconnessione, un diritto di
nuova generazione legato alla diffusione su larga scala delle tecnologie informatiche ed
elettroniche negli ambienti di lavoro.
In particolare, per delineare un quadro dai contorni più precisi all’interno del quale
inscrivere le innovazioni organizzative in corso, nel primo capitolo abbiamo cercato di
mettere in evidenza la centralità delle nuove tecnologie nel salto di specie dal lavoro
analogico a quello digitale e tracciato l’identikit di quest’ultimo nella società delle ICT,
che punta tutto sulla flessibilità, sulla destrutturazione e sulla de-aziendalizzazione, e
abbiamo visto come questa metamorfosi si innesti nel percorso inaugurato nel nostro
Paese dalla legge n. 81/2017 e in Spagna dalla Ley Orgánica n. 3/2018 e dal Real decreto-
ley n. 28/2020.
Al diritto alla disconnessione abbiamo dedicato il secondo capitolo del nostro
studio, ripercorrendo le disposizioni in materia previste dagli ordinamenti italiano e
spagnolo, con un focus sulla legislazione francese, che in questo campo ha fatto da
apripista in Europa. Nell’analizzare il fenomeno della disconnessione, abbiamo cercato
di mettere l’accento sugli aspetti più controversi della normativa, a partire dal difficile
punto di equilibrio tra tempo di lavoro e di non lavoro nel confine sempre più sfumato
tra sfera pubblica e sfera privata che la digitalizzazione porta con sé.
Il terzo capitolo si sofferma, sempre in una prospettiva comparata, sulle
declinazioni delle forme tipiche di espressione del potere datoriale nei rapporti di lavoro
agili, che presentano una natura bifronte. A una attenuazione del potere direttivo,
particolarmente evidente nelle prestazioni dei cosiddetti brain workers, caratterizzate
da un elevato tasso di autonomia e creatività, corrisponde una parallela intensificazione
del potere di controllo, resa possibile dall’uso pervasivo delle nuove tecnologie
elettroniche sia negli ambienti lavorativi sia all’esterno. I social network e i congegni
wearable sono una dimostrazione plastica delle nuove frontiere del controllo
nell’Industria 4.0, dove i limiti della distanza vengono frantumati dalla potenza e
capillarità delle reti interconnesse, autostrade su cui viaggia una mole incalcolabile di
dati personali e sensibili. È qui che si fa più pressante l’esigenza di contemperare gli
interessi contrapposti di dipendenti e datori di lavoro: i diritti fondamentali della dignità
e riservatezza dei primi e il diritto al controllo dei secondi, con l’obiettivo di preservare
quella relazione di fiducia che rappresenta un elemento distintivo ineliminabile della
6
subordinazione e che, nello spazio della cooperazione, è in grado di creare valore
condiviso.
Fino a poco più di un anno fa gli italiani che lavoravano in smart working non
arrivavano a seicentomila. Nel marzo del 2020, con l’isolamento imposto dal Covid-19,
hanno superato quota sei milioni, dieci volte tanto. Nel giro di pochi giorni gli uffici si
sono spopolati e le scrivanie sono rimaste vuote. Sotto la spinta dell’emergenza
sanitaria, quella che per anni era sembrata un’utopia, il lavoro a distanza, si è
concretizzata all’improvviso sotto i nostri occhi, imprimendo un’accelerazione inattesa
a un processo che si trascinava stancamente da decenni senza che se ne vedessero i
frutti.
Questo imprevedibile esperimento di massa ha inevitabilmente influenzato la
nostra analisi, che ha preso le mosse nel 2018 anche grazie all’esperienza del
programma di mobilità Erasmus + svolta in Spagna, all’Universidad Pública de Navarra,
dove abbiamo potuto approfondire l’attività di ricerca sullo smart working in chiave
comparata.
La legislazione emergenziale introdotta nel nostro Paese a partire dal febbraio
dello scorso anno per contrastare la pandemia ha comportato una diffusione forzata del
lavoro agile, sino ad allora guardato con diffidenza, per non dire con ostilità, da aziende
e pubbliche amministrazioni. Da un giorno all’altro questa modalità di lavoro, ultimo
anello della parabola “bottega-fabbrica-ufficio-ovunque”, è diventato ope legis lo
strumento ordinario di svolgimento della prestazione di lavoro, unico passe-partout in
grado di garantire nello stesso tempo il distanziamento sociale, la diminuzione della
mobilità individuale e la continuità delle attività produttive.
Com’era facile prevedere, la normativa pandemica ha interferito con l’originario
disegno della legge n. 81/2017, che si proponeva principalmente di favorire, nel
refrattario contesto imprenditoriale italiano, la diffusione di alcune iniziative
pionieristiche elaborate dalla contrattazione collettiva aziendale, dotandole di una
apposita cornice giuridica.
Anche se non è plausibile che le logiche eccezionali dettate dall’emergenza
sopravvivano immutate in quello che l’Osservatorio sullo smart working del Politecnico
di Milano ha definito “New normal”, non c’è dubbio che la gigantesca prova di
laboratorio degli ultimi sedici mesi conduca, nello scenario post-pandemia, a un
ripensamento complessivo dell’identità stessa del lavoro agile, mettendo in luce una
serie di problematiche che, in Italia come in Spagna, la legge ha lasciato senza risposta.
Sotto l’urto degli avvenimenti eccezionali degli ultimi tempi, l’istituto dello smart
working è uscito bruscamente dai binari tracciati in origine per portarsi verso nuove e
inesplorate strade, alla ricerca di una nuova identità in un futuro prossimo in cui sarà
protagonista nella vita di lavoratori e imprese.
7
1. Il lavoro nell’economia digitale e le nuove declinazioni della
flessibilità
Sommario: 1.1 Nuove forme di lavoro e ricorso alle tecnologie digitali. – 1.2 Il lavoro
agile nella legge n. 81/2017: definizione e qualificazione giuridica. – 1.2.1 La linea di
demarcazione fra lavoro agile e telelavoro. – 1.2.2 Lavoro agile e conciliazione vita-
lavoro. – 1.3 Il Covid-19 come fattore di accelerazione della digitalizzazione del lavoro in
Italia. – 1.4 Il Covid-19 nell’esperienza spagnola: dall’emergenza alla normalità.
1.1 Nuove forme di lavoro e ricorso alle tecnologie digitali
C’erano una volta la fabbrica e l’ufficio. Lo sviluppo delle tecnologie digitali ha
permesso la diffusione di nuove forme di organizzazione del lavoro che consentono di
effettuare la prestazione lavorativa al di fuori dei consueti luoghi di lavoro, con orari
flessibili e con la sostituzione del lavoro fisico con attività digitalizzate e a distanza. Il
modello classico del lavoro di stampo fordista, immortalato dal leggendario Charlot di
Charlie Chaplin
1
, lascia progressivamente il posto a un modello di lavoro fluido, elastico,
meno strutturato, in una parola, agile.
Il lavoro non è più, o non è solo, forza lavoro puramente manuale da sottoporre a
supervisione diretta, ma diventa un mix intelligente di interventi manuali e di capacità
tecniche di analisi e ragionamento, che lascia al lavoratore maggiore flessibilità e
contemporaneamente garantisce all’impresa una maggiore capacità di adattamento ai
cambiamenti del mercato
2
.
Questa nuova filosofia del lavoro rappresenta il cardine di quella che è stata
suggestivamente definita quarta rivoluzione industriale
3
o Industria 4.0
4
.
Non si contano le analisi
5
che hanno evidenziato l’impatto delle ICT
sull’organizzazione, sulle condizioni di lavoro e sulle tecniche di regolazione del lavoro.
La tecnologia gioca ormai un ruolo centrale nelle organizzazioni, intervenendo sulle
scelte e sugli indirizzi economici dei processi produttivi.
1
Tempi moderni, diretto e interpretato da Charlie Chaplin, 1936.
2
M. Capobianco, Lo smart working tra proposte di legge e accordi di fatto. Lo stato di attuazione in Italia
e nell’UE, Salvis Juribus - Rivista giuridica online, 2017, consultabile all’indirizzo
http://www.salvisjuribus.it/lo-smart-working-tra-proposte-di-legge-e-accordi-di-fatto-lo-stato-di-
attuazione-in-italia-e-nellu-e/.
3
K. Schwab, La quarta rivoluzione industriale, Milano, Franco Angeli, 2016.
4
Con questa espressione, ormai entrata a far parte dell’uso comune, si intende la ristrutturazione
tecnologica in chiave digitale delle imprese del settore manifatturiero. Il nome deriva dal piano industriale
presentato dal governo tedesco nel 2013, che prevedeva investimenti pubblici su infrastrutture, scuole,
sistemi energetici, enti di ricerca e aziende per ammodernare il sistema produttivo nazionale e rilanciarne
la competitività, riportandolo ai vertici mondiali. Il progetto è stato fonte di ispirazione per tutti gli altri
Paesi occidentali, compresa l’Italia.
5
Tra le tante, E. Signorini, F.M. Ferrando Garcia, Gli effetti della digital e sharing economy sul rapporto di
lavoro, Giustizia Civile.com, 2018, 3.
8
Eppure, secondo alcuni autori
6
, questa metamorfosi del mondo delle imprese non
è legata alla tecnologia da un rapporto di causa-effetto, contrariamente a quanto
vorrebbe farci credere l’approccio determinista, secondo cui le regole anziché essere
parte della trasformazione devono semplicemente assecondarla.
La trasformazione tecnologica, infatti, non è un processo automatico calato
dall’alto e non impone scelte ineluttabili: essa stessa nasce da un complesso di scelte e
si colloca a valle di una catena di decisioni.
Guardando anche solo agli ultimi decenni, è evidente la presenza di una linea di
continuità nel mutamento, non solo sul piano strettamente tecnico, ma anche sul piano
normativo e istituzionale
7
.
Già a partire dagli anni Settanta l’informatica è entrata a pieno titolo nei processi
di lavoro e nei modelli di organizzazione. Il processo di digitalizzazione delle attività
industriali si è poi evoluto e affinato nel corso del tempo, fino ad arrivare agli attuali
sistemi cyber-fisici, che sono composizioni di macchine, di oggetti fisici e di oggetti
virtuali, di dispositivi di comunicazione, integrati e basati su un’infrastruttura che
gestisce, in ogni fase del processo produttivo, la raccolta e l’elaborazione della massa di
dati prodotti nel processo stesso.
Di pari passo, le politiche salariali, le norme di tutela delle condizioni di lavoro, gli
istituti di welfare universalistici, i vincoli alle attività finanziarie hanno delineato una
cornice regolativa definita compromesso fordista o del capitalismo democratico, che ha
reso queste trasformazioni compatibili con le esigenze del mondo sociale.
In un contesto in rapida trasformazione come questo, l’elemento di novità più
significativo è rappresentato dalla possibilità di lavorare a distanza, grazie
principalmente a tre strumenti tecnologici: il cloud, le tecnologie per la collaborazione
da remoto e gli hardware per l’accesso in mobilità.
Non sorprende, quindi, che anche in questo caso il salto tecnologico causi una
destabilizzazione dell’intero sistema economico e che questa a sua volta si ripercuota
sul modello di protezione del lavoro
8
.
La nuova era tecnologica, secondo le visioni più apocalittiche, culminerà con la
distruzione del lavoro, mentre nelle interpretazioni più ottimistiche creerà un nuovo
modo di lavorare.
6
A. Salento, Industria 4.0 ed economia delle piattaforme: spazi di azione e spazi di decisione, Quaderni
RGL, n. 2, 2017, 29 ss. Vedi anche U. Carabelli, P. Loi, D. Guarascio, M. Franzini, A. Lassandari, R. Voza, M.
D’Onghia, V. Speziale, A. Andreoni, R. Casillo, M. Faioli, A. Loffredo, P. Terranova, S. Auriemma, Il lavoro
nelle piattaforme digitali: nuove opportunità, nuove forme di sfruttamento, nuovi bisogni di tutela,
Quaderni RGL, n. 2, 2017.
7
A. Salento, Industria 4.0 ed economia delle piattaforme: spazi di azione e spazi di decisione, op. cit., 30
ss.
8
E. Signorini, F.M. Ferrando Garcia, Gli effetti della digital e sharing economy sul rapporto di lavoro, op.
cit., 3.
9
Un effetto polarizzante che evidenzia, da un lato, il taglio dei posti di lavoro
causato dall’ingresso della robotica nei processi produttivi e, dall’altro, l’avanzata di
nuove forme di lavoro disponibili per chi viene espulso dai modelli tradizionali.
È sotto gli occhi di tutti che la rivoluzione tecnologica ha prodotto vantaggi
competitivi per le imprese, ma nello stesso tempo ha provocato la scomparsa di diversi
lavori, costringendo i lavoratori con un deficit di competenze troppo elevato o più
anziani a rientrare in un mercato liquido con un bagaglio di abilità e conoscenze nuove.
In questo contesto il lavoro è diventato più vulnerabile, costretto tra le esigenze
produttive e imprenditoriali da una parte e privato dell’abbraccio protettivo del diritto
dall’altra. È il caso di molte attività economiche svolte online, difficilmente riconducibili
nell’alveo del lavoro tradizionale.
La relazione datore di lavoro-lavoratore, tipicamente basata sulla strategia one to
one, si è allontanata dai canoni classici, avvicinandosi a formule many to one o many to
many.
Nell’economia on demand, ad esempio, si sono affermati modelli occupazionali
ispirati alla condivisione sia dei luoghi sia dei lavoratori, che sono incaricati e coinvolti
su richiesta. Si pensi ai fenomeni del job sharing, del mobile work (lavoro mobile o
telelavoro), dello smart working, del collaborative employment, tutti caratterizzati da un
allontanamento dal profilo del lavoro subordinato e dalla condivisione sia dei dipendenti
che dei posti di lavoro.
Le coordinate spazio-temporali del rapporto di lavoro sui cui si basava il sistema di
tutele del prestatore sono venute meno. Le relazioni lavorative sono diventate virtuali,
senza la fisicità del luogo di lavoro, e hanno minato il potere contrattuale del lavoratore.
Oltre all’elemento spaziale, anche quello temporale è stato modificato: il tempo
di lavoro viene lasciato alla libera determinazione del soggetto ed è più labile la linea di
demarcazione tra vita lavorativa e vita privata, con effetti controversi. Da un lato una
migliore conciliazione vita-lavoro, con riduzione dello stress e miglioramento della
qualità di vita, dall’altro rischi per la salute e per la sicurezza, invasione del lavoro nella
vita familiare, isolamento, stress, problemi di retribuzione.
Secondo Tullini
9
, l’impatto della digitalizzazione sui rapporti di lavoro tradizionali
e sulla gestione dei lavoratori subordinati nelle imprese “intelligenti” è potenzialmente
deflagrante
10
.
Innanzi tutto, esiste un’interazione sempre più stretta tra lo svolgimento della
prestazione lavorativa e le tecnologie adottate per svolgere la prestazione stessa.
Questa interazione può determinare un effetto di sostituzione, o al contrario, di
complementarità tra il lavoro umano e l’informatica. Da un lato, la capacità di
9
P. Tullini, La digitalizzazione del lavoro, la produzione intelligente e il controllo tecnologico nell’impresa,
in P. Tullini (a cura di), Web e lavoro. Profili evolutivi e di tutela, Torino, Giappichelli, 2017, 5.
10
In tal senso, C. Degryse, Impacts sociaux de la digitalisation de l’économie, ETUI Working Paper, n. 2,
2016, 9.
10
sostituzione dei sistemi industriali intelligenti è potenzialmente in grado di ridurre gli
aspetti faticosi o penosi dell’attività umana, ma nello stesso tempo mette in crisi la
conservazione dei livelli occupazionali e il bagaglio professionale dei lavoratori, specie
di quelli addetti a mansioni manuali o di routine.
D’altro canto, la complementarità uomo-macchina incide sull’adempimento della
prestazione, ossia sull’oggetto del rapporto di lavoro subordinato, modificando lo spazio
della volontà individuale e il criterio della diligenza. Questo implica un ripensamento
della nozione giuridica di adempimento-inadempimento della obbligazione lavorativa.
L’adempimento della prestazione non è più un comportamento meramente individuale,
imputabile alla responsabilità esclusiva del lavoratore.
Ne consegue il tentativo da parte del legislatore di adeguare il lavoro subordinato
all’ambiente digitale, come è avvenuto per esempio in Francia con la Loi Travail nel 2016
e, almeno in parte, in Italia con la legge n. 81/2017.
Sul versante opposto, alcuni studiosi
11
ritengono che per quanto le nuove leggi
possano essere precise e ben congegnate, è alto il rischio che diventino desuete prima
ancora di entrare in vigore. Una possibile soluzione alternativa sarebbe allora
un’interpretazione in chiave evolutiva della subordinazione, affidata ai nostri giudici,
chiamati a esercitare la loro attività ermeneutica, in particolare sul significato delle
parole contenute nell’articolo 2094 c.c., tenendo conto dei possibili cambiamenti nel
tempo.
«L’interpretazione evolutiva pare la soluzione maggiormente soddisfacente,
anche perché (…) la legge non riuscirebbe a coprire le diversificate nuove fattispecie.
L’impresa, il datore di lavoro e il lavoratore subordinato costituiscono ormai figure a
geometria variabile, che rendono parimenti necessaria un’interpretazione evolutiva, per
l’appunto, a geometria variabile»
12
.
In sostanza, in un contesto in rapida evoluzione il riallineamento stabile e duraturo
del quadro normativo ai diversi modelli di organizzazione del lavoro che si stanno
presentando è un traguardo difficile da raggiungere.
Secondo Auriemma, l’articolo 2094 c.c. mostra però una elevata capacità di
resilienza al progresso tecnologico. Questa previsione normativa è in grado, infatti, di
adattarsi alle continue trasformazioni dell’impresa, del lavoro e della figura datoriale.
Quindi, le tradizionali figure del lavoratore subordinato e del datore di lavoro, se lette in
chiave evolutiva, possono ancora rivelarsi utili per far sì che le fattispecie in continua
trasformazione dell’economia digitale non restino prive di una disciplina giuridica.
11
S. Auriemma, Subordinazione nell’epoca dell’economia digitale, Quaderni RGL, n. 2, 2017, 129.
12
Ivi, 130.
11
Il minimo comun denominatore di tutte le nuove forme di occupazione generate
dalla digital economy è senz’altro la flessibilità, che ha trovato un importante alleato
nella tecnologia
13
.
Lo sviluppo dei dispositivi informatici e le interconnessioni apparentemente
paritarie rese possibili dal web vengono enfatizzati come strumenti per realizzare
maggiore flessibilità nella scelta del tempo e del luogo in cui eseguire la prestazione
lavorativa.
Se non la fine della fabbrica, intesa come luogo della manifattura, sembra
avvicinarsi la fine del luogo di lavoro concentrato in uno spazio ben definito che ha
caratterizzato il lavoro nell’ultimo secolo.
Pur partendo da questo punto in comune, le strade degli e-job si dividono sul piano
normativo. Alcuni, come il telelavoro e lo smart working, sono stati ricondotti dal
legislatore nell’area della subordinazione. Altri invece, come il crowdwork e, più in
generale, tutte le forme di lavoro digitalizzato su piattaforma, si avvicinano al modello
negoziale dell’autonomia, ma di fatto non hanno ancora ricevuto una tipizzazione
giuridica. Manca quindi una disciplina legislativa specifica che individui i poteri
contrattuali e le garanzie minime del lavoratore.
Le piattaforme sono uno strumento di mediazione tra lavoratore e azienda, in cui
il lavoro è una prestazione d’opera precaria e deregolamentata. Nei modelli produttivi
della gig economy
14
i rapporti di lavoro, le relazioni aziendali e i contratti si basano su
logiche nuove e poco trasparenti, con tipologie professionali e occupazionali
diversissime, a seconda delle imprese, dei settori e del tipo di prestazione d’opera
15
.
La forza lavoro è costituita da un bacino di manodopera estremamente variegato,
precario, flessibile e sfruttato. Alla retorica imprenditoriale del lavoratore free capace di
gestire in autonomia la prestazione lavorativa, si contrappone una realtà in cui gli spazi
di autonomia sono compressi. Non è l’individuo a essere al centro dell’organizzazione
del lavoro, ma l’algoritmo che gestisce la piattaforma ed è la piattaforma che governa i
tempi, i modi e la remunerazione della prestazione, permettendo all’impresa di gestire
il lavoratore in maniera impersonale. Le piattaforme non sono solo il luogo di incontro
tra lavoratori e consumatori, ma sono spesso impiegate per definire gli standard della
prestazione, elargire il compenso e remunerare l’attività lavorativa attraverso voti e
recensioni che danno una sorta di pagella al lavoratore.
13
A. Donini, Lavoro agile e su piattaforma digitale tra autonomia e subordinazione, Variazioni su temi di
diritto del lavoro, n. 3, 2018, 8.
14
Il dizionario Treccani definisce “Gig economy” il modello economico basato sul lavoro a chiamata,
occasionale e temporaneo, e non sulle prestazioni lavorative stabili e continuative, caratterizzate da
maggiori garanzie contrattuali. L’espressione deriva dall’inglese “gig” (lavoretto).
15
D. Foresi, Gig economy, il lavoro al tempo delle piattaforme digitali, 2019, consultabile all’indirizzo
http://www.cattaneo.org/wp-content/uploads/2019/05/Dylan-Foresi_Gig-Economy.pdf.