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LATINO E ITALIANO ATTRAVERSO I SECOLI
Roma, 62 dopo Cristo. Seneca scrive una lettera al suo amico Lucilio. «Arpaste, quella pazza che
conosci, e che mia moglie teneva per passatempo, è rimasta nella mia casa come onere ereditario».
Devi sapere che questa pazza ha perduto all’improvviso la vista. (Haec fatua subito desiit videre).
Ebbene, cosa incredibile ma vera, essa non sa di essere cieca. (Illa nescit se esse caecam). Prega
continuamente il suo custode di portarla via. (Subinde rogat paedagogum suum ut migret). Dice che
la casa è scura. (Ait domum tenebricosam esse).
La moglie di Seneca aveva dunque una pazza in casa, per divertimento personale. (Seneca, “Lettere
a Lucilio”, Rizzoli). Il buffone di casa era un’abitudine dei grandi romani. (Paoli, Calonghi). Chi
però assistesse, oggi, a qualche casting per cercare comparse, si accorgerebbe che il livello morale
della società non è molto cambiato da allora.
Ma vediamo qualche aspetto della lingua dell’epoca. Seneca «è l’unico scrittore che ci parli ancora
come fosse vivo, nella lingua morta di Roma». (Concetto Marchesi).
L’accento di frase «è irrimediabilmente perduto», e non possiamo ricostruirlo. (Giorgio Bernardi
Perini, “L’accento latino”). Possiamo però sostenere che Arpaste, benchØ cieca e folle, rispettava le
desinenze di nomi e verbi. Avvertiva con valore distintivo la differenza tra vocali brevi e lunghe.
Conciliava accento intensivo e quantità vocalica. Metteva quasi sempre il verbo alla fine della frase.
Erano caratteristiche che venivano da molto lontano.
Gli antichi Indoeuropei vivevano nell’attuale Ucraina, quattromila anni avanti Cristo. Mille anni
dopo, gli Indoeuropei occidentali occupano un vasto territorio, comprendente la costa baltica e la
valle del Danubio. Andando da nord verso sud, troviamo Germani, Celti, Osco-Umbri, Protolatini.
(AndrØ Martinet, “L’indoeuropeo”, Laterza editore).
Ancora mille anni, e troviamo gli abitanti delle palafitte nella zona dei laghi centrali della Svizzera,
da dove poi scenderanno in Val Padana. Secondo l’archeologo Giovanni Patroni, i Palafitticoli
erano Liguri, mentre i Villanoviani erano Latini. (“La voce porticus e la latinità dei villanoviani”,
Rendiconti dell’Accademia archeologica di Napoli).
Per Martinet, invece, i Palafitticoli e i Terramaricoli erano Latini (Italici della prima ondata), mentre
i Villanoviani erano Osco-Umbri (Italici della seconda ondata).
Nel secondo millennio avanti Cristo, i Protolatini, dall’Emilia, scendono verso sud. Gli Osco-Umbri
li seguono, qualche tempo dopo. Verso il mille, i Latini sono nel Lazio, mentre gli Osco-Umbri
sono sparsi tra l’Appennino tosco-emiliano e la Calabria.
L’unità del blocco indoeuropeo occidentale è ormai spezzata. A nord restano i Germani. Sono piø
isolati, per cui la loro lingua rimane la piø vicina all’indoeuropeo. I Celti, dall’Europa centrale, si
diramano in molti gruppi, uno dei quali arriva in Irlanda.
La sede antica dei Latini fu forse la Boemia, o l’Ungheria occidentale (Palmer, Hawkes, Martinet).
Certo, prima di arrivare in Val Padana, e poi nel Lazio, essi incontrano diversi popoli indigeni. La
loro lingua, così, acquisisce molte voci preindoeuropee.
La parola indoeuropea, per indicare il concetto di amare, era forse *leubh. In gotico, troviamo liufs
(caro) e lubains (speranza). In tedesco abbiamo liebe, in inglese love.
Il latino ha lubet > libet. (Meillet). L’osco ha la congiunzione “loufir” (oppure, se vuoi).
A un certo punto, però, presso i Protolatini, l’atto di amare trovò una nuova parola (amāre), che alla
fine prevalse, relegando “lubēre” ad un ruolo secondario.
Ditela a quest’uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor.
La nuova parola (amāre) fu forse presa da un altro popolo. (I Liguri? I Reti? Gli Etruschi?). Se così
fosse, sarebbe uno di quei termini prelatini, che definiamo mediterranei.
Bolelli e Kretschmer pensano ad Aminth, nome di una divinità etrusca. Giovanni Flechia esamina
una radice *cham (sanscrito chama, amore), ma scarta l’ipotesi. Anche una radice *īsmah (greco
ìmeros) è da escludere. Flechia conclude quindi che amāre non è parola indoeuropea, ma un prestito
dal mediterraneo. (Lezioni di linguistica - Testo raccolto da Stefania Spina).
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Antoine Meillet osserva che il latino ămma era un uccello notturno, forse un gufo. Da questa parola,
come formazione espressiva, nel linguaggio familiare si sarebbe sviluppato il significato di mamma,
«non attestato direttamente, ma di cui si può supporre l’esistenza». (Il bambino ripete il verso
dell’uccello e chiama la mamma). E da ămma sarà venuto amāre, che sembra un denominativo.
Meillet segnala inoltre il latino amǐta (zia) e l’osco Ammai (Mātrī, dativo).
L’etimo di amāre rimane dunque molto incerto. Quanto a libēre, ed ai suoi derivati, essi non ebbero
continuatori italiani di diretta tradizione orale, pur se rimasero nell’uso letterario.
A vizio di lussuria fu sì rotta
Che libito fØ licito in sua legge
Per torre il biasmo in che era condotta.
Qui Dante parla di Semiramide, che si faceva le leggi ad personam. Il termine libito è in assonanza
con licito. Ma già Quintiliano realizzava la stessa assonanza, con libet e licet. (Meillet).
Nell’italiano attuale, sono voci letterarie libidine e lo stesso libito (voglia, capriccio, arbitrio). Ed è
ovviamente parola colta anche la libido di Freud, che prende il nominativo del termine latino.
L’aquila reale e il vento del nord
Il nome indoeuropeo dell’acqua presenta due radici, *akua (che è l’acqua che scorre), e *ṷeden (da
cui *ṷoden), che è l’acqua che si utilizza. (AndrØ Martinet, “L’indoeuropeo”).
Da *akua vengono ăqua (latino) e ahua (gotico antico). Da *ṷeden abbiamo wato (gotico seriore),
l’ittita watar, il sanscrito udnas, il greco udor / idro, il messapico odra, il tedesco wasser, l’inglese
water, il danese vand, il russo voda, l’osco-umbro utur. (Palmer).
Il vento del nord fu chiamato aquilō, perchØ portava nubi scure e cariche d’acqua. L’aquila (auis) fu
così detta, perchØ veniva insieme al vento del nord. (Meillet).
Tu strappasti l’emblema degli eroi
Ed a noi mandi un’aquila di paglia!
Il latino ǔnda (con un infisso nasale) postula un *ṷoden. Questo infisso, nota Meillet, dovette avere
origine dall’indicativo presente di un antico verbo, attestato in sanscrito.
Leonard Palmer osserva che il celtico ha sostituito *akua con una nuova parola (irlandese dobur).
Possiamo però postulare un *apa, dall’antica toponomastica celtica.
Da *apa (acqua), abbiamo il celtico abona (fiume), il gallese afon (fiume), il bretone aven (fiume),
nonchØ il britannico Avon, che oggi è un toponimo inglese. (Palmer).
La radice *akua dà il nome a vari fiumi, in Francia, Germania, Olanda, Lituania, Svezia, Norvegia,
Danimarca. (Aa, Au, Aue). In Svizzera, c’è il fiume Aar. (Cesare, De bello gallico). Abbiamo poi le
isole Aaland e la Scandin-auia. (Meillet).
Il latino ha dunque ăqua. Martinet, però, segnala anche amnis (fiume), che viene (per assimilazione)
da un anteriore *abnis, a sua volta derivato da *apnis, cioè *ap (acqua), piø il suffisso “ni”, che
indicava un movimento verso il basso.
Se la ricostruzione di Martinet è giusta, “amnis” è di origine celtica oppure osco-umbra, dato che in
queste lingue la labiovelare di aqua si evolve in bilabiale (*apa). L’osco ha però utur per indicare
l’acqua. E quindi “amnis” sarà un prestito dal celtico. Meillet sembra d’accordo, pur se avverte che
questo etimo è probabile, ma non sicuro.
Troviamo amnis in alcuni toponimi. Teramo (Inter amnia) è infatti situata tra il torrente Vezzola e il
fiume Tordino. Terni (Interamna Nahars) si trova tra il torrente Serra e il fiume Nera. (Enciclopedia
Treccani). Nahars (genitivo) era il nome umbro del fiume Nera.
Anche il fiume Nièvole (in Toscana) viene probabilmente da amnis. Possiamo porre *amnĕbule(m),
cioè “piccolo fiume”, da cui Nièvole. (Maria Giovanna Arcamone).
Anche pĭscis, per Martinet, è una voce celtica, poichØ verrebbe da *ap (acqua), con il suffisso isk. Si
ebbe quindi *àp-isk-s, da cui *àpiskis (con una vocale d’appoggio), e quindi pìskis (pĭscis), con la
caduta della vocale iniziale. (Gotico fisks, inglese fish, irlandese ìasc).
Se l’intuizione di Martinet è giusta, pĭscis risale ad un celtico *apa. Quindi i Germani e i Protolatini
avranno preso il termine dai confinanti Celti. (Meillet non condivide però questo etimo).
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UNO SPIRITO MALEFICO FEMMINILE
L’indoeuropeo *kàrpo doveva significare “frutto” (o forse erba). La parola greca karpòs indicava
un frutto. Il latino herba continua invece un termine rurale prelatino. (Meillet).
A volte, partendo da un nome, nasce un verbo. Sfiorare viene da fiore, lanciare da lancia, afferrare
da ferro. E così un protolatino *càrpos (frutto) dovette dare carpĕre (strappare, staccare, prendere).
L’italiano carpire continua carpĕre, con passaggio di coniugazione.
In germanico, con un ulteriore processo di metonimia, abbiamo l’antico inglese haerfest (“raccolta”,
e poi “raccolta d’autunno”), il medio-inglese herbist (“raccolta d’autunno”, e poi semplicemente
“autunno”), e l’attuale inglese harvest, che torna a significare “raccolto”. (Il concetto di autunno
scompare). Il tedesco herbst e il danese høst significano “autunno”.
La voce latina pǐla (palla) cedette il posto al longobardo palla, forse per evitare l’omofonia con pīla
(pila, pilastro, colonnetta). Da pǐla (o da pǐlus), abbiamo *piliare > pigliare.
La terra lagrimosa diede vento
Che balenò una luce vermiglia
La qual mi vinse ciascun sentimento
E caddi come l’uom che sonno piglia.
Un indoeuropeo *dem / *dom diede domus (Meillet). Per dominus, Martinet postula “dom-en-o-s”,
con la radice dom (casa), una particella di stato in luogo (en, cioè in), una vocale tematica di natura
aggettivale (o), e infine la desinenza. (Palmer, invece, ricostruisce “dome-no-s”).
Il latino galla (alga, erba acquatica) continua un termine prelatino, di origine oscura. (Meillet). Qui
Domenico Silvestri guarda al lessico mediterraneo. (La nozione di indomediterraneo in linguistica
storica, Macchiaroli editore). Da galla abbiamo galleggiare. (Migliorini).
Un indoeuropeo *mori diede il latino mare, per indicare un’ampia distesa d’acqua. In germanico,
invece, *mor fu ridotto al significato di lago o stagno. Poi un’altra radice (sea) si impone in quasi
tutta l’area germanica, per indicare il mare. Il gotico marisaiws unisce le due radici.
Il latino mare era neutro. In francese, mare (pozzanghera) è maschile, mer (mare) femminile. Forse
il genere femminile di mer fu favorito da terra. (Meillet, Meyer-Lübke).
Oggi, in germanico, la radice *mor designa piø che altro un lago o uno stagno. L’inglese mere,
arcaico e provinciale, è attestato nel nome del lago Windermere. (Martinet).
Un’altra voce indoeuropea era *mare (cavallo). I Latini abbandonarono questo termine, in favore di
*equos > equus, forse per evitare l’omofonia con *mari > mare (distesa d’acqua).
Dall’indoeuropeo *mare (cavallo), abbiamo il tedesco mahre (giumenta) e l’inglese mare (cavalla).
Maresciallo e maniscalco sono prestiti franco-germanici di età medievale.
L’inglese nightmare corrisponde al latino incubus. Queste due voci (nightmare e incubus) sembrano
entrambe legate al fenomeno dell’apnea notturna. Ovviamente il nesso è solo semantico, in quanto
le due voci sono diversissime. (“Incubare” voleva dire “giacere sopra”).
Tentiamo una ricostruzione. Nell’Europa centrale (abitata dai Germani), in un’epoca in cui non
c’erano centri urbani, ma c’erano invece estese pianure, un incubo ricorrente doveva essere quello
di essere calpestati da un branco di cavalli selvaggi. E, dato che alle crisi di soffocamento notturno è
associata la sensazione di essere oppressi o schiacciati, si ebbe nightmare.
In inglese, nightmare è attestato (1290) per indicare “uno spirito malefico femminile, che affligge
chi dorme con un senso di soffocamento”. Il significato si evolverà in “any bad dream” (1829) e in
“very distressing experience” (1831). Una eguale evoluzione semantica, verosimilmente, si ebbe per
il latino incubus. (Presso i Romani, però, il demone era maschile).
Il francese “cauchemar”, da un anteriore cauquemaire, cioè incubo, sembra un calco dal germanico.
L’antico francese caucher è il latino calcare. Maire è il piccardo mare, affine all’olandese mare,
che era un fantasma femminile (cioè la cavalla che schiaccia chi dorme).
Il termine “cauchemar” ha origine in Piccardia. Altrove, invece, si immaginò che fosse una vecchia
a opprimere il dormiente. Troviamo chaouche-vielio in Linguadoca, cauquevieille a Lione.
Dal tedesco mahre (giumenta), si ha mahr (incubo). Di qui, il friulano more. In Istria, Paola Delton
segnala “mora”, “pesarola” e “pesantola” (Dignano). Panzini riporta “pesarolo” (in Umbria).
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UNA LUCE IN ALTO NEL CIELO
Una radice indoeuropea *sed (sedersi) si appoggia al prefisso “ni”, che indica un movimento verso
il basso (Martinet). Di qui, il latino *nìsedos > *nìsdos > nīdus. Etimo uguale hanno l’inglese nest,
il tedesco nest, l’armeno nist, l’irlandese antico net, l’irlandese moderno nead. (Meillet).
Così ha tolto l’uno all’altro Guido
La gloria della lingua; e forse è nato
Chi l’uno e l’altro caccerà dal nido.
Il verbo sedēre si basa sulla radice *sed, ampliata con il suffisso durativo “ē”, per cui si ha sedeo
(seconda coniugazione). Altra cosa è la particella “sed”, che indica il concetto di allontanamento,
mancanza. Abbiamo qui “seditio”, ma non un *sedeo (Meillet).
Il suffisso “na” aveva invece una vocale aperta. Ed era, si direbbe, una sorta di deittico, collegato al
gesto di indicare qualcosa di lontano, qualcosa lassø in alto.
Possiamo ricostruire *leuk-na, cioè una luce (leuk) là in alto (na). Quando la radice prende la marca
del nominativo, si ha *leuksnà > *louksnà > *lòuksna > lūna (Palmer). A Preneste troviamo losna
(Goidanich). Abbiamo poi l’irlandese luan e lo slavo luna (Meillet).
Ma a questo punto la “a” dell’antico deittico è ormai avvertita come la desinenza di un nominativo
femminile. La luna entra quindi nel novero delle divinità femminili.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
La faccia della donna che qui regge
Che tu saprai come quell’arte pesa.
La luna aveva però un nome piø antico. Un indoeuropeo *mēn ci dà in greco mēn (mese, maschile)
e mēnē (luna, femminile). Un germanico *maenon (luna) diede il tedesco mond (luna, maschile). In
inglese troviamo moon (luna) e month (mese). In latino, *mēn ci dà Mēna (una dea romana), mensis
(mese), metrum (metro), mensura (misura).
Noteremo anche, in tedesco, la parola popolare Nebelmond (la luna delle nebbie), che indica il mese
di novembre. E infine ci accorgeremo che in tedesco la luna è maschile (mond) e il sole è femminile
(sonne). In italiano avviene il contrario.
Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me.
Ludovico Ariosto, poi, guarda alla luna come al luogo dove si trovano le cose perdute. Così Astolfo
si reca lassø su un cavallo alato, per cercare il senno di Orlando, che troverà chiuso in una boccetta.
Poi Orlando annuserà la boccetta, e riacquisterà la ragione.
Le lacrime e i sospiri degli amanti
L’inutil tempo che si perde al gioco
E l’ozio lungo d’uomini ignoranti
Vani disegni che non han mai loco.
I vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco.
Ciò che insomma quaggiù perdesti mai,
lassù salendo ritrovar potrai.
Da una radice *pet (volare), abbiamo in greco “pètomai” (volare) e “ptoròn” (penna, ala).
In latino, abbiamo *pet-na > *pedna > penna, cioè *pet (volare) là in alto (na).
Un cantico tedesco lento lento
Per l’aer sacro a Dio mosse le penne.
La parola *pedna indicò prima un uccello, e poi solo la penna. (Palmer). Da *pet (volare), abbiamo
petĕre (dirigersi) e impĕtus. Il nome dello sparviero, accǐpǐter, è un arcaico *acupěter (ala veloce,
dal greco), ravvicinato ad accǐpěre (afferrare) per etimologia popolare. (Meiilet).
Karl Ernst Georges, per il nome della stella, postula *stĕr > *stĕrǔla > stēlla. Ma per Meillet questa
ipotesi è arbitraria. Meillet ricostruisce *stel-na, con un suffisso -na, in origine forse un locativo,
che si riscontra anche nel nome germanico del sole, con il gotico sunno, il tedesco sonne, l’inglese
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sun. Questi nomi sono a volte maschili e a volte femminili, il che sembra rispondere ad antiche
differenze concettuali. In latino, sīdus è neutro, aster è maschile, stēlla è femminile.
Salimmo su, ei primo ed io secondo
Tanto ch’io vidi delle cose belle
Che porta il ciel per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
L’indoeuropeo attraverso i millenni
L’antico indoeuropeo aveva cinque vocali (a, e, i, o, u), realizzate in dieci fonemi, poichØ potevano
essere brevi o lunghe. (Silvestri). Troviamo vocali lunghe radicali (tū, tē), per unione di piø vocali
(trēs), per compensare la caduta di una laringale (ŏctō).
L’indoeuropeo aveva i dittonghi e le semivocali, piø un suono indistinto (schwa), che si comporta a
volte come una semivocale. (Saussure). Nella fonetica, troviamo un accento intensivo libero. Nella
sintassi, troviamo una sequenza soggetto-oggetto-verbo. (Martinet). L’indoeuropeo, nella sua prima
fase, può definirsi una lingua di tipo agglutinante.
Nella morfologia, alcune particelle suffissali, unite alle radici dei nomi, e fortemente accentate (con
lo spostamento dell’accento sull’ultima sillaba), portano alla formazione delle declinazioni (e delle
coniugazioni). In questa seconda fase, l’accento è prevalentemente finale (*tacitòs). L’indoeuropeo
si avvia a diventare una lingua flessiva. (Martinet).
Una terza fase linguistica si individua tra gli Indoeuropei occidentali. (Germani, Celti, Osco-Umbri,
Latini). Le varie lingue sono ormai di tipo flessivo. L’accento, in questa fase, si sposta sulla prima
sillaba (*tàcitos). Questo accento, in latino, era assai forte. (*Dìsfacilis > *dìfficilis). Ma in celtico e
osco-umbro l’accento iniziale era ancora piø forte.
Le particelle suffissali sono alla base dei paradigmi di nomi e verbi. Il suffisso “es” indicò in origine
il moto da luogo. Da lì venne il concetto di appartenenza, con il genitivo singolare. Sviluppi
successivi portarono all’ergativo e quindi al nominativo singolare, da cui infine si sviluppò il
nominativo plurale in es. (Martinet). Un nominativo plurale seriore si origina poi dalla “i”
dell’antico deittico, che diviene anche desinenza verbale.
Un suffisso “èi”, che in origine indicava il moto a luogo, diede il dativo e quindi il locativo. Da un
suffisso “t”, che indicava l’azione, si formarono le terze persone singolari. Poi un’ulteriore marca
vocalica (o), di natura aggettivale, diede il suffisso -to, prima con valore attivo (pōtus, iurātus), poi
medio o intransitivo (tacǐtus), infine passivo (altus, libertus).
Nel latino piø remoto, il suffisso -to era accentato. *Deik-tòm diede *dǐctòm (latino preistorico), da
cui venne dǐctum (latino classico, con accento iniziale). Nelle altre voci verbali, invece, l’accento
rimase sulla sillaba iniziale. Si ebbe quindi dīco (< dèico) e dīxi (<dèic-si). Così oggi, in italiano,
abbiamo “io dico”, “io dissi”, ma “io ho dØtto”.
La marca dell’azione (t) è anche alla base del suffisso tōr, che indica l’agente (factōr, pictōr), e del
suffisso tūra, che indica il risultato dell’azione (factūra, pictūra).
Tu sei colei che l’umana natura
Nobilitasti sì, che il suo fattore
Non disdegnò di farsi sua fattura.
Una particella “m”, che era una marca di moto a luogo (verso un punto lontano), in alcune lingue
prese anche le funzioni di accusativo, con un processo simile all’accusativo preposizionale
spagnolo. (Martinet). In inglese, abbiamo whom, him, them. In latino, abbiamo Romam (moto a
luogo), ma anche feminam (accusativo suffissato e poi accusativo tout court).
Alcune di queste particelle sono tuttora produttive. Nella Romània occidentale, la “s” è la marca del
plurale (spagnolo euros). Con il suffisso -to formiamo nuovi participi e aggettivi.
Per creare nuovi verbi (dribblare, chattare), useremo la desinenza di prima coniugazione are, da un
anteriore *asi > ase (Riccardo Avallone). Qui i latini avevano suffissi diversi, utilizzabili in senso
espressivo (tǔssīre, uāgīre, hiāre, respirāre). Noi non abbiamo piø questa scelta. Paolo D’Achille,
però, ritiene ancora possibile la creazione di verbi in -ire. (L’italiano contemporaneo, Il Mulino).
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IL PASSATO REMOTO ITALIANO
Un’antica particella indoeuropea (ì) indicava un luogo, un momento preciso (hic et nunc). Usata con
intento espressivo, rafforzativo, divenne desinenza, e come tale si mantiene vitale soprattutto in
italiano. La usiamo per creare nuovi plurali (ciellini, juventini). La usiamo per coniugare nuovi
verbi al passato remoto. (Io dribblai, io chattai). Qui è rimasta l’unica desinenza disponibile, non
essendo ormai piø produttive le altre marche dell’antico preterito indoeuropeo.
La “m” del moto a luogo, divenuto accusativo, era assai debole in posizione finale. Sono poche le
parole neolatine che ne serbano traccia. (Quien, quem, rien, ren, mon, ton, son). Questa “m” può
però mantenersi in posizione mediana (dum interim > domentre > mentre).
La particella cum (da *quom), che è prevalentemente proclitica, è molto produttiva sia in latino che
in italiano (“con”). In posizione interna, la nasale a volte si perde (quasi, da *quam-si), a volte si
mantiene, come in quantus (*quam-to), quandō (*quam-dō), hanc (*ham-ce).
Ma vediamo i continuatori italiani. Troviamo quando, quanto, con (e derivati). Troviamo “anche” e
“ancora”. L’italiano ancora è infatti un *(ad) hanc hora(m), cioè “a quest’ora”.
Il settentrionale anca (molto antico) continua un *hanc quam (horam). Il toscano anche continua un
*hancque (Clemente Merlo), a sua volta da *hanc quem (horam). Qui, il maschile quem sarà dovuto
ad un incrocio (seriore) con la congiunzione quid (che darà *que e poi che). Infine, l’antico italiano
anco (di diffusione interregionale) potrebbe essere una retroformazione di ancora.
L’Italia antica tra preistoria e storia
Il latino preistorico viene via via a contatto con altre lingue. E i contatti linguistici crescono ancora,
quando dalla Val Padana i Latini scendono lungo la penisola, fino al Lazio. Secondo Hermann Hirt,
il latino può dirsi quasi una lingua mista. (“Indogermanische Grammatik”).
Leggiamo Merlo. «La lingua latina serba tracce numerose, evidenti, delle relazioni che gli abitatori
dell’Urbe e delle comunità laziali ebbero, fino da età antichissima, con le genti stanziate nella parte
centrale e meridionale della penisola». (Saggi linguistici).
Alfonso Traina nota: «Gli stanziamenti latini sul Palatino furono forse sentinelle sul Tevere, là dove
l’Isola Tiberina dava facile passaggio dalla riva etrusca a quella latina». Ma gli Etruschi passarono.
E presero Roma nel settimo secolo, all’epoca dei Tarquini.
Leggenda e toponomastica vanno d’accordo. Si pensi al uicus Tuscus e alla rupe Tarpeia (che è la
variante sabina dell’etrusco Tarquinia). E Armando Petrucci ci segnala due iscrizioni etrusche del
settimo secolo, scoperte a Roma (sul Campidoglio e a Sant’Omobono).
Le tribø dei Ramnes, Titiēnses e Lucĕres hanno nomi etruschi. (Palmer, Varrone). E il nome stesso
di Roma sembra di origine etrusca. (Meillet, Marchesi, Alessio). Il nome Italia è invece osco, o
forse illirico, da una tribø illirica della Calabria. (Meillet).
I Latini apprendono la scrittura dagli Etruschi. All’inizio usano l’alfabeto etrusco, o il greco. La loro
lingua è di tipo flessivo (piø sintetica che analitica). E’ una lingua indoeuropea occidentale. E’ assai
vicina all’indoeuropeo (ma non tanto vicina quanto il germanico).
La piø antica testimonianza scritta, in Italia, è stata datata al 720 avanti Cristo. E’ un’iscrizione in
greco, su una coppa trovata nell’isola d’Ischia. (Nicola De Blasi).
La fibula praenestina è stata datata al 670 avanti Cristo. (Manios med fefaked Numasioi). L’alfabeto
è greco, ma la scrittura è disposta da destra a sinistra, come in etrusco.
Come si vede, la desinenza del nominativo (os) non si è ancora oscurata in “us”. La sibilante sonora
intervocalica non si è ancora rotacizzata (Numasioi). La marca del dativo (oi < *oei) non si è ancora
fusa con la vocale tematica. C’è poi un tratto osco-umbro, fefaked, perfetto raddoppiato. E infatti
Preneste può dirsi zona di confine. (Meillet, Goidanich, Palmer).
L’accusativo del pronome med presenta una “d” finale, ampiamente attestata. Leonard Palmer nota:
«Questa d è di origini oscure. E’ infatti difficile pensare a una confusione tra accusativo e ablativo,
o alla sua provenienza dai pronomi neutri». (La “d” dell’ablativo era la marca di un moto da luogo.
La “d” dei pronomi neutri continuava un deittico raddoppiato). Antoine Meillet osserva peraltro che
questa “d” deve essere il residuo di un’antica particella enclitica rafforzativa.