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CAPITOLO I
LANEROSSI, QUALE EREDITA’ ?
1-1- UN PÒ DI STORIA
I miei ringraziamenti più commossi...grazie preferirei le LANEROSSI
2005. Chiude a Schio la grande fabbrica, ex Lanerossi, che da due secoli è l'emblema dell' impero
tessile della cittadina dell'alto vicentino. Un pezzo di storia, economica e sociale, locale e nazionale.
La decisione da parte della Marzotto di chiudere
la tintoria scledense coinvolge i 160 dipendenti
attualmente in cassa integrazione ordinaria. Nove
impiegati e 116 operai saranno posti in mobilità:
altri 21 addetti saranno trasferiti nello
stabilimento di Valdagno (VI) e un ulteriore
ventina resterà a Schio nel reparto finissaggio e
nel magazzino copertificio. I sindacati non
nascondono le difficoltà del comparto tessile
testimoniate nella ex Lanerossi da quasi tre mesi
di cassa integrazione nella prima parte dell'anno.
"Ma questo è un fulmine a ciel sereno - ha
continuato il sindacalista Siviero - una decisione
che abbatte l'ultimo grande pezzo di storia della
città e dell'economia vicentina".
Ma non è solo un'epoca industriale a finire in
archivio. Nome e marchio Lanerossi scrissero per
circa 25 anni un pezzo di storia del calcio italiano.
Fu l'azienda scledense infatti la prima industria
italiana a "sposare" nel 1953 una società di calcio
abbinando il proprio logo al Vicenza. Il primo
caso di sponsorizzazione ufficiale che trasformò
l'allora Ac Vicenza in Lanerossi Vicenza con la
sede e lo stadio Menti posti, guarda caso, in via Schio. Dalla stagione 1953-'54 sino ai primi anni
Ottanta in piena epopea Paolo Rossi i biancorossi berici portarono sul petto la celebre "R". Per oltre
un ventennio Lanerossi fu sinonimo, nelle cronache sportive di giornali e televisioni, della squadra
berica al punto tale da sostituirsi al nome stesso della città. Proprio grazie a questa tradizione la
società sportiva da un paio d'anni ha ottenuto di far riapparire sulle casacche il simbolo che tanta
fortuna sportiva regalò ai biancorossi.
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L’ATTIVITA’ INDUSTRIALE NELL’ALTO VICENTINO
Un quadro d’insieme
La storia dell’industria vicentina costituisce, per buona parte del Novecento, una sintesi virtuosa del
rapporto tra grande impresa ed attività manifatturiere minori. Ciò non solo per l’indubbio
apprendistato imprenditoriale che il lavoro su commessa (o il lavoro “terzista” come oggi si usa
dire) rappresentò per alcuni strati di piccoli produttori, soprattutto – come vedremo – del comparto
meccanico, ma più ancora per i modelli operativi ed organizzativi che, nati nelle grandi imprese,
furono poi introiettati ed efficacemente rielaborati dalle aziende di taglia inferiore, ancorché di
settori diversi. Né mancarono gli incoraggiamenti ad intraprendere (a volte con un vero e proprio
sostegno economico, non necessariamente mirato a creare una rete di subfornitori giuridicamente
indipendenti) da parte degli industriali maggiori, in genere quelli più vocati all’innovazione.
Certo, queste attività di patronage ebbero esito positivo anche perché radicavano in un territorio, il
vicentino, che alle soglie del Novecento si presentava, pur nella divaricazione tra aree forti ed aree
deboli, come l’unica provincia industrializzata in un Veneto che permaneva (con poche eccezioni)
prevalentemente agricolo. Il nucleo più importante di questa precoce industrializzazione consisteva
come è noto nel distretto laniero dell’alto vicentino.
Ma da lì, l’impulso manifatturiero si era presto esteso ad altre zone e ad altri comparti produttivi.
Erano sorte attività meccaniche al servizio dell’agricoltura (a Lonigo e a Breganze), ma anche a
sostegno delle produzioni tessili (Schio), e con interessanti iniziative nel settore delle turbine e dei
sistemi di pompaggio dell’acqua e dei liquidi in genere (Schio, Arzignano). Si erano evolute
industrialmente le tradizionali lavorazioni della concia nella valle del Chiampo, mentre nel
capoluogo era emersa una promettente industria chimica. La ricchezza di risorse idriche aveva
favorito il profittevole insediamento di alcune industrie cartarie (Lugo, Arsiero), così come lo
sviluppo dell’energia idroelettrica in parte autoprodotta dalle maggiori imprese manifatturiere per
alimentare i propri impianti, in parte business a se stante per la vendita ad utilizzatori terzi. La
modernizzazione stava investendo anche il comparto tipografico (Schio, Bassano), ed in una certa
misura anche altre tradizionali attività di trasformazione.
Una rilevazione pubblicata tra il 1905 ed il 1906 dalla Direzione generale di Statistica del Ministero
di Agricoltura industria e commercio, ma riferita a dati del 1903, testimoniava di questa vivacità
imprenditoriale, anche se essa metteva in luce un ancora limitato uso di motori elettrici nelle pro-
duzioni emergenti e, quindi, una loro scarsa meccanizzazione. Nel volgere di alcuni decenni, questa
situazione di minorità rispetto alle ben più cospicua complessità tecnica delle attività laniere venne
comunque superata, con l’emergere di organismi produttivi in grado di competere efficacemente sul
mercato nazionale.
Già nel 1911 il primo Censimento industriale risultò evidente il
crescente peso dell’utilizzo di forza motrice elettrica negli impianti
manifatturieri vicentini, così come l’aumentata consistenza della loro
forza-lavoro. Salvo che per il numero delle imprese censite, dove era
di poco preceduta da Verona, Vicenza distanziava sensibilmente le
altre province dell’attuale Veneto amministrativo nel numero di
addetti impiegati (39.574 su 163.819) e nella potenza in cav. din.
installati (23.197 su un totale regionale di 92.804). Il che equivaleva
su scala regionale al 18,9% delle imprese, al 24,2% degli addetti ed a
quasi il 25% della potenza installata. In realtà – depurando tali dati
dalle imprese con un numero di addetti inferiore a 10, quelle cioè
difficilmente configurabili come “industriali”, trattandosi nella
maggior parte di botteghe artigiane – il primato vicentino si attestava
sul 30% circa dei tre indici regionali indicati: a conferma dell’ormai
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consolidato quadro di base dell’apparato manifatturiero provinciale, accanto ad aziende in rapida
crescita, spesso collegate tra loro da una complessa trama di relazioni e fortemente innovative nei
prodotti come nella capacità di stare sul mercato, convivevano realtà minori, di manifattura
tradizionale, non sempre in grado di reagire tempestivamente alle crisi congiunturali. In non pochi
casi si trattava di imprese dedite al soddisfacimento di una domanda locale, non sempre irradiate
provincialmente: e, tuttavia, proprio il loro radicamento territoriale, e la diversificazione
merceologica che le caratterizzava, costituirono la base genetica dell’esplosione che le manifattura
diffusa conobbe poi nei decenni a noi più vicini.
Come detto, l’apparato industriale più rilevante era costituito dalle imprese
tessili. Nonostante una contrazione produttiva nel 1909-10, punto di forza del
settore rimanevano le produzioni laniere, con il 50% degli addetti del tessile
provinciale. Alla vigilia della grande guerra, i lanifici vicentini contavano su
circa 2,1 milioni di fusi e 3.100 telai attivi, di cui gran parte (1,950 milioni di
fusi e 2.800 telai) in capo ad imprese organizzate in forma azionaria: le quali
vedevano il prevalere (con 1,888 milioni di fusi e 2.677 telai) di 5 imprese: il
Lanificio Rossi a Schio (con il 49,2% degli impianti di filatura ed il 76,6% dei
telai delle società azionarie); il Lanificio V.E. Marzotto a Valdagno e la
Filatura di lana a pettine G. Marzotto & Figli a Valdagno-Maglio (complessivamente il 44% delle
attrezzature di filatura, ed il 17,4% dei telai per il V.E. Marzotto)11, il Lanificio Cazzola a Schio ed
il Lanificio Ferrarin a Sarcedo-Thiene. Se il peso del Rossi e dei due impianti marzottiani connotava
il polo laniero vicentino in modo anomalo rispetto agli altri due distretti lanieri italiani, il biellese ed
il pratese, basati sulla piccola-media dimensione, le tre grandi imprese convivevano però con un vi-
vace tessuto di aziende minori (25, tenendo conto anche dei lanifici Cazzola e Ferrarin) che avevano
nel tempo saputo consolidare una qualche nicchia di mercato nel prodotto cardato, soprattutto
nell’Italia del Nord. Il riferimento è in particolare allo scledense Lanificio G.B. Conte che, sorto nel
1757 ed ancor oggi l’azienda vicentina più longeva, nel decennio d’anteguerra era stato da Alvise
Conte fortemente ammodernato e riposizionato sul prodotto di qualità12.
La pur difficile congiuntura del primo dopoguerra, con i grandi scioperi (e le serrate) nel tessile, e la
palpabile tensione tra i lavoratori degli altri settori, determinò tuttavia fattori di crescita e di
modernizzazione in diversi comparti.
La costruzione della base industriale
È opportuno a questo punto sottolineare come i fermenti industriali del vicentino anticipassero per
certi versi quelli che furono poi i percorsi della più generale (e tardiva) industrializzazione veneta:
che, come è noto, si concreta nel secondo Novecento, dopo un lungo periodo di incubazione.
L’arrivo della regione all’industrializzazione passò attraverso tre momenti di snodo, compresi tra il
secondo decennio del Novecento e la crisi congiunturale del 1963-64. Essi furono: il
consolidamento delle attività produttive alla vigilia della prima guerra mondiale, le ricadute locali
della crisi industriale degli anni Trenta e gli effetti del miracolo economico sull’economia veneta. In
questi passaggi è possibile cogliere le caratteristiche che segnarono l’evoluzione economica
regionale:
a) il graduale formarsi di aree “forti” all’interno di un contesto che permaneva agricolo, anche
quando era investito da una qualche trasformazione manifatturiera;
b) il rapido divaricarsi tra grande impresa (all’inizio solamente leggera, poi ad elevata intensità di
capitale) e piccole-medie unità produttive;
c) l’esplodere – negli anni del “miracolo” – della impresa minore, su cui fu costruita la teoria di un
“modello veneto di sviluppo”, reputato originale e “diverso” rispetto alle altre realtà regionali.