I
Introduzione
Negli ultimi cinquanta anni enormi passi avanti sono stati compiuti nel
raggiungimento della parità di genere. Le politiche varate dal Cedaw nel
1979 (Cardinali, 2021), dalla Conferenza di Vienna prima e di Pechino poi
negli anni Novanta (Cristini, 2021), e in ultimo dalla Dichiarazione di Istanbul
nel 2011 (Di Iorio, 2019), hanno fortemente sensibilizzato gli organismi
internazionali in materia di uguaglianza tra uomo e donna e garanzia di diritti.
L’impegno sul piano teorico è indubbio, ma sul piano della parità di genere
sostanziale (Luzi, 2019) è fortemente lacunoso. Dal punto di vista sociologico
si potrebbe dire che la disparità di trattamento tra uomo e donna sia
occupazionale che socioculturale è ancora evidente. Una visione
essenzialmente dicotomica tra generi risponde alla necessità di conferire
ordine e senso ai diversi sistemi e rapporti sociali attraverso processi di
categorizzazione che a tratti risultano discriminanti. Lo stesso costrutto di
genere si inscrive all’interno di significati connotati socialmente e
culturalmente. Essi strutturano comportamenti specifici per i sessi e al
contempo limitano l’espressione della specificità individuale. Si denotano
così dinamiche egemoniche, persuasive e coercitive, se non di vero e proprio
potere, alimentate dai processi di categorizzazione sociale. Le dinamiche di
potere innescano, inevitabilmente, rapporti asimmetrici se non gerarchici tra
individui che pongono uomo e donna in condizione di subalternità l’uno
rispetto all’altro. Alla luce di ciò si cristallizzano rappresentazioni di sé
coerenti con i costrutti sociali di riferimento. Il paternalismo patriarcale (in
L’alternativa Mediterranea, citato da Facchi 2021), seppur rappresenti una
minima percentuale dell’ideologia delle nazioni moderne, comunque continua
a esercitare una certa influenza sulle coscienze collettive. I movimenti
femministi, e in generale i governi mondiali, si sono impegnati attivamente
nello sconsacrare l’idea dell’inferiorità femminile, che rappresenta le donne
come soggetti fragili e delicati (ivi), non sufficientemente forti.
Rappresentazioni di questo tipo da un lato sminuiscono il genere femminile e
lo marginalizzano e dall’altro contribuiscono a perpetuare il machismo
II
contemporaneo. Le donne agiscono all’interno di un rinnovato “perimetro socio-
culturale” (Pagano, citato in Luzi, 2019) nel quale imperano da un lato
l’individualismo estremo e dall’altro spinte globalizzanti in cui si esaltano le pari
opportunità. Tuttavia, è evidente che le spinte rinnovatrici verso la parità di
genere muovono da uno spazio ideale e si scontrano con una realtà fattuale
incentrata sull’immobilismo contestuale nel quale schemi interpretativi, di fatto
ormai anacronisti, ostacolano il raggiungimento delle vere pari opportunità.
L’immobilismo contestuale (Hochschild, citato in Luzi, 2019) è
particolarmente evidente nelle società in cui i concetti di cosmopolitismo
giuridico e globalizzazione si scontrano con una radicata necessità di
preservare l’identità culturale. L’idea è mantenere una sorta di “puritanesimo”
culturale rispetto alle spinte globalizzanti che tendono all’annullamento della
particolarità culturale del popolo. Per questo motivo, il discorso della parità
sostanziale di genere trova serie difficoltà nella sua attuazione piena e globale.
Molte popolazioni ancorate al tradizionalismo antifemminista, sentono una sorta
di aggressione ideologica (Zolo, citato in Facchi, 2021) dei paesi occidentali nei
loro confronti con il risultato di polarizzazioni posizionali che radicalizzano
ideologie ormai obsolete. Si evince, pertanto, una sorta di scontro tra visioni
moderniste in materia di uguaglianza e visioni tradizionaliste che inneggiano al
patriarcato. A oggi è ancora fortemente attivo il dibattito circa la legittimazione
delle politiche discriminanti di alcuni paesi che vede da un lato la preservazione
dell’eredità culturale e dall’altro la distorsione della dottrina.
Il problema più evidente è che tali ideologie corrono il rischio di legittimare,
sotto diversi punti di vista, oltre che condizioni discriminanti anche condizioni
vittimizzanti della donna contemporanea in nome dell’appartenenza etnica. Il
confine tra esaltazione del valore culturale e distorsione della dottrina è
estremamente labile. È richiesto, quindi, equilibrio tra i due e che sia anche il
risultato di una rivisitazione in chiave moderna delle interpretazioni patriarcali
consolidate e dei testi sacri senza che ciò comporti una sorta di violazione della
fede e uno stravolgimento della dottrina. È necessario trovare un nuovo
concetto di dignità personale (ivi), che tanto quanto quello di genere, è
socialmente e culturalmente orientato ma allo stesso tempo è fortemente
III
individualizzato, e che tenga conto dei diritti di cui ogni individuo deve
sostanzialmente godere in ogni popolo.
L’impegno delle ONG in questo senso, in linea con i movimenti femministi, ha
agito sul piano teorico tanto quanto su quello attuariale, incontrando però tre
difficoltà fondamentali: la diversità intra-culturale che ostacola una più
omogenea attuazione delle politiche internazionali in favore dell’uguaglianza di
genere; le dinamiche di potere, e non si parla di potere istituzionale quanto di
potere familiare che in certe forme di vittimizzazione agisce in modo più
pregnante rispetto alle istituzioni di per sé; la natura privata della condizione
vittimizzante rende difficile l’intervento e l’eradicazione delle diverse forme di
vittimizzazione e contribuiscono alla perpetuazione dell’egemonia maschile
nelle dinamiche comunitarie (Facchi, 2021).
Questi tre nodi di difficoltà costituiscono il punto di partenza di questo lavoro
che si pone l’obiettivo di presentare sotto i diversi punti di vista la
vittimizzazione culturale, ossia forme di vittimizzazione etnicamente e anche
politicamente legittimate che sono il risultato di processi di identificazione
sociale da un lato e dall’altro mere distorsioni dottrinali che perpetuano tipi di
comunità sostanzialmente incentrate sul patriarcato.
Il primo capitolo di questo lavoro prenderà in disamina il costrutto di
vittimizzazione culturale. In particolare, partirà dal concetto di vittimizzazione
nelle sue diverse tipologie per focalizzarsi poi sulle caratteristiche tipiche della
vittimizzazione culturale. Si farà una breve presentazione di una particolare
forma di vittimizzazione culturale, dal lungo retaggio e su cui ancora si nutrono
dubbi circa la sua eradicazione, ossia le modificazioni genitali femminili. In
seguito, si cercherà di offrire un punto di vista alternativo sulla vittima culturale
andando ad analizzare forme di vittimizzazione che da un lato non godono di
particolare interesse, come la circoncisione maschile rituale, e dall’altro più
recenti forme di vittimizzazione culturale come la migrazione forzata e la
vittimizzazione di guerra, focalizzando l’attenzione sul retaggio culturale sul
quale esse si fondano e sugli aspetti più prettamente psicologici.
Il secondo capitolo, invece, offrirà uno sguardo sulle modificazioni genitali
femminili e analizzerà approfonditamente il problema in termini di origine,
IV
caratteristiche e contesto di attuazione. Si cercherà di comprendere quali siano
le motivazioni sottostanti, le spinte culturali che sottendono alla pratica. Si
forniranno dati statistici sia rispetto alla diffusione recente e non recente del
fenomeno, sia rispetto all’elevato numero oscuro che lo caratterizza. Si
cercherà di sottolineare gli aspetti psicologici e sociologici del fenomeno, punti
di vista e posizionamenti contrastanti, ripercussioni psico-fisiologiche a breve e
lungo termine nonché conseguenze relative alla marginalizzazione e
all’isolamento sociale. Inoltre, sarà presentato un punto di vista alternativo
grazie al quale è stato possibile sottolineare come le tradizioni soggiacenti le
mutilazioni genitali femminili siano in realtà tramandate attraverso generazioni
matrilineari, e non patrilineari. Così è stato possibile analizzare il punto di vista,
poco considerato, degli uomini e dei mariti inserendoli in un contesto sociale nel
quale vivono l’emancipazione femminile e, allo stesso tempo, sopravvivono ad
esso nel perpetuare il maschilismo egemone.
La parte finale dell’elaborato fornirà un quadro normativo complessivo in
materia di modificazioni genitali femminili sia dal punto di vista repressivo che
dal punto di vista della protezione della vittima dalle diverse forme di
vittimizzazione. Si cercherà di tracciare un excursus storico che riguardi il modo
in cui il mondo, e in particolare la comunità europea, abbiano affrontato in
termini di azioni preventive e protettive le vittime culturali e le vittime da MGF. Si
cercherà anche di focalizzare l’attenzione sull’impianto normativo del continente
africano mostrandone punti di forza e di debolezza. Inoltre, si presenteranno i
pochi modelli di intervento, tanto europei quanto africani, nella lotta
all’eradicazione della pratica pressoché lento se si considera anche il fallimento
normativo e ideologico della proposta del rituale simbolico, tanto efficace in
africa quanto stigmatizzato dall’occidente, di cui si farà specifico
approfondimento. Si farà specifico riferimento alle diverse forme di tutela che
sono state promosse sul territorio italiano nello sviluppo di un rapporto
assolutamente sinergico tra diversi professionisti che operano all’interno di
questo contesto, considerandone pure le criticità e i limiti. Si presenterà
l’approccio dell’etnopsichiatria quanto mai attuale nel discorso inerente alla cura
della vittima culturale presentando di anch’esso i suoi presupposti teorici, i punti
V
di forza e i punti di debolezza. Inoltre, attraverso un’analisi della letteratura in
materia, si è cercato di delineare un profilo di assoluta carenza formativa e
conoscitiva degli operatori medico-sanitari nell’accoglienza e nella cura delle
vittime culturali e da MGF, sottolineando le maggiori criticità che incidono sul
rapporto professionista-paziente e presentando, infine, due modelli incentrati
sull’ascolto che potrebbero migliorare sensibilmente le prassi operative dei
professionisti del settore.
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Capitolo I
La vittima culturale
1. La vittima e la vittimologia
Il termine vittima deriva dal latino victima con cui si identifica “un essere vivente
consacrato e immolato alla divinità […] chi perisce in una sciagura, calamità, in seguito
a gravi eventi o situazioni […] chi soccombe all’altrui inganno o prepotenza…”
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. Dalla
sua definizione etimologica il termine vittima si accompagna all’immagine del “rito
sacrificale” (Saponaro, citato in Prosperi, 2010, p.73) e si denota la sua condizione di
passività in cui “perisce” o “soccombe” a seguito dell’azione negativa di un altro. Per
lungo tempo, quindi, la vittima è stata considerata come una sorta di effetto collaterale
dell’evento criminoso sottostimando, al contrario, la sua centralità. Il riconoscimento del
protagonismo della vittima nel reato è stato essenziale nell’individuazione di azioni che
esulano dalla fattispecie prevista dall’ordinamento giuridico ma che di fatto si
inseriscono nel quadro della garanzia dei diritti umani.
Solo a partire dagli anni Quaranta e Cinquanta gli esperti del settore hanno iniziato
a convergere verso una nuova prospettiva nella quale la vittima di reato non è più
rilegata a una posizione di sostanziale marginalità ma è parte attiva dell’azione
criminosa. La vittima, tanto quanto il reo, è protagonista in termini diadici della
criminogenesi e criminodinamica del reato. Da qui nasce la vittimologia che si pone
l’obiettivo di studiare la personalità della vittima, le sue caratteristiche fisiche,
psicologiche, morali, sociali e culturali (in Compendio di Criminologia).
1.1 Le categorie vittimogene e le forme di vittimizzazione
Dagli studi condotti dai vittimologi è stato possibile identificare due diverse tipologie
di vittima. In particolare, Ponti (1999) ha distinto tra vittime attive e passive di reato. Nel
primo caso si fa riferimento a quei soggetti che, a causa della natura della loro
professione, possono essere coinvolti, in qualsiasi momento, in situazioni criminose o
violente. Nel secondo caso, invece, si fa riferimento a qualsiasi soggetto che abbia
subito un danno senza che “abbia assunto un atteggiamento psicologico o
comportamento che possa aver influito sulla commissione del delitto o aver indotto il
criminale a sceglierlo specificatamente come vittima” (ivi), come nel caso della vittima
favorente o della vittima consenziente. Nello specifico, la vittima favorente facilita il
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Dizionario Treccani https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/vittima/
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reato mentre la vittima consenziente chiede volontariamente di essere danneggiata. Si
possono, inoltre, individuare: le vittime accidentali, coinvolte per puro caso nell’evento
vittimizzante senza aver alcun tipo di relazione con il reo; le vittime trasversali che però
non rappresentano il target primario designato dall’autore di reato; le vittime
preferenziali, scelte ad hoc dal reo per una caratteristica specifica; la vittima
disonorante, coinvolta nei delitti d’onore qualora la giurisprudenza specifica li preveda
ancora come fattispecie; le vittime simboliche, designate per colpire l’intero gruppo o
una specifica ideologia. Vi possono essere anche vittime indirette, i cosiddetti
“superstiti”, coloro i quali vivono un trauma a causa della perdita o del danno cagionato
a una persona a loro emotivamente e affettivamente vicina.
Infine, si possono delineare tre diversi livelli di vittimizzazione. La vittimizzazione
primaria identifica le vittime che in prima istanza hanno subito un torto o un danno. La
vittimizzazione secondaria identifica una “condizione di ulteriore sofferenza e oltraggio
sperimentata dalla vittima” frutto della negligenza, o scarsa attenzione delle agenzie di
controllo formale a seguito della richiesta di aiuto (Rossi, citato in Prosperi, 2010). Essa
si configura anche quando alla vittima sia stato precluso l’accesso ai percorsi
riabilitativo-terapeutici necessari al recupero a seguito del trauma. Molto spesso la
vittimizzazione secondaria è frutto della scarsa capacità del personale addetto nel
trattare il disagio psicologico vissuto dalla vittima (Di Palma & Biagetti, 2021). La
vittimizzazione terziaria, invece, si alimenta dal senso di sfiducia della vittima rispetto
allo scarso impegno profuso dalle agenzie di controllo formale, a seguito della lentezza
del decorso giudiziario o quando percepisca che giustizia non sia stata fatta (ivi).
Inevitabilmente, ognuna di queste tipologie di vittimizzazione crea un danno psico-
fisiologico a breve o a lungo termine. Ciò dipende dalla gravità del danno subito, dalla
continuità nel tempo della vittimizzazione, come nel caso della violenza domestica e
degli atti persecutori, e anche dalle caratteristiche idiosincratiche del soggetto in termini
di resilienza e strategie di coping. In ultima analisi, è opportuno sottolineare che ci sono
specifiche categorie di soggetti, le vittime cosiddette vulnerabili, donne, bambini e
anziani, che più di altre corrono il rischio di incorrere in episodi vittimogeni. A loro gli
ordinamenti internazionali hanno garantito negli anni sempre maggior tutela sia in
termini di diritti che di azioni repressive a scapito di chi le designa come vittime
preferenziali.
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1.2 Le società polietniche: scontro tra alterità
La giurisprudenza ordinaria prevede che a seguito della condotta attiva o omissiva il
soggetto possa essere perseguito per la fattispecie incriminatrice nella quale la sua
condotta rientra. Ovviamente, il diritto ordinario non può esprimersi circa ogni fatto o
azione che possa costituire una violazione di diritti ma ragiona qualitativamente in
termini di interpretazione estensiva della norma per farvi rientrare l’intera casistica,
seppur eterogena. Tuttavia, sin da subito è stato chiaro ai vittimologi quanto oltre alle
categorie vittimogene date, ve ne fossero altre “nascoste” (Saponaro, citato in
Prosperi, 2010, p.95) dovute ad azioni “non socialmente e formalmente costruite”
(Prosperi, 2010, p.95). L’intuizione si deve a Emiliano Viano che, nel 1989, ha proposto
l’idea che vi potessero essere condotte messe in atto all’interno di un gruppo sociale
che di fatto costituiscono vittimizzazione, anche se non considerate formalmente come
reati e che di fatto non sono o non possono essere perseguite dalla legge. Con questo
si intende che l’azione giudicata accettabile o suscettibile di riprova sociale dipende
sostanzialmente da un fattore fondamentale: la cultura.
Il termine cultura non ha un significato univoco, anzi è un costrutto multi-sfaccettato
che può essere inteso sotto diversi punti di vista. Nel senso ampio del termine la
cultura identifica i modi di vivere e di pensare e lo si usa ad oggi per sostituire le
espressioni come “ideologia”, “tradizione”, “morale”. Nel senso stretto del termine si
intende con cultura il “patrimonio di cognizioni, esperienze acquisite da una persona
tramite lo studio, ai fini della specifica preparazione in uno o più campi del sapere”
(Basile, 2011, p.344). Il concetto di cultura, inoltre, è stato sviscerato anche dagli studi
antropologici che lo intendono come insieme di conoscenze, credenze, arti, morale,
diritto, costumi e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita da ogni membro della
comunità di riferimento (Taylor, citato in Basile, 2011). Più recentemente si è
incominciato a pensare che il concetto di cultura fosse legato a processi psicologici e
sociali tipici di un sistema sociale per cui la si intende come l’insieme di concezioni
proprie, ampiamente interiorizzate, consuetudinarie e socialmente ereditate che
costituiscono significati “incorporati” e/o agiti costitutivi della persona e del suo modo di
vivere. Tali significati si manifestano nei discorsi, e quindi nei posizionamenti semantici
da cui tali significati emergono, e rientrano nelle pratiche di self-monitoring e self-
perpetuating di ogni individuo (Shweder, citato in Basile, 2011). Quindi, secondo
questa definizione, affinché si possa parlare di cultura è necessario che i membri della
comunità abbiano largamente acquisito l’etica e i valori e li abbiano interiorizzati per
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costruire la propria identità sociale. Avere una propria identità sociale permette
all’individuo di riconoscersi in quanto membro della comunità e garantirsi una certa
coerenza comportamentale stabile nel tempo.
La cultura è essenziale, non solo per lo sviluppo psicologico dell’individuo, ma
anche per il suo sviluppo biologico (Basile, 2011). Sembrerebbe, quindi, che la cultura
giochi un ruolo significativo sia sul piano organico che su quello psicologico. Sarebbe,
quindi, facile incorrere nell’errore di credere che l’individuo sia quasi
deterministicamente orientato dalla cultura senza che egli possa giocare alcun ruolo
significativo. In realtà, esiste uno spazio di libertà (ivi), più o meno ampio, nel quale la
persona sceglie come interpretare la sua cultura, e i significati che vi associa sono
comunque permeati dalle necessità storiche alle quali il soggetto deve sopperire. Ed è
questo lo spazio in cui si possono sviluppare interpretazioni alternative, quasi
divergenti, della cultura dominante. Questo, è lo stesso spazio nel quale alcuni popoli
decidono di osservare in modo stretto e osservante (Barbagli, citato in Basile, 2011) i
loro usi e costumi, in alcuni casi distorcendone il significato originario, ponendosi come
custodi o difensori del tradizionalismo popolare, oppure decidono di adeguare la loro
etica e i loro valori ai mutamenti storico-sociali di quest’epoca, pur mantenendo fede
alla tradizione.
Il discorso sulla cultura diventa ancora più attuale se si parla di multiculturalismo
(Cesareo, citato in Prosperi, 2010). Il multiculturalismo è un elemento essenziale
nonché centrale delle società moderne. Tanto la globalizzazione quanto i flussi
migratori hanno svolto un ruolo significativo nell’avvicinare culture e popoli
estremamente diversi gli uni dagli altri. I flussi migratori in costante aumento creano
occasioni di incontro/scontro tra la popolazione ospite e la popolazione ospitata. In un
quadro di questo tipo si possono verificare due processi sostanziali: l’integrazione
effettiva della cultura minoritaria sia in termini di assimilazione culturale che di pacifica
convivenza; l’emarginazione della cultura minoritaria che è inserita solo
geograficamente nel territorio senza però entrare effettivamente in contatto con la
cultura ospite (Prosperi, 2010). Questo secondo scenario crea non poche ostilità tra le
due popolazioni, in un contesto nel quale la cultura maggioritaria chiede l’integrazione
e/o l’adesione della popolazione minoritaria ai suoi costumi, valori etici e morali, e
l’altra si vede costretta ad assumere una posizione difensiva rispetto alla percezione di
una vera e propria “aggressione ideologica” alla sua identità sociale (ivi). Il pluralismo
culturale che inevitabilmente si crea è indice di un conflitto che pone su due rette