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INTRODUZIONE
In questo lavoro ho cercato di analizzare alcuni aspetti di una disciplina che, da
più di cinquant‟anni, occupa una interessante fetta del panorama criminologico
nazionale e internazionale: la vittimologia.
L‟interesse per tale argomento è nato durante gli studi affrontati nel corso di
laurea e soprattutto mi ha incuriosito il fatto che si parlasse sempre e solo del
“criminale”, raramente della persona offesa.
Dal mio punto di vista ritengo che l‟analisi della vittima debba avere
un‟importanza superiore rispetto allo studio del criminale in quanto è il
danneggiato che risente maggiormente delle conseguenze negative derivate
dall‟atto criminoso; basti pensare al disturbo post-traumatico da stress.
Inizialmente è stato abbastanza semplice trovare materiale che trattasse questa
tematica evidenziandone in particolare l‟aspetto psicologico. Numerosi sono
stati gli autori che hanno apportato utili contributi a quella che molti
definiscono una nuova scienza e moltissimo se ne è parlato in televisione e
sulla stampa.
Successivamente ho incontrato invece molte difficoltà nel reperire notizie
riguardanti la vita di Natascha Kampusch
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che ritengo esempio per eccellenza
della figura di vittima; sia giornali sia i siti internet riportavano informazioni
insufficienti ai miei fini, che non mi permettevano di approfondire ciò che era
accaduto prima della sua fuga, solo trovando la traduzione in italiano
dell‟unico libro scritto sull‟intera vicenda ho risolto, almeno in parte,
l‟empasse.
Nella prima parte del mio lavoro di laurea ho introdotto la “Vittimologia”
specificando il ruolo rivestito dalla persona offesa nella società e ponendo a
confronto alcune delle definizioni proposte dagli autori per comprendere cosa
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Natascha Kampusch, bambina rapita alla tenera età di dieci anni e miracolosamente fuggita
dal suo rapitore dopo otto anni vissuti segregata in un piccola cella.
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si intende con la parola “vittima”. All‟interno di tale scienza si identificano tre
indirizzi di pensiero:
• il primo considera la vittimologia strettamente legata alla criminologia
(vittimologia criminale);
• il secondo, una disciplina a se stante, con un proprio progetto di studio e
una propria metodologia, indipendente dalla criminologia (vittimologia
generale);
• l‟ultimo incentra il suo pensiero sulla prevenzione della vittimizzazione,
sulle cure e sul trattamento dei suoi effetti in termini psichici, fisici e sociali
ma, soprattutto, mira alla riduzione del danno tramite specifici interventi
terapeutici (vittimologia clinica).
Hans von Henting
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e Benjamin Mendelsohn
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sono considerati i padri fondatori
di tale disciplina e, insieme ad altri, hanno elaborato delle classificazioni della
figura della vittima, evidenziandone caratteristiche psicologiche e
predisposizioni che possono favorire tale particolare “status”. Le persone
offese possono essere considerate tali anche in base alla fattispecie di reato; fra
esse individuiamo le vittime di violenza domestica, di stalking, di mobbing e di
mafia.
La seconda parte è dedicata, invece, agli aspetti giuridici della vittima, alla sua
tutela in ambito penale e in particolare alla mediazione e alla sua effettiva
attuazione. Per troppo tempo la persona danneggiata è stata trascurata dal
sistema giudiziario e solo ultimamente sono state effettuate delle modifiche alle
norme che investono la sua salvaguardia. Un aspetto molto importante è quello
della mediazione penale, processo attraverso il quale una terza persona neutrale
tenta di permettere alle parti di confrontarsi e di cercare una soluzione al
conflitto. In Italia tale proposta trova spazio soprattutto nell‟ambito del
procedimento minorile, grazie all‟art. 28 che prevede la sospensione del
processo e la messa alla prova del reo. In questo caso il giudice può impartire
delle prescrizioni obbligatorie nei confronti del minore autore di reato,
prevedendo anche la riconciliazione con la vittima. La mediazione ha un suo
spazio privilegiato anche nel procedimento davanti al Giudice di Pace che ha
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Hans Von Hentig (1887-1974), criminologo tedesco.
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Benjamin Mendelshon, criminologo franco-israeliano.
3
sempre l‟obbligo di incoraggiare la conciliazione delle parti. Nel procedimento
penale ordinario, invece, questa pratica incontra numerosi ostacoli e per ora
resta solo un‟ipotesi in attesa di una normativa che gli permetta di svolgere il
suo ruolo.
La terza parte della tesi pone l‟attenzione sulla vicenda di Natascha Kampusch
che mi ha particolarmente colpito per la grande forza d‟animo che la donna ha
avuto restando sempre lucida e attenta capace di reagire positivamente fino a
sfruttare a proprio favore la fiducia guadagnata sul suo sequestratore.
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CAPITOLO 1: INTRODUZIONE ALLA VITTIMOLOGIA
1.1 La vittima nel corso della storia.
Il ruolo, l‟importanza e la visibilità della vittima hanno subito diverse
modificazioni nel corso della storia della società e dei costumi. Questi
cambiamenti riguardano l‟evoluzione culturale del concetto ed anche i
molteplici approcci adottati per l‟interpretazione di alcune nozioni, prima tra
tutte quella di responsabilità.
Il termine vittima è molto antico, può essere rintracciato in quasi tutte le civiltà
ed è soprattutto collegato all‟offerta religiosa. I rituali primitivi contenevano
l‟idea del sacrificio divino, nel quale esseri umani o animali erano immolati,
esprimendo così una dipendenza dell‟uomo nei confronti della divinità.
Questo vocabolo deriva dal latino victima ed indica la creatura offerta in
sacrificio, anche la religione cristiana cattolica ne fornisce alcuni esempi,
nell‟Antico Testamento lo ritroviamo in modo frequente, basti ricordare
Abramo che si rassegna ad immolare l‟unico suo figlio in nome della
grandezza e onnipotenza di Dio. Anche nel Nuovo Testamento è il Cristo, vero
agnello di Dio, a sacrificarsi per salvare l‟umanità dal peccato originale.
Ciò che in ogni caso è maggiormente evidenziata, descritta e ricordata è
soprattutto la violenza dell‟atto criminoso, ancora oggi, il termine vittima, è
associato a immagini che negano o sminuiscono il suo essere “persona”, infatti,
la parola victima ha origine dall‟unione di due verbi, vincire e vincere: il primo
richiama lo stato d‟impotenza e debolezza, caratteri tipici della persona offesa
dal reato; l‟altro designa la passività che fa della vittima una sorta di perdente,
identificandola in chi soccombe al vincitore, quindi allo sconfitto.
Negli antichi sistemi, l‟attenzione per la vittima era sicuramente maggiore
rispetto a quella che possiamo notare negli attuali ordinamenti, di solito più
attenti a salvaguardare e tutelare la persona dell‟indagato/imputato che quella
dell‟offeso.
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Eppure, S. Schafer
4
, ha affermato che c‟è stato un tempo in cui la vittima era
contemporaneamente anche giudice e quindi poteva decidere, impartire ed
infliggere personalmente la pena contro il reo, epoca questa, in cui diritto e
ordine avevano origine dall‟individuo. Durante tale periodo il bisogno di
sicurezza e il desiderio di prevenire attacchi futuri, provocavano spesso nelle
società preistoriche, saccheggi e violenze e, in mancanza di organi accusatori,
l‟esercizio dell‟azione penale era una prerogativa concessa direttamente alla
vittima.
Con il passare degli anni sono mutate anche le forme societarie, da primitive a
più complesse, e in questo caso la colpa per l‟offesa inflitta e la responsabilità
di vendicarla, è passata dal singolo individuo al gruppo, come una sorta di
“faccenda” fra famiglie con le cosiddette vendette di sangue, lo scopo di tali
azioni era il ripristino dell‟equilibrio e della coesione interni. I documenti
pervenuti ci mostrano come la realtà fosse improntata all‟insegna di un‟estrema
severità nei confronti dell‟offensore e il Codice di Hammurabi (1750 a. C.)
rappresenta il simbolo più significativo di tale filosofia penale. Esso presentava
due aspetti particolarmente significativi: prima di tutto l‟obbligo del criminale
a risarcire il danno, ciò suggerisce che l‟orientamento non fosse esclusivamente
il tutelare o riparare i diritti della vittima, ma tendente a rafforzare il senso
della punizione nell‟offensore, fungendo da dissuasore nei confronti di azioni
analoghe; in secondo luogo, veniva mantenuta la responsabilità della famiglia
nei confronti della parte offesa in quanto, nel momento in cui il colpevole fosse
fuggito, ciascun membro del clan sarebbe stato considerato responsabile,
inclusi coloro che non avevano preso parte al delitto.
Anche oltre oceano le cose erano analoghe: gli Incas facevano riferimento ad
un elenco di sanzioni e crimini trasmessi oralmente di generazione in
generazione, le loro punizioni erano spesso brutali e severe; si pensi alla pena
di morte applicata di frequente, alla tortura ed altre forme di sofferenza inflitta.
Tra questi popoli la vittima rivestiva un ruolo principale e privilegiato al punto
tale che la società stessa se ne prendeva cura, ma la legge non era uguale per
4
S. Schafer, sociologo e criminologo contemporaneo, Victimology: the Victim and his
Criminal, Reston Publishing Company Inc., Reston, Virginia, 1977.
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tutti e la commisurazione della pena era corrisposta rispetto alla casta di
appartenenza della vittima.
Il presupposto comune sul quale si basavano le diverse culture era la nozione di
atto criminale, inteso come un evento di duplice natura: da un lato era
considerato come condotta che produceva un danno, quindi alla vittima
spettava il diritto di determinare la pena e il risarcimento da infliggere al reo;
dall‟altro, il crimine era visto come un atto che non solo turbava la vita della
comunità ma anche quell‟armonia universale tra uomini e divinità, infranta
dalla condotta criminale.
In questo contesto la vittima aveva un ruolo centrale: poteva scegliere tra un
risarcimento dal criminale oppure portare il caso davanti a un membro della
comunità, riconosciuto come portatore di saggezza ed equità.
Il cambiamento decisivo si è avuto con l‟introduzione, in ambito economico,
della moneta. Nel momento in cui i gruppi sociali iniziarono a stabilirsi sul
territorio abbandonando lo stile di vita nomade, la reazione nei confronti del
danno alla vittima divenne meno severa. Analogamente, grazie al passaggio da
un‟economia di scambio ad un‟economia monetaria, le classi sociali
diventarono sempre più complesse provocando cambiamenti anche in ambito
penale. Al posto dell‟antica legge del taglione la società ha preso in
considerazione il valore del denaro e altre forme simboliche di compensazione
per il delitto commesso. In ogni modo restava indiscusso il fatto che la vittima
doveva ricevere una riparazione per il danno subito, sebbene ciò rimaneva
confinato nell‟ambito di un compromesso privato.
Anche il risarcimento monetario variava secondo l‟età, status sociale e sesso
della persona offesa.
Le cose si modificarono di nuovo con la nascita di stati territoriali fondati su
norme scritte e organismi amministrativi. In questo periodo gli interessi della
vittima nei confronti del danno subito furono subordinati a quelli del governo.
Nacquero i concetti di Stato e sovranità; quest‟ultimo soprattutto favorì
l‟allontanamento della vittima dalla giustizia, di conseguenza, il reato fu
considerato non più come una questione privata tra due individui, ma come
un‟offesa alle pubbliche leggi.
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Il ruolo della vittima iniziò a perdere a mano a mano rilevanza in quanto era
allora il potere sovrano a tutelare e garantire l‟ordine sociale, così la vittima
finì col divenire una “semplice circostanza” del delitto e quindi anche la
compensazione iniziò a trasformarsi in un‟entrata economica dello Stato. In
principio al monarca spettava solo una piccola parte del risarcimento, per
arrivare nel tempo ad impossessarsi di tutto l‟ammontare.
D‟ora in poi i ruoli dell‟offensore e della vittima saranno distinti, considerando
quest'ultima soltanto come parte meramente danneggiata.
La rivoluzione americana e quella francese contribuirono a separare sempre di
più il potere dello Stato da quello del singolo, limitando in modo inevitabile i
diritti di quest‟ultimo.
L‟affacciarsi della prospettiva psicoanalitica di Sigmund Freud
5
, introdusse un
ulteriore cambiamento riguardo la definizione dei ruoli di criminale e vittima,
secondo l‟autore, quest‟ultima raramente è innocente rispetto all‟evento subito,
poiché è parte attiva dello stesso, in questi termini si riscopre il suo ruolo sotto
aspetti comportamentali e psicologici che contribuirono alla nascita di una
nuova disciplina vittimologica.
1.2 La vittima: definizioni a confronto.
Stabilire in modo certo quali soggetti possono essere definiti “vittime”, ancora
oggi è un‟operazione che presenta delle difficoltà. Se si sceglie di non seguire
una definizione giuridica (nei vocaboli di “persona offesa dal reato” o di
“danneggiato”), possiamo notare la scarsità di descrizioni da un punto di vista
sociologico, psicologico e criminologico riguardante i soggetti offesi. Fin dalle
origini, la criminologia ha prestato maggiore attenzione all‟autore del reato,
lasciando in ombra il soggetto che lo ha subito; abbiamo quindi una grande
quantità di studi sulla figura del criminale e molto poco su quella della vittima.
5
S. Freud, (1856-1939), neurologo, psicanalista, filosofo austriaco, Al di là del principio del
piacere, in Opere (a cura di C. Musatti ), Boringheri, Torino, 1977.
8
E‟ però indiscutibile il fatto che vittima e autore di reato costituiscono la
“diade” dalla quale ha origine l‟evento criminoso rappresentando quindi un
accostamento chiaro ed evidente.
E. A. Fattah
6
ha più volte sottolineato che nella definizione di chi sia la vittima
e chi l‟offensore, molto dipende da una serie di fattori, oltre che dall‟azione
pianificata o intenzionale del soggetto indicato come l‟autore del reato. In
questo senso i due ruoli non sono necessariamente antagonistici, ma spesso
sono complementari o addirittura interscambiabili.
Alcuni autori hanno fornito varie definizioni della nozione di vittima.
G. Lopez
7
la descrive come un individuo che riconosce di essere stato colpito
nella propria integrità personale da un agente esterno, identificato nella
maggior parte dei casi in un soggetto appartenente al corpo sociale, che ha
causato un danno evidente. Con il termine “corpo sociale” si fa riferimento alle
istituzioni formali o ai gruppi informali che costituiscono il tessuto sociale.
Questa definizione è interessante in quanto pone in risalto il danno che viene
riconosciuto sia da parte del singolo sia dalla comunità.
L‟enfasi rivolta al riconoscimento è presente anche nella definizione di E.
Viano
8
: afferma che lo status di vittima si acquisisce tramite un processo
durante il quale il soggetto offeso attraversa quattro stadi successivi che, però
non implicano un passaggio automatico ed immediato dall‟uno all‟altro.
Il primo è dato dalla presenza di un danno, da condizioni di sofferenze prodotte
da azioni o da omissioni. Non sempre però la “menomazione” è evidente ed ha
bisogno di essere accertata; a differenza della sofferenza fisica, di facile
riscontro, l‟angoscia o il tormento psicologico sono ben difficili da identificare
e da riconoscere.
Il secondo stadio è dato dalla capacità del soggetto offeso di percepirsi come
vittima, ossia di riconoscere la vittimizzazione come un‟esperienza immeritata
6
E. A. Fattah, professore di criminologia presso l‟Università Simon Fraiser, British Columbia,
Canada, “Victims and Victimology: The Facts and the Rhetoric”, in E. A. Fattah (edited by),
Towards a Critical Victimology, St. Martin‟s Press, New York, 1992.
7
G. Lopez, psichiatra, Victimologie, Dalloz, Paris, 1997.
8
E. Viano, professore di criminologia e vittimologia all‟Università Americana di Washington
DC, “Vittimologia oggi: i principali temi di ricerca e di politica pubblica”, in A. Balloni, E.
Viano (a cura di), IV Congresso Mondiale di Vittimologia. Atti della giornata bolognese,
Clueb Bologna, 1989.
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ed ingiusta. È da sottolineare, in questo caso, come gli orientamenti culturali
giocano a sfavore della persona offesa non permettendole di percepirsi come
tale ma addirittura spingendola a considerarsi l‟unica responsabile del danno
subito. Il non identificarsi come vittima dipende anche dall‟impossibilità di
scorgere alternative diverse rispetto alla propria condizione, tanto che
l‟individuo non vede via d‟uscita al suo stato di patimento.
Riconoscersi come vittima significa entrare nel terzo stadio attinente al “cosa
fare”. Dopo aver subito un danno il soggetto può decidere di confidare questa
esperienza a qualcuno vicino oppure renderla pubblica e denunciare il fatto. Su
tali decisioni intervengono numerose variabili che rendono difficile la scelta: il
rapporto interpersonale tra reo e vittima oppure il timore di essere ridicolizzati
ne sono alcuni esempi. Spesso questi fattori favoriscono il reo costringendo la
vittima al silenzio, ma una condotta di tale genere da parte della persona offesa
è allarmante e pericolosa perché la prospettiva di impunità dell‟offensore
permette che il reato possa essere reiterato.
Si evince che l‟attuazione positiva del terzo stadio permette il passaggio al
successivo dove il soggetto ottiene il riconoscimento del proprio stato da parte
delle istituzioni e dalla comunità, ricevendo sostegno e giustizia. Qualora però
l‟individuo riconosciuto come vittima non veda l‟accoglimento del suo status
da parte della collettività, ne derivano situazioni che originano il processo detto
di “vittimizzazione secondaria” appunto perché successivo all‟evento
criminoso.
Normalmente l‟individuo vive in condizioni di armonia e certezza e basa i
rapporti interpersonali sulla lealtà e la fiducia allorché l‟idea di divenire vittima
è avvertita come lontana. Una volta subito un crimine, nel soggetto colpito
avviene una doppia perdita: da un lato si ha la caduta della propria
invulnerabilità e inviolabilità, dall‟altro il sentimento di sicurezza inizia a
vacillare perché l‟uomo si percepisce fragile.
Per queste motivazioni il processo di vittimizzazione obbliga il soggetto ad
affrontare questioni di ampia portata come quella della relatività del “dato per
scontato”: tale situazione non è una realtà che si sperimenta abitualmente e
determina la messa in discussione di ciò che fino a quel momento era certo e
10
sicuro. Tramite la razionalizzazione della quotidianità, il soggetto crede di
poter controllare gli eventi, nel momento in cui il crimine colpisce la propria
intimità, gli aspetti sui quali poggia l‟identità vengono sconvolti, mostrando
così la vulnerabilità umana.
Nello stato di persona offesa il soggetto si trova davanti ad un duplice
estraneamento: da una parte fatica nel ritrovare quelle premesse che lo
orientavano durante l‟esistenza precedente l‟evento, capaci di dare significato
alla quotidianità e sulle quali poggiava l‟identità, dall‟altra la collettività stessa
stenta a riconoscerla, nella difficoltà di dover comprendere le nuove esigenze
ed aspettative del soggetto offeso di reato. Raramente, infatti, la comunità
possiede gli strumenti necessari a decifrare e interpretare la nuova dimensione
di colui che “torna” dopo aver vissuto una condizione di totale fragilità e
vulnerabilità.
Come afferma H. Arendt
9
, la vittima sente di non appartenere più al mondo;
“…è come se le persone vittimizzate fossero state gettate sulla strada ed il
sentiero intrapreso si confondesse fino a smarrirsi. Ed allora, in tali situazioni,
è importante la riconquista della cittadinanza, della cittadinanza attiva che non
può essere disgiunta dalla comunità”
10
.
Qualora non vi sia la possibilità di trovare una guida che favorisca un graduale
processo di riattribuzione di significati, c‟è il rischio che il soggetto si chiuda in
sé stesso, si isoli, generando emarginazione ed esclusione da parte della
collettività che porterebbero ad ulteriori e più gravi processi di vittimizzazione.
9
H. Arendt, (1906-1975), filosofa tedesca, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme,
Feltrinelli, Milano, 2003.
10
R. Bisi, dottore di ricerca in criminologia, “Quale spazio per la vittima nella società
contemporanea?”, in A. Balloni (a cura di), Cittadinanza responsabile e tutela della vittima,
Clueb, Bologna, 2006, p. 70.