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1.1 Che cos’è la IPV?
« La violenza contro le donne è forse la
violazione dei diritti umani più
vergognosa. E forse è la più pervasiva.
Non conosce limiti geografici, limiti
culturali o di ricchezza. Fintanto che
continua non possiamo dichiarare di fare
reali progressi verso l'uguaglianza, lo
sviluppo e la pace. »
(Kofi Annan, Nazioni Unite, 1999).
La violenza perpetrata all‟interno della coppia rappresenta una tematica molto controversa:
considerata un tabù per molti anni e, ancora adesso, nonostante le campagne di
sensibilizzazione di diversi Paesi ed il lavoro delle associazioni femminili, il fenomeno
rimane ancora largamente sottostimato e socialmente poco percepito a causa della difficoltà
delle vittime a denunciarlo, della scarsità delle indagini di vittimizzazione e della inadeguata
formazione degli operatori dei servizi che quotidianamente si imbattono nei casi di violenza
domestica, come le Forze dell‟Ordine, i servizi socio-sanitari ed il sistema giudiziario
(Romito, 2000).
“Quando lui è tornato dalla cena,[…] mi ha dato un calcio dietro la schiena e ho avuto
perdite ematiche.” “Poi mi diceva che era colpa mia, perché lui era nervoso ed io dovevo
capire, dovevo lasciarlo perdere […]. Lui mi urlava in faccia […]. Poi, sempre litigando,
per tenermi la bocca chiusa, mi ruppe il setto nasale.” (Gainotti M. A., Pallini S., 2008, pg.
20).
Sono queste parole di donne vere, testimonianze reali di episodi che troppo spesso
pervadono la vita familiare, spesso taciuti, negati, rimossi ma pur sempre indelebili nella
mente delle vittime.
Soltanto negli ultimi quaranta anni l‟interesse degli studiosi che si occupano delle relazioni
di coppia si è concentrato sullo studio delle varie forme di violenza che possono verificarsi
all‟interno di un rapporto intimo ed è per questo motivo che, attualmente, si preferisce al
termine violenza domestica - che rimanda ad una idea di violenza circoscritta, protetta da
sguardi o interessi indiscreti, all'interno delle mura domestiche - quello di Intimate Partner
Violence (IPV), violenza tra partner intimi, che meglio sottolinea e precisa il concetto di
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violenza in relazioni intime attuali o pregresse, tra conviventi o meno, tra eterosessuali o
omosessuali. Si può definire la IPV come “atti o tentativi di violenza fisica o sessuale,
abuso psicologico, emozionale da parte di un coniuge, ex- coniuge, fidanzato/a, ex-
fidanzato/a” (Baldry, 2006). La violenza nell‟ambiente domestico è di solito opera degli
uomini che con le vittime hanno, o hanno avuto, un rapporto di fiducia, di intimità e di
potere: mariti, fidanzati, padri, suoceri, patrigni, fratelli, zii, figli, o altri parenti. I dati del
fenomeno sono sconvolgenti. Secondo un‟indagine Istat (Istat, 2006) su un campione di
donne tra i 16 ed i 70 anni, il 31,9% di esse è stata oggetto di violenze fisiche o sessuali nel
corso della vita, il 23,7% ha subìto violenze sessuali, il 4,8% stupri o tentativi di stupri. Si
stima, inoltre, che le violenze da un non partner raggiungono circa il 96% mentre quelle da
parte del partner il 93% (Gainotti, Pallini, 2008).
Tuttavia, come in tutte le forme di violenza che coinvolgono la famiglia, si verifica in tutti,
partecipanti ed osservatori, una reazione di negazione che porta a sottovalutare i fatti o, al
massimo, a considerarli eventi sporadici che capitano a qualche "vittima" che ha avuto la
sfortuna di incontrare l'uomo sbagliato: il "mostro". E spesso crediamo che questo mostro
sia talmente diverso dalla norma da essere facilmente identificabile - per caratteristiche
comportamentali, provenienza geografica, ecc. - e molto spesso, le stesse cose le pensiamo
delle vittime. Siamo portati a credere, infatti, che le vittime appartengano solo a determinati
ceti sociali o a culture tradizionali e, comunque, lontane dalla nostra realtà. Tutti questi
meccanismi servono a "prendere le distanze" da quella che, invece, è una realtà che si
manifesta in maniera massiccia in ogni gruppo sociale, paese, etnia e cultura. Ma continuare
a "non vedere" questi dati, a non ascoltare queste storie, significa non comprendere a fondo
il problema, non comprendere cosa accade tra due persone che vivono una relazione fondata
su interazioni violente (in qualsiasi forma si presentino), una relazione che difficilmente
viene troncata e che tende a durare per anni.
In questo lavoro, spesso, mi riferirò ad un uomo/aggressore e ad una donna/vittima, ma, in
realtà, i dati ci mostrano una realtà molto più eterogenea. La violenza può essere, ed è,
esercitata anche dalle donne sugli uomini, ed è presente anche nelle coppie omosessuali.
Hirigoyen (Hirigoyen, 2006), al riguardo, riporta i dati di un'indagine americana (Renzetti,
1992, in Hirigoyen, 2006) svolta nel 1990 in cui su 350 donne lesbiche, 170 dichiararono di
aver subito violenza dai loro partner. Alcune di queste donne avevano avuto anche partner
maschili, ma la maggioranza riferì di aver subito maggiori violenze da parte della compagna
che non dal compagno. Da questa indagine emerse che anche in questi legami, come in
quelli eterosessuali, la causa principale della violenza fisica era rappresentata dalla
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dipendenza affettiva e dalla gelosia.
Questa precisazione, sull'interscambiabilità dei ruoli sessuali nel mettere in atto
comportamenti violenti, si rivela importante per la comprensione del fenomeno. Infatti, pur
tenendo conto della tesi femminista, che spiega la violenza sulle donne come una violenza
di genere, dovuta alla diversa rappresentazione dell'uomo e della donna nelle varie culture,
vi sono altre analisi del fenomeno che si riferiscono alla relazione intima che si crea tra i due
partner. Vedremo come sia proprio questa relazione a connotare in maniera completamente
diversa gli obiettivi di potere e dominio all'interno della coppia.
Possiamo operare una prima suddivisione delle varie forme di IPV partendo dalla
definizione data dall' Organizzazione Mondiale della Sanità nel Rapporto "Violenza e Salute
nel mondo" : “Per violenza contro il partner si intende qualsiasi comportamento all’interno
della relazione di coppia che provochi danno fisico, psicologico o sessuale ai soggetti della
relazione” (WHO, 2002, pag. 121).
Tali comportamenti comprendono:
• Atti di aggressione fisica: schiaffi, pugni, calci e percosse.
• Abuso psicologico: intimidazione, svalutazione e umiliazione costanti.
• Rapporti sessuali forzati e altre forme di coercizione sessuale.
• Diversi atteggiamenti di controllo: isolare una persona dalla sua famiglia d‟origine e dagli
amici, controllarne i movimenti e limitare le sue possibilità di accesso a informazioni o
assistenza. Quando l‟abuso viene ripetutamente perpetrato nell‟ambito della stessa
relazione, si parla spesso di “maltrattamento” (WHO, 2002, pag. 121).
L‟atteggiamento del maltrattante è quindi un atteggiamento abusivo e l‟abuso, nella
relazione di coppia, non può essere confuso con un normale conflitto tra coniugi.
Walker (1979) è una delle prime a sottolineare l‟importanza di distinguere tra abuso e
conflitto. Parlare di conflitto, infatti, nei casi di violenza domestica significa attribuire la
responsabilità ad entrambi i coniugi, in quanto si suppone che se il partner mette in atto un
comportamento violento ed è aggressivo, la donna in qualche modo abbia la sua parte di
responsabilità nello scatenamento del fenomeno. Diversamente, nei casi in cui si parla di
abuso, la responsabilità è attribuita totalmente all‟aggressore, la soluzione ricercata sarà
finalizzata alla protezione della vittima e il giudizio morale sarà notevolmente differente
(Ponzio, 2004). Dutton (1988) sostiene che la violenza domestica ci mette di fronte a una
constatazione di fatto incontestabile: una asimmetria all‟interno della coppia, asimmetria
biologica a favore dell‟uomo che agisce la violenza, asimmetria all‟interno di una relazione
di non-reciprocità creata dall‟abuso e che confina la donna nel ruolo di vittima.
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Dutton (ibidem) afferma inoltre che, nei casi di maltrattamento, l‟ottica della reciprocità,
che vede due soggetti in competizione o in conflitto, non tiene conto del fatto che in questa
particolare circostanza le donne sono usate come oggetto di violenza, che la struttura fisica
stessa dell‟uomo non può che aver il sopravvento su quella della donna, determinando un
senso di minaccia e paura dovuto ad un tipo di pericolo fisico di cui raramente l‟uomo può
fare esperienza all‟interno di una relazione di coppia. A tal proposito Romito (Romito, 2000)
sottolinea il fatto che sia ancora presente un modo di intendere la violenza come un
fenomeno scatenato da alcune “circostanze” che in qualche modo lo depenalizzano.
L‟esistenza delle circostanze prevede degli elementi di corresponsabilità e in questo senso la
vittima assumerà il ruolo di coimputata quando non di colpevole (Serra, 1999). Questa
lettura degli eventi collude con atteggiamenti culturali e stereotipi che incidono fortemente
sullo stato emotivo delle donne vittime di violenza, le quali provano un profondo senso di
sfiducia e di colpa quando, e se, decidono di allontanarsi dal partner. Il fatto che fin da
bambine abbiano interiorizzato “qualità” tipicamente femminili come il sopportare, il saper
tacere, l‟abnegazione, la disponibilità totale e la responsabilità del buon andamento delle
relazioni, può produrre già di per sé un‟asimmetria nella coppia in quanto codifica che da
tali “virtù” ci sia qualcuno che ne trae vantaggio. E se queste “qualità” conferiscono alla
donna identità e una percezione di sé come detentrice di un ruolo ben definito,
l‟allontanarsene può significare il venir meno a principi morali fortemente radicati che
sfociano in inevitabili sensi di colpa. Le risposte, inoltre, che le donne trovano nella maggior
parte dei casi, quando si rivolgono a chi le dovrebbe tutelare e soccorrere, sono spesso di
diffidenza e riprovazione.
“L’analisi delle risposte istituzionali dà dei risultati sconcertanti: gli attori coinvolti –
familiari, operatori sociali e sanitari, poliziotti – spesso preferiscono non vedere la
violenza, non impicciarsene; sembrano condividere i valori dell’uomo violento e gli danno
ragione; colpevolizzano la donna e la convincono a restare, per il bene dei figli o per il
bene del marito (che è disoccupato, frustrato, solo, infelice, ecc.), o addirittura la
maltrattano e la insultano” (Romito, 2000, p. 74).
Paradossalmente le donne sentono aleggiare intorno a sè la stessa aura vagamente
minacciosa e di non credibilità di cui le avvolge il maltrattante, avvalorando i loro sensi di
colpa e la sensazione di star facendo qualcosa che non va e di cui vergognarsi. Tutto ciò si
inscrive in quel clima di negazione che avvolge la violenza e i crimini in famiglia di cui
abbiamo già fatto cenno. Soprattutto nel nostro Paese quello che sembra debba essere difeso
è la famiglia - o l'idea di famiglia - piuttosto che la donna. Tant‟è che se qualche vittima
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riesce a prendere l'iniziativa di denunciare il suo aggressore, non di rado può capitarle di
sentirsi consigliare, dagli stessi organi istituzionali che dovrebbero proteggerla, di desistere
dal suo intento, di pensarci bene, di tornare a casa e fare la pace con suo marito. Ma quando
un nodo di questo tipo si stringe intorno alla vita di due persone condannate a stare insieme
dalla loro stessa patologia, oltre che dalle costrizioni culturali o istituzionali, sperare che
loro ne escano da soli serve a poco.
Quello che è necessario fare con urgenza, invece, è aiutarli a portare fuori la propria
sofferenza. Chiedendo aiuto per lei e per lui perché, riconosciuto colpevole di aver picchiato
la moglie, l‟uomo che in relazioni come queste perde la sua capacità di controllo e di critica,
può essere aiutato seriamente a non diventare l‟assassino di lei e dei propri figli. La cosa più
importante da fare, dunque, è una legge che renda facile questa richiesta d‟aiuto, rompendo
la convinzione diffusa, prima di tutto, del matrimonio e della famiglia intesi come "bene
assoluto". Fino ad ora, per quanto riguarda la situazione europea, soltanto il governo
socialista Zapatero, in Spagna, ha riconosciuto la piena parità uomo-donna, istituendo dei
tribunali speciali contro la violenza domestica. Fino a Giugno 2005 ne sono stati istituiti 17,
di cui 14 sono diretti da donne. Tali misure hanno portato all‟abbassamento del numero
delle vittime mortali e all‟aumento del numero di denunce. Dopo tale istituzione, si è
registrato una media di 24 denunce al giorno (Gainotti, Pallini, 2008). Un grande passo
avanti che permette sempre meno alle donne di restar chiuse nel proprio silenzio e,
soprattutto, ad un paese europeo, ancora radicato in stereotipi sessuali e machisti forti, di
progredire e fungere da esempio per gli altri.
1.2 Le differenti forme di violenza
Ogni potere è un potere di vita e di morte.
(M. Foucault, 1977)
Heritièr, un antropologa francese, riguardo alle diverse manifestazioni di violenza
domestica, afferma:
“ La violenza è fondata su un rapporto di forza o di dominazione (dell’uomo sulla donna)
che si esercita con brutalità fisiche o psicologiche. Si tratta di imporre la propria volontà
all’altro, di dominarlo usando una serie di mezzi quali molestie, umiliazioni,
svalorizzazioni, fino alla capitolazione e alla sottomissione della vittima”. (Heritièr, 1997,
11
pag.15).
La violenza tra le mura domestiche può differenziarsi in base alle motivazioni addotte dal
perpetratore sul “perché” del comportamento violento, ma soprattutto in base alla modalità
che quest‟ultimo adotta per controllare la vittima.
Da un‟indagine sulle credenze delle popolazioni esaminate in una ricerca cross-culturale in
90 Stati sull‟intero territorio mondiale (raggruppati in: Nord America, Sud America,
Oceania, Africa, Asia, Medio Oriente, Europa ed ex Unione Sovietica), Levinson (1989)
individua almeno tre tipologie principali di maltrattamento coniugale, classificate in base
alla motivazione che spinge l‟uomo a picchiare la compagna:
- Violenza per gelosia. In 17 società gli individui intervistati pensano che il
maltrattamento coniugale ricorra come forma di punizione per l‟adulterio, o perché il
marito sospetta di essere stato tradito. Può essere categorizzata come gelosia
sessuale, in quanto in questi casi la violenza ricorre come reazione all‟infedeltà
(reale o presunta).
- Violenza per una “buona ragione”. In 15 delle società esaminate le persone
sostengono che se un uomo picchia la propria moglie, lo farà solo se ha un valido
motivo. Quale possa essere definita una “buona ragione” è oggetto di variazioni
culturali quando non di libero arbitrio; solitamente, si tratta dell‟incapacità della
donna ad adempiere ai suoi doveri, oppure nel trattare il marito con il dovuto
“rispetto”.
- Violenza per “volontà”. In 39 delle società in esame, gli individui ritengono che sia
diritto di un uomo picchiare la compagna, che vi sia una ragione oppure no
(Levinson, 1989).
Rispetto invece alle modalità e alle diverse manifestazioni della violenza domestica è
comune distinguere:
- Violenza psicologica, che comprende una gamma svariata di comportamenti al fine
di ottenere un controllo sulla vittima.
- Violenza fisica, ossia l‟uso della forza fisica nell‟imporre il potere sull‟altro;
- Violenza economica, ossia l‟impedimento per la vittima di accedere alle risorse
economiche;
- Violenza sessuale, che mira ad imporre rapporti o atti sessuali non consenzienti;
- Stalking, che è una forma di violenza psicologica che, a causa della frequenza
notevole con la quale si registra, viene considerata separatamente;
- Violenza assistita, quella subita dai figli delle coppie con dinamiche violente.
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1.2.1 Violenza psicologica
La violenza psicologica si instaura quando il perpetratore adotta una serie di atteggiamenti
e discorsi miranti a denigrare e rifiutare il modo di essere di un‟altra persona. E‟ una forma
di maltrattamento “sottile”, difficile da individuare per gli operatori esterni, a causa della
mancanza di confini precisi: una medesima azione violenta cambia a seconda del contesto in
cui è inserita e a seconda di chi la percepisce o subisce.
Non si tratta di pochi e rari momenti di ira, nei quali parole e frasi offensive cariche d‟odio
possono venir fuori, seguite poi da scuse e rimorsi. Si tratta invece di una modalità costante
di rapportarsi alla vittima: svalutare completamente il suo essere persona al fine di
controllarla, sottometterla e dominarla. E non c‟è bisogno di ricorrere alle percosse quando
basta un solo sguardo, una sola parola, una semplice espressione del viso del perpetratore
per provocare terrore e sottomissione nella vittima.
Le parole minacciose, le urla, gli insulti istillano tensione ed insicurezza nella vittima, ma è
soprattutto l‟atteggiamento connesso alle parole, il modo di urlare, minacciare e insultare,
che rappresentano un metodo valido per sottometterla completamente. Come abbiamo già
detto, per convenzione ci stiamo riferendo ad un uomo perpetratore e ad una donna vittima.
La violenza tuttavia non è un appannaggio maschile, anche le donne vi ricorrono spesso, in
particolare proprio alla violenza psicologica e alla manipolazione perversa, con lo stesso
obiettivo degli uomini: dominare l‟altro rendendolo insicuro e denigrandolo.
Rispetto alla violenza psicologica, si è visto che le donne e gli uomini non danno le stesse
spiegazioni. Gli uomini tendono a giustificare la loro intemperanza attraverso spiegazioni
esterne (“Mi ha provocato, lo fa apposta a farmi…”); le donne, invece, di fronte alle proprie
condotte improprie, danno una spiegazione interna (“ Non sa manifestare i suoi sentimenti,
non crede sia possibile amarlo…”) (Hirigoyen, 2006).
Gli insulti degli uomini verso le vittime donne riguardano spesso stereotipi sessuali e
avvengono nella maggior parte dei casi in privato, in quanto l‟aggressore ci tiene a dare una
immagine positiva di sé. Infatti, nel caso in cui gli insulti avvengono in pubblico,
l‟aggressore ricerca l‟approvazione e la complicità dei testimoni. Se la donna protesta è
perché non ha senso dell‟umorismo, è troppo suscettibile, tanto che lei inizia a dubitare della
realtà dell‟aggressione subìta.
“Mio marito si piantava davanti alla televisione e chiamava i nostri figli:<< Ragazzi,
venite a vedere che belle pupe con certe tette grosse. Mica come vostra madre!>>. Seguiva
tutta una serie di apprezzamenti pesanti sui seni delle vere donne e sul mio petto piatto.
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All’inizio mi lamentavo ma lui mi ha ripetuto talmente tante volte che non ho senso
dell’umorismo, che a tutti gli uomini piacciono i seni grandi, che, alla fine, in quei momenti,
andavo a chiudermi in cucina.” (Hirigoyen, 2006, pg. 43-44).
Pur essendo difficile da identificare e definire in modo oggettivo la violenza psicologica si
articola intorno ad alcuni assi comportamentali o a microviolenze che si ripetono in maniera
ricorrente nella maggior parte dei casi.
Una classificazione esaustiva delle tipologie di violenza psicologica è quella proposta da
O‟Leary & Maiuro (2001), che articola intorno a quattro assi fondamentali le
manifestazioni violente:
Denigrazione a danno dell’immagine del sé e della stima della vittima:
- Urlare;
- Riferirsi con modi svalutativi, denigratori e di scherno;
- Usare nomignoli;
- Rivolgere offese riguardanti il comportamento e l‟aspetto;
- Far vergognare o imbarazzare di fronte agli amici e alla famiglia;
- Tentativi per farne disamorare e allontanare i figli;
- Fare critiche continue;
- Ridicolizzare e canzonare;
- Invalidare i sentimenti;
- Attribuire un sovraccarico di responsabilità personali attraverso la colpa;
- Focalizzarsi sulla sua persona piuttosto che sul comportamento.
Rifiuto passivo-aggressivo del supporto emozionale:
- Uso dell‟evitamento e del ritiro a scopo punitivo;
- Mettere il broncio;
- Trattare con il silenzio;
- Trascurare;
- Fare i dispetti;
- Essere irritabile e scontroso/a;
- Abbandonare emotivamente;
Minacce esplicite ed implicite:
- Minacce di colpire fisicamente;
- Di sfigurare;
- Di uccidere;
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- Di divorziare;
- Di portare via i figli;
- Mentire ed essere infedeli;
- Sottoporre la vittima ad una guida spericolata o a comportamenti imprudenti.
Restrizione del territorio personale e della libertà:
- Isolamento dalla famiglia e dagli amici;
- Controllare e pedinare ovunque;
- Controllare il diario o i numeri di telefono;
- Impedire alla /al partner di andare a lavorare o di andare a scuola;
- Impedire di fare delle cose di propria iniziativa;
- Controllare i suoi soldi;
- Interferire con l‟uso del telefono della vittima;
- Tenere le chiavi della macchina o impedirne l‟uso;
- Utilizzo di stereotipi sessuali;
- Considerare il partner come un diritto e una proprietà.
Il controllo, innanzitutto, è il comportamento più evidente e frequente ed, allo stesso tempo,
il fine ultimo della violenza. Il partner cerca di controllare ogni tipo di movimento,
situazione, comportamento, abitudine, atteggiamento, nonché pensiero della vittima.
“Claude che aveva il sonno agitato, svegliava regolarmente la moglie per domandarle se
dormiva. Non poteva sopportare che lei gli sfuggisse nel sonno” (Hirigoyen, 2006, pg. 25).
Il controllo si estende quindi a tutte le aree delle vita della vittima: l‟orario dei pasti, il fare
la spesa, l‟andare al lavoro, l‟avere relazioni sociali, la gestione della casa e addirittura il
pensare è oggetto di controllo e possesso del carnefice: “ V oglio sapere a cosa pensi!”.
L’isolamento è un altro comportamento che fa sì che la violenza possa continuare: isolare la
vittima dalla sua famiglia, dai suoi amici, dai colleghi di lavoro, dai suoi parenti permette al
perpetratore di essere il solo ed unico punto di riferimento per la donna. Molte volte sono le
donne ad autoisolarsi sia per avere pace, sia per evitare la disapprovazione e le ire dei
mariti. E così si ritrovano senza cellulare, senza computer, senza chiavi della macchina,
senza carta di credito ma soprattutto senza amici, senza famiglia, sole con i propri aguzzini.
L‟isolamento è sia una causa che una conseguenza dei maltrattamenti.
“Il marito non lasciava che Sonia uscisse o guidasse da sola. Lei non aveva carta di credito
né libretto degli assegni. Non aveva nemmeno la chiave della cassetta delle lettere, perché
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lui ci teneva ad aprire tutta la posta” (Hirigoyen, 2006, pg.26).
Il controllo spesso può manifestarsi sotto forma di gelosia patologica. Tale gelosia non
appare giustificata da nessun evento reale, da nessuna infedeltà, ma proviene da una
tensione interna del perpetratore che deve essere placata. La donna è “altro sa sé” ed è
questo che al perpetratore appare insopportabile: accettare l‟alterità dell‟altro. Quindi con
rimproveri, minacce, ricerche di prove continue su presunte infedeltà e in alcuni casi con
violenza fisica, l‟uomo cerca di lenire la delusione della consapevolezza che la donna non
sia una sua esclusiva proprietà, ma che abbia un passato, dei pensieri, delle idee.
Conseguenza di ciò sono le molestie assillanti, che consistono nel ripetere continuamente e
ripetutamente alla donna un messaggio, fino a saturare le sue capacità critiche e di giudizio,
facendole accettare e ammettere qualsiasi cosa.
“ Può passare notti intere ad interrogarmi per essere sicuro che non l’abbia tradito.. per
stare tranquilla finisco per dire quello che lui vuole che dica.” (Hirigoyen, 2006, pg. 28).
Frequenti sono le molestie assillanti dopo una separazione, ossia, sorvegliare l‟ex partner,
molestarlo telefonicamente, aspettarlo sotto casa ad ogni ora, che diventano in questo caso
un vero e proprio stalking, un tipo di violenza particolare che vedremo di seguito.
Le critiche avvilenti e le umiliazioni hanno invece lo scopo di minare l‟autostima ed il
valore della persona. Dimostrare alla partner che non ha valore, denigrarla, formulare dubbi
sulla sua capacità mentale, negare le sue emozioni, accusarla di essere fuori luogo, di essere
una pessima padrona di casa, di non essere capace di educare i figli, criticarne l‟aspetto
fisico e mentale al fine di manipolare la donna e di condurla a perdere la fiducia in se stessa.
“ Mentre gli stavo rimproverando la sua infedeltà, mio marito mi ha trascinata in bagno e
buttata per terra: << Sto per farti vedere cosa sei per me!>> E mi ha orinato addosso.”
(Hirigoyen, 2006, pg. 31).
Spesso si tratta di umiliazioni a contenuto sessuale che, col passar del tempo, generano un
profondo senso di vergogna, una frattura dell‟identità, un cedimento interiore. La vergogna
è l‟ostacolo principale nel chiedere aiuto. La vittima ha vergogna nel raccontare fatti e
accaduti tanto intimi, quanto avvilenti per la sua persona da non trovare le parole ed il
coraggio.
Le intimidazioni e le minacce recano un preciso messaggio al destinatario:” Guarda la mia
forza!”. L‟uomo può guidare in modo pericoloso, giocare con un coltello, sbattere e rompere
porte, oggetti, oppure minacciare l‟altro di portare via i bambini, di tagliare i fondi e
addirittura, come tentativo di suscitare i sensi di colpa, può minacciare il suicidio. Il ricatto
del suicidio è estremamente grave perché porta il partner ad addossarsi la responsabilità
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della violenza.
Anche l’indifferenza alle richieste emotive rappresenta una violenza psicologica, in quanto
l‟altro viene ignorato nelle sue esigenze e quindi, ancora una volta, nel suo essere “persona”.
1.2.2 Violenza fisica
In uno scenario di violenza domestica, le diverse forme sono sovrapposte.
"Violenza fisica e violenza psicologica sono legate: nessun uomo si mette a picchiare la
moglie dall'oggi al domani senza motivo apparente in una momentanea crisi di follia. La
maggior parte dei coniugi violenti preparano prima il terreno, terrorizzando la compagna.
Non esiste violenza fisica che non abbia avuto un retroterra di violenza psicologica"
(Hirigoyen, 2006, pag. 21).
Molte volte accade, infatti, che la donna riesce a resistere alla violenza psicologica ed il
partner ha bisogno di esercitare un controllo maggiore per ostacolare l‟indipendenza
dell‟altro. Le aggressioni fisiche rappresentano il tentativo estremo di sottomettere la vittima
ed includono una vastissima gamma di comportamenti e violenze che vanno dal semplice
“spintone” fino all‟omicidio:
- Spintonare;
- Picchiare;
- Schiaffeggiare;
- Prendere a calci;
- Prendere a pugni;
- Costringere nei movimenti;
- Colpire con oggetti;
- Sputare contro;
- Mordere;
- Dare pizzicotti;
- Prendere per il collo;
- Graffiare;
- Strappare i capelli;
- Bruciare con le sigarette;
- Colpire con qualsiasi tipo di arma;
- Privare di cure mediche;
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- Privare del sonno;
- Uccidere o tentare di uccidere.
L‟uomo violento sa che alcuni comportamenti non lasciano traccia: colpire di piatto il
ventre, tirare i capelli, torcere le braccia oppure mascherare un tentativo di strangolamento
con un semplice foulard al collo della vittima. Eppure non di rado ai pronto soccorsi si
assistono a scene devastanti: donne con fratture in ogni parte del corpo, senza denti per i
colpi al viso, con danni agli organi interni ed aborti quando è in corso una gravidanza.
Il caso più estremo di violenza è l‟omicidio della partner. Secondo i dati Eures- Ansa, ossia
un rapporto sugli omicidi volontari in Italia (Eures-Ansa, 2005), le violenze familiari
rappresentano la prima causa di morte più del cancro e degli incidenti stradali per donne tra
i 16 ed i 44 anni. In generale, emerge che:
- 1 omicidio su 4 avviene in famiglia;
- il 70% delle vittime sono donne;
- in 8 casi su 10 l‟autore è un uomo;
- soltanto nel 2005 sono state uccise 138 donne in famiglia.
Nella maggior parte dei casi l‟omicidio avviene in seguito alla separazione. Il coniuge
prende totalmente coscienza dell‟alterità dell‟altro e, non volendo accettare ciò, preferisce
uccidere la compagna, per poi cadere, il più delle volte, esso stesso, in uno stato depressivo
che può condurlo al suicidio. Capita anche che l‟uxoricidio sia premeditato e non soltanto
un semplice “incidente”. E‟ tipico della gelosia patologica: il geloso vuole vendicarsi
quando la moglie lo lascia, facendo in modo che la “sua donna” non possa essere di nessun
altro uomo all‟infuori di lui.
1.2.3 Violenza economica
La violenza economica è considerata a tutti gli effetti una tipologia a sè stante di violenza
psicologica, in quanto rappresenta un ricatto supplementare alle svalutazioni ed ai
maltrattamenti fisici, che impedisce alle donne di guadagnarsi da vivere in maniera
autonoma oppure, nell‟altro caso, le costringe a dover provvedere con i propri guadagni
anche al partner. Per "violenza economica" si intende: “l’insieme delle strategie che privano
la donna della possibilità di decidere o agire autonomamente e liberamente rispetto ai
propri desideri e scelte di vita” (Bruno, 1998, p. 83).