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ξ BIOPSICOSOCIALE: l’aggressività è un comportamento diretto, da un organismo
verso un obiettivo, che ha come conseguenza un danno (Renfrew J., 1997)
ξ PSICHIATRICO: si definisce aggressività qualsiasi forma di comportamento diretto
al fine di nuocere o procurare lesioni a un’altra persona, motivata a evitare tale
trattamento. Quindi, l’aggressività implica l’intenzione di provocare del male
nell’altra persona (Kaplan H. e coll.,1997).
Il crimine al femminile risulta, secondo le statistiche più recenti, da sei a otto volte
minore di quello maschile. Questo dato non riguarda soltanto la nostra penisola, ma trova
riscontro in quasi tutti i Paesi, anche quelli con culture e mentalità differenti da quella
occidentale. La disparità quantitativa tra delinquenza femminile e maschile è stata
riscontrata fin dai primi studi criminologici che si sono occupati del problema.
Della minor incidenza statistica della criminalità femminile, sono state fornite
molteplici chiavi interpretative, delle quali si può già anticipare che nessuna di queste
ipotesi si è poi, rivelata esauriente. Bisogna considerare che la minor criminalità della
donna è più apparente che reale, perché una certa parte delle condotte criminose femminili
non è rivelata: ad esempio è stato ipotizzato che in caso di concorso o di cooperazione
materiale o istigazione al delitto, la partecipazione della donna è più facilmente
mascherata dal ruolo di secondo piano che le viene attribuito, oltre che dall’atteggiamento
omertoso e di protezione dell’uomo nei confronti della donna (Smart, C.,1981).
Fin dagli studi di Cesare Lombroso, autore del libro :”La donna delinquente”, è stato
ritenuto significativo, nel rendere ragione dell’inferiorità della criminalità femminile, il
fatto che la prostituzione offrisse alla donna una modalità di esprimere un comportamento
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disadattato come quello criminoso, senza essere, come quest’ultimo, perseguibile
penalmente. Mentre nell’uomo l’ambiente e la personalità anomali favoriscono il
comportamento delittuoso, gli stessi fattori nella donna, la indirizzano verso una condotta
parimenti deviante, ma non antigiuridica, come la prostituzione (Smart C., 1981). Sono
state avanzate, anche, interpretazioni psicologiche per spiegare il fenomeno: vi sarebbe
una maggior tendenza nella donna a tradurre in senso nevrotico la conflittualità provocata
da fattori ambientali disturbanti; nell’uomo gli stessi fattori agirebbero in senso
alloplastico, cioè risolvono la tensione con il passaggio all’azione. Gli uomini sono sempre
stati più violenti, più impulsivi, hanno ucciso in accessi di rabbia, in risse, in raptus
alcolici, nel corso di rapine, per commissione. Hanno ucciso per ambizione, rivalità,
perdite al gioco, dopo una sconfitta (ibidem).
Comunque non si è ancora riusciti a dare risposta a questa domanda: essendo così
“mostruose”, perchè sono in minoranza rispetto agli uomini ? Il criminologo Pollak O.
(1961) ha parlato di mascheramento dei crimini femminili dovuti ad un comportamento
complice, volontario o involontario maschile. Questo comportamento è dovuto al
ribaltamento del ruolo sociale nei confronti delle donne . Nel Medio Evo bastava il
minimo sospetto perchè una donna finisse al rogo. Oggi invece si è arrivati all’effetto
contrario, e cioè si ha clemenza anche per i casi più efferati e persino per coloro che
uccidono i propri figli (caso Smith). Secondo Lombroso se si contavano le prostitute e le
donne delinquenti, unite assieme formavano una percentuale più alta della delinquenza
maschile. Tale teoria, è definita da alcuni, inaffidabile visto che i dati, a cui si riferisce il
padre della Facoltà di Antropologia Criminale di Torino, sono di quasi cento anni fa e che
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oggi la prostituzione è un reato tollerato e giustificato. Addirittura è giusto considerare la
prostituta, finchè non commette reati contro il patrimonio o contro la persona, come una
vittima della criminalità organizzata o ancora, se “libera professionista”, come persona
affetta da disturbi mentali che non intaccano la facoltà di intendere e di volere, ma
solamente la propria moralità (Smart C., 1981). Le loro azioni sono fuori dal normale, è
difficile considerarle come opera di un essere umano, ma alla fine la società non riesce a
condannarle fino in fondo. Durante il percorso di questa ricerca, non mi sono mai
imbattuta in donne prosciolte dall’accusa di omicidio per vizi di mente o assolte perchè
giustificate. Tutte quante sono state condannate all’ergastolo o a morte o alla pena prevista
dal codice; unica eccezione è Leonarda Cianciulli che venne condannata a 30 anni di
manicomio criminale per seminfermità mentale e Vania Robuschi, condannata a 10 anni di
reclusione, poi ridotti a 3 ed infine amnistiata. Sarebbe interessante cercare di capire come
mai, le uniche due donne serial killer italiane, sono state condannate a pene così lievi.
La differenza tra crimini maschili e femminili, si riscontra, anche, per le motivazioni
che spingono a commettere reati gravi: i maschi sono impegnati in omicidi “strumentali”,
legati alla delinquenza organizzata, gli omicidi femminili si verificano nell’ambiente
domestico, le vittime diventano i familiari (Tani C., 1998).
I motivi dei delitti commessi dalle donne, a parte quello economico, sono state di
solito le grandi passioni: odio, amore, vendetta. Per amore di un uomo uccidevano il padre
tiranno o il marito, per vendetta e quindi odio uccidevano l'amante che le tradiva o le
abbandonava. Ormai i moventi delle assassine sono svariati come quelli degli assassini:
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denaro, vendetta, potere, eseguire degli ordini, delusione, piacere, autodifesa, psicopatia,
depravazione, rivalità (ibidem).
Le donne che uccidevano trovavano soluzioni estreme a problemi con cui migliaia di
donne convivevano in maniera pacifica ogni giorno.
Rudyard Kipling ha scritto che la femmina di ogni specie animale è più implacabile
del maschio. L’omicidio femminile veniva pensato a lungo e la donna non rinunciava mai,
neppure conoscendo perfettamente i rischi che correva (Kipling R., 1987)
La donna era più lucida, determinata nel delitto degli uomini. Il movente più consueto
nel passato e soprattutto nel passato inglese, durante l'epoca vittoriana, era il desiderio di
liberarsi del proprio marito. Erano mariti traditori, possessivi, gelosi che tenevano le
proprie mogli nell'assoluta dipendenza anche economica. Succedeva che finalmente la
donna incontrava l'amore e per quell'amore era disposta a fare di tutto, anche ad uccidere.
La donna era pienamente consapevole delle conseguenze penali (la morte) nel caso fosse
stata scoperta ma non rinunciava, la passione era più forte di qualsiasi altra cosa. Preferiva
l'idea della morte all'idea della rinuncia (Tani C.,1998)
Ma ci sono sempre state anche donne che hanno ucciso per il denaro o per il semplice
desiderio di sperimentare il proprio potere di vita e di morte. Se le donne che uccidevano i
mariti o i figli erano definite mostri, queste donne erano considerate uomini. I loro erano
delitti maschili.
Il racconti di vita delle donne omicide dimostra che gran parte di loro non sono affatto
donne comuni, alcune hanno avuto un’infanzia drammatica, altre hanno ucciso perché
provocate per lungo tempo, alcune soffrivano di sdoppiamento della personalità, altre
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erano succubi di passioni indomabili, altre ancora erano spinte da una naturale
propensione all’omicidio. In ogni caso non si è mai trattato di donne comuni (Tani C,
op.citata).
Le donne hanno sempre avuto meno interesse per certe passioni che hanno mosso gli
uomini come l’ambizione, il gioco, l’alcol, la sconfitta. Quindi moventi di questo genere
sono meno comuni nei delitti femminili.
Sicuramente invece lo sono la cupidigia e l’amore, la gelosia e la vendetta. In genere
però le donne commettono delitti per cupidigia insieme all’uomo, sia esso il marito o
l’amante (Tani C.,1998).
Attualmente, oltre ai delitti con movente passionale, la tipologia di reato più frequente
è il furto, lo spaccio, i reati connessi allo sfruttamento della prostituzione, soprattutto nel
Sud – Italia (C.G.M Calabria e Basilicata,2006)
Da uno studio effettuato dal CEIPA (1995), sono emersi i differenti comportamenti
delle donne e degli uomini, in situazioni in cui il coinvolgimento emotivo-affettivo
riguardava oggetti primari interni al Sé, con le donne capaci di esprimere l’agito
aggressivo quasi esclusivamente verso i figli, manifestando con ciò atteggiamenti diretti
verso l’interno, di tipo introversivo.
Nell’uomo, invece, pur nella maggiore omogeneità del tipo di azione violenta, emerge
prevalentemente l’aggressività riferita verso la propria figura materna, quindi verso un
vissuto apparentemente ormai esterno all’Io, nell’ottica delle relazioni oggettuali primarie.
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La ricerca, di tipo descrittivo-comparativo, è stata effettuata su 170 casi di reati rispetto
ai quali era stata disposta perizia psichiatrica in relazione alla capacità o incapacità di
intendere e/o di volere.
Questi casi, tratti dalla consultazione degli archivi ANSA e Cassazione nel periodo
compreso tra il 1978 e il 1994, evidenziavano il fatto che il 95% circa dei dati raccolti
(163), erano riferibili a reati contro la persona, così suddivisi:
La comparazione fra i gruppi maschile e femminile evidenziava sia una differenza
quantitativa relativamente al reato (78% maschi - 22% femmine), sia una qualitativa, in
quanto negli uomini era nettamente prevalente il reato di omicidio mentre nelle donne
emergevano significativamente i reati di figlicidio e infanticidio (Tab. 2).
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Dalla lettura dei dati (Tab. 2) ci sembrava interessante il fatto che omicidi in cui
esisteva una diretta relazione fra autore e vittima (52 casi), caratterizzata da un forte
vincolo emotivo- affettivo primario (infanticidio, figlicidio, matricidio, parricidio,
parenticidio e fratricidio), andavano ad equilibrare quantitativamente i gruppi maschile e
femminile.
A questo punto sono state evidenziate le differenze qualitative fra i due gruppi di
riferimento (maschi femmine) rispetto questo tipo di reato, al fine di analizzare, in
riferimento al gruppo scelto, le modalità intrapsichiche dell’uomo e della donna.
Da sottolineare il fatto che, come già affermato precedentemente, l'omicidio è da
considerarsi come reazione o impulso violento e distruttivo diretto contro figure non
coinvolgenti dal punto di vista sessuale ma primarie nei vissuti familiari, ovvero all'interno
del proprio nucleo familiare d'origine.
Volutamente, non sono stati presi in considerazione i delitti caratterizzati da legami di
natura sessuale (uxoricidio, violenza carnale e omicidi di partner sessuale) in quanto
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avrebbero fuorviato la ricerca con l’interferenza di elementi secondari in relazione al
legame oggettuale primario.
Sui 52 casi il 54% degli autori del reato erano maschi e il 46% femmine, di età
compresa fra i 18 e i 35 anni (48% maschi e 58% femmine) e fra i 36 e i 55 anni (27%
maschi e 22% femmine).
Nella tabella che segue si possono osservare le differenze all’interno dei gruppi uomini
e donne, in frequenza numerica e percentuale, rispetto ai reati commessi:
Ciò che emerge immediatamente all’evidenza è che, nel gruppo femminile,
elevatissimi risultano i reati relativi al figlicidio e all’infanticidio (91%) mentre risultano
totalmente assenti i reati relativi al parricidio e al fratricidio, e scarsamente significativi
quelli relativi al parenticidio e matricidio(8 %).
Per quanto riguarda il gruppo maschile la percentuale dei reati sembra più equamente
distribuita, con una punta riferita al matricidio. Soltanto il reato dell’infanticidio risulta
essere totalmente assente.
I reati di figlicidio e infanticidio, elevatissimi come abbiamo visto nel gruppo
femminile, in questo nel loro totale non raggiungono frequenze superiori al 18 %. Come
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risposta giuridica in base all’eventuale applicazione degli Artt. 88 e 89, riferiti a questi tipi
di reati, abbiamo ricavato che nel 69% dei casi gli autori dei reati erano stati giudicati
infermi di mente e, quindi, incapaci di intendere e di volere, nel 17 % semi-infermi di
mente e, quindi, con capacità ridotta di intendere e di volere, mentre nel 13 % dei casi il
giudizio era stato di capacità di intendere e di volere.
L’attribuzione dell’imputabilità o inimputabilità suddivisa per reato specifico ha
evidenziato i seguenti dati:
Analizzando i dati emersi dalla tabella 4 si può notare che l’Art. 88 è stato applicato
molto frequentemente per quanto riguarda i reati di figlicidio, infanticidio, fratricidio e
matricidio. Per quanto riguarda il parenticidio più o meno equivalente è stata la
distribuzione degli Art. 88 e 89, mentre nei casidi parricidio abbiamo una prevalenza nel
giudicare capaci di intendere e di volere gli autori dei reati.
Come si può osservare dai dati successivi (Tab. 5) la donna è giudicata totalmente
incapace di intendere e di volere nell’83% (art. 88 c.p.) dei casi considerati, mentre viene
definita con capacità ridotte nel 17% dei casi (art. 89 c.p.) e mai totalmente imputabile;
negli uomini, il giudizio sull’imputabilità appare maggiormente distribuito rispetto alle tre
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possibilità, con una punta in elevazione per ciò che concerne l’incapacità di intendere e di
volere, con frequenze percentuali comunque nettamente inferiori in relazione al gruppo
delle donne (art. 88 maschi 57% / art. 88 femmine 83%).
Analizzando l’orientamento nel giudizio sull’imputabilità maschi - femmine (Tab. 5),
riferito ad alcuni tipi di reati, si può osservare che per quanto riguarda il figlicidio le donne
venivano considerate incapaci di intendere e di volere nell’85% dei casi, mentre negli
uomini la frequenza scendeva al 60%; inoltre, le donne non erano mai giudicate capaci di
intendere e di volere, mentre gli uomini risultavano imputabili nel 40% dei casi esaminati.
Nel matricidio - assieme al parenticidio reato scarsamente commesso dalle donne del
nostro gruppo – gli uomini venivano definiti inimputabili e imputabili nella misura del
67% e 33%, mentre nel parenticidio il giudizio sull’imputabilità risultava equamente
distribuito fra totale infermità mentale e semi-infermità.
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Il gruppo femminile considerato, non ha commesso i reati di parricidio e fratricidio,
mentre gli uomini venivano considerati prevalentemente capaci di intendere e di volere per
il reato di parricidio, giudizio inverso rispetto al reato di fratricidio dove mai erano
considerati capaci di intendere e di volere ed anzi prevaleva nettamente il giudizio di
inimputabilità.
Infine, per ciò che riguarda l’infanticidio (reato non presente nel nostro gruppo
maschile ) le donne erano considerate totalmente incapaci di intendere e di volere in
misura molto elevata, mentre in nessun caso era stata attribuita la completa imputabilità.
La casistica considerata, non esaustiva e certamente non ampia rispetto alla
complessità del fenomeno, consente di avanzare conclusioni provvisorie e parziali
lasciando aperte molte ipotesi e possibilità di successivi riscontri.
L’osservazione di tale tipologia di reati, dove fondamentale appare il rapporto autore-
vittima sfociato, attraverso il crimine, nella distruzione dell’oggetto d’amore, ci offre
l’opportunità di alcune considerazioni:
- più è emotivamente significativo il legame autore-vittima, più aumentano i reati
violenti delle donne (dal 22% del gruppo generale, al 46% del gruppo scelto).
- l’aumento di tali reati è interessante al punto che nel gruppo scelto la differenza
quantitativa tra maschi e femmine è esigua e trascurabile (54% maschi - 46% femmine).
- la differenza fra gruppo maschile e gruppo femminile appare esclusivamente
qualitativa per i reati considerati.
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Con questo lavoro, abbiamo cercato di analizzare parte del fenomeno della criminalità
femminile che riteniamo essere in crescente nella nostra società, in particolare ci siamo
occupati di analizzare la violenza femminile nei confronti del proprio coniuge e quindi
anche della conflittualità della coppia che porta a fenomeni delittuosi.
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CRIMINALITA’ FEMMINILE
Premessa
Quando si parla, si studia, si analizza e s’interpreta il comportamento femminile,
sembra prevalere la scelta di considerare la donna come un soggetto separato, e il mondo
femminile come un contesto dotato di una propria specificità, che si studia come realtà a
parte.
In questo tipo d’approccio i tentativi di spiegazione della specificità femminile si sono
di solito risolti nell’enfatizzare la superiorità – inferiorità come chiave di confronto tra i
due sessi. E ancora oggi molte questioni che riguardano la donna risentono d’antichi
pregiudizi.
Solo recentemente si è cercato di analizzare il modo in cui si è andato strutturando
storicamente il rapporto donna-uomo, ma soprattutto il rapporto donna-società, per carpire
valutazioni e cause d’atteggiamenti e comportamenti che solitamente sono considerati
come intrinseci dello specifico femminile.
Nel passato la peculiare posizione della donna nella società, condizionata da un
modello totalmente maschile, ha escluso, di fatto, metà della popolazione mondiale dalla
vita sociale. In questa condizione, la crescita culturale delle donne è stata solo una
chimera, e la differenza sessuale, spacciata per secoli come differenza irriducibile, ha
sempre sancito come oggettiva questa presunta inferiorità. Basti ricordare come il
patriarcato ha costretto per centinaia d’anni le norme sessuali e i comportamenti di genere
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su una strada obbligata, comprimendo e reprimendo la sessualità femminile, impostata
sulla verginità, fedeltà, castità e fecondità.
Bisogna aspettare l’era moderna, dal XVII secolo in poi, per vedere dei cambiamenti
nelle strutture familiari e nelle funzioni della famiglia, e molti anni sono dovuti passare
prima che la donna, dal punto di vista giuridico, venisse presa in considerazione nei vari
ordinamenti.
La donna, per questi motivi, è stata considerata oggetto di studio solo, quando ha
acquisito “visibilità”; così è stato per la criminalità femminile, divenuta seria materia
d’indagine e di trattazione teorica solo in epoca recente.
1.1 I perché della bassa presenza di criminalità femminile
Nel passato la scarsa presenza di donne delinquenti era un dato di fatto che non
suscitava interesse: le teorie sulla delinquenza erano orientate alla spiegazione e all’analisi
della sola criminalità maschile. La posizione subordinata in cui viveva la donna, la
presunzione della sua inferiorità biologica e intellettuale, portava a ritenere il sesso
femminile come incapace di condotte autonome e responsabili. Inoltre, i delitti di cui si
macchiavano maggiormente le donne erano quelli strettamente legati alla condizione
biologica, come la prostituzione, l’infanticidio, l’aborto o altri concepiti a misura d’uomo
come l’adulterio, considerato, in Italia, reato unicamente se commesso dalla moglie.