vista statistico3 che culturale. Rileggendo le parole di quella che è stata una
maestra della letteratura filosofica intorno alla tematica donna è facile
rendersi conto di come siamo ancora lontani da quello che voleva essere un
consiglio precursore ancora purtroppo così lontano dall’avverarsi in
maniera definitiva.
Il mio primo approccio alla tematica, tralasciando il lavoro
strettamente accademico, si è svolto con dei contatti quasi goffmaniani.
Vale la pena sottolineare che la mia preparazione nei confronti della
brulicante attività associazionistica intorno all’essere donna era
praticamente nulla. Decisi di far coincidere il mio interesse per la coscienza
femminile con la possibilità di condurre anche attività di tirocinio. In
particolare avrei voluto concentrarmi sull’organizzazione interna di
un’associazione a stampo femminista con interessi strettamente culturali
nella città di Trieste. Ma come spesso amano sottolineare i libri di
metodologia della ricerca sociale le coincidenze spesso spostano gli
obiettivi di indagine ad argomenti che l’inesperto ricercatore non può
immaginare. Così mi ritrovai a scrivere ad una piccola associazione
femminile consigliatami da un docente. Subito capii che il contesto nel
quale mi sarei calata sarebbe stato molto informale visto che la risposta alla
mia richiesta di tirocinio fu imminente e si concludeva con un invito a cena
a casa della presidentessa dell‘associazione. Il mio primo contatto con
l’associazionismo femminile a Trieste fu senz’altro di retroscena (come
nella più classica delle opere goffmaniane addirittura in cucina4). Capii
subito però che l’associazione alla quale mi ero rivolta non avrebbe potuto
accogliermi come tirocinante dato che gli incontri che le donne avevano
3 Cfr indagine Istat 2006: solo il 7,3% delle violenze in famiglia viene denunciato (vedi allegato
grafici 5 e 6)
4 E. Goffman(1959) “La vita quotidiana come rappresentazione” Il Mulino
5
erano a scadenza mensile e le loro finalità erano, oltre che rare, limitate a
presentazione di libri. Del resto il secondo prezioso insegnamento che
danno sempre i libri di metodologia è di non sottovalutare l’importanza
delle reti e dei testimoni privilegiati. L’associazione era composta da una
decina di elementi tutti rigorosamente femminili che avevano avuto
esperienze diverse nell’ambito del femminismo. Chi docente alla facoltà di
lettere, chi alla facoltà di psicologia, chi specializzata in sensibilizzazione a
tematiche quali la mutilazione genitale femminile, le donne mi parlarono
lungamente della loro esperienza e non mancarono di consigliarmi e forse
anche un po’ raccomandarmi a quella che era l’associazione femminile
cardine della città di Trieste: il G.OA.P.5 Partecipai a svariati convegni in
città per iniziare a conoscere il contesto che mi preparavo a indagare: la
presentazione delle politiche sociali femminile all’allora ministro Barbara
Pollastrini( allora appena eletta), la consegna di premi di laurea alle tesi a
tema femminile dell’Università di Trieste. Per calarmi nel contesto
totalmente capii presto che non bastava guardare alla ribalta ma sarei per
forza dovuta entrare nelle cucine. Non esitai dunque ad iscrivermi al corso
di formazione volontarie del centro antiviolenza della città di Trieste, il
G.O.A.P. appunto, sotto consiglio della presidentessa dell’associazione. Il
G.O.A.P. è l’associazione che nella città di Trieste ha vinto l’appalto per la
gestione del centro antiviolenza. E’ un’associazione a esplicito approccio di
genere e presenta ogni anno corsi di formazione per volontarie e per
operatori dei servizi pubblici con lo scopo di sensibilizzare la popolazione
al tema della violenza. Seguii il corso di formazione che si articolò in una
prima parte strettamente teorica e una seconda più pratica. Così in poco
tempo mi ritrovai a strettissimo contatto con alcune delle molte situazioni di
5 Gruppo Operatrici Antiviolenza e Progetti che gestisce il Centro antiviolenza provinciale e due
Case Rifugio
6
violenza domestica della città di Trieste (io scelsi il lavoro con i minori figli
di donne che subivano violenza) finendo il tirocinio con l’affiancamento di
una psicologa in un laboratorio di gestione delle emozioni per minori
tutt’ora in corso.
Come la sociologia insegna l’attività preliminare a qualsiasi approccio
metodologico è l’osservazione. L’obiettivo fondante della mia breve ricerca
è duplice: commentare i dati relativi alla violenza domestica nella città di
Trieste avvalendomi dei risultati del Rapporto Nazionale Rete antiviolenza
tra le città Urban Italia6; prendere ad esempio in caso concreto che aiuti a
capire come si muovono i servizi di fronte a casi di violenza di genere.
L’ottica sarà quella che assume la violenza di genere come connotata in
maniera sessuata dipendente da motivazioni di genere e di potere7. E’ la
visione dei movimenti femministi degli anni ‘70 che guarda alla violenza
come un fenomeno sociale e culturale legato al modo in cui si strutturano le
relazioni uomo-donna nella società e , quindi, nella famiglia, come una
forma di controllo di un genere (maschile) su un altro (femminile) e che
aumenta nelle società in cui i ruoli di genere sono più rigidamente codificati
e l’uso della costrizione contro le donne è socialmente accettato e tollerato,
anche se è bene ricordare che la violenza contro le donne non è esente ad
alcun tipo di società.
Poter svolgere l'attività di tirocinio in quello che definirei
l'osservatorio privilegiato sul problema della violenza contro le donne ha
significato molto nella formazione di una mia idea sul tema. Innanzitutto
perché iniziai il mio lavoro in un periodo “poco sospetto” rispetto al
6 Progetto operativo in 25 città dal 1995 al 2005 . In particolare nella città di Trieste operativo
dal 2001 e coordinato dall’associazione G.O.A.P.
7 C. Adami,A. Basaglia,F. Bimbi,V. Tola (2000) “Libertà femminile e violenza sulle donne”
Edizioni Comunità
7
problema, siccome è solo nell'ultimo anno, dopo le recenti questioni di
cronaca che hanno interessato donne in svariate città italiane, che l'opinione
pubblica ha iniziato a muoversi iniziando campagne informative sul tema,
dedicando i vari “Report” e simili alle donne, sempre più protagoniste ma
sempre più sole in questa società più multietnica che multiculturale . Non
che prima di iniziative non ce ne fossero, ma forse erano riservate a chi
della questione già se ne intendeva. Infatti anch'io con un anno d'anticipo
non trovai difficoltà a inserirmi nel tentacolare mondo dell'associazionismo
femminile scoprendo conferenze, eventi e corsi di formazione riservati alla
violenza domestica e non. Il fatto di trovarmi immersa nel tema (sebbene
lungi dal diventare un'esperta) in un momento in cui i mass media hanno
deciso di prendere coscienza del problema ha suscitato in me una duplice e
ambivalente reazione: se da una parte ho trovato la cose di fondamentale
importanza, (forse perché legata all'idea di durkheimiana memoria che
l'educazione salverà l'uomo dalla distruzione8), dall'altra mi sono accorta sia
delle contraddizioni insite in un'informazione da “fast food”, che dell'effetto
“perverso” che possono sortire nel laico pubblico. Mi trovai spesso infatti
coinvolta in discussioni sulla questione essendo considerata una specie di
testimone privilegiato, vista la mia assidua frequentazione dei centri
antiviolenza, e tentai di ri-sperimentare i questionari proposti dalla ricerca
Urban, essendo il mio campione decisamente casuale. La metodologia non
poté essere che rudimentale visto che lo scopo fondamentale delle interviste
discorsive era indagare quali erano le idee di chi le indagini ISTAT non le
aveva lette né aveva idea di quali potessero i numeri associati alla violenza.
Sicuramente il problema non è conosciuto né si conosce l'esistenza dei
8 E. Dukheim (1889) La divisione del lavoro sociale,Milano Edizioni Comunità
8
8
Centri Antiviolenza, tanto che a non tutti è semplice credere ai numeri. E'
piuttosto sconcertante poi che anche tra gli intervistati più giovani
persistano alcuni stereotipi che io avrei, forse ingenuamente, associato a
persone più anziane. Ad esempio si crede veramente che ci siano vittime
“privilegiate”, e si tende ancora a pensare che chi non denuncia sia mossa
da una una specie di complicità col maltrattante. Si tende spesso ad
associare la figura del violentatore a quella del pazzo psicotico o
comunque a quella dell'uomo di bassa formazione culturale, alcolizzato o
dipendente da sostanze. Ma i numeri parlano d'altro: il maltrattante non ha
un'identità definita, così come la vittima non è detto che abbia devastanti
vissuti passati (anche se non sono rari i casi di donne vittime, ex bambine
vittime).
Il mio lavoro sarà sostanzialmente diviso in due sezioni: una prima parte
teorica e una seconda specifica al centro antiviolenza nel quale ho svolto il
tirocinio.
In particolare la prima sezione seguirà un percorso storico-tipologico sulla
concezione che il concetto di violenza ha significato nel contesto
occidentale. Il primo capitolo prenderà in esame le varie posizioni con le
quali l'opinione pubblica si è scontrata nel Novecento, quando la violenza
domestica si è trasformata da normalità a patologia del sistema, fino ad
entrare nel codice penale; un paragrafo sarà dedicato al percorso
contemporaneo di certe donne eccezionali che hanno lottato per
l'acquisizione di diritti fondamentali.
Il secondo capitolo tratterà brevemente la storia del movimento femminista
per arrivare alla costituzione dei primi centri antiviolenza. E' nel 1995 che,
in contemporanea alla Piattaforma di Pechino, in Italia si realizza il
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