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2.4: Le ragioni che spingono la donna a restare con il maltrattante:
Dopo aver analizzato il profilo della vittima, appare necessario chiedersi quali sono
le motivazioni psicologiche che spingono quest’ultima a decidere di restare con il
maltrattante e a non denunciarlo. Una prima teoria che potrebbe rispondere a questa
domanda la troviamo in quella, comunemente chiamata, “sindrome della
crocerossina”: tale patologia, porta chi ne soffre, a mettere da parte totalmente se
stessi e il proprio benessere, per dedicare tutte le proprie energie agli altri. Si tratta
in questo caso di donne, molto generose, servizievoli, portate a un totale
accudimento materno del partner che non hanno nessuna intenzione di lasciarlo in
quanto, così facendo, si sentono necessarie per lui, sentendo di avere acquisito un
valore sociale (ricordiamo infatti che la vittima ha una personalità fragile e una bassa
autostima). Infatti, le donne che decidono di restare con il maltrattante, avvertono
una “missione salvifica” nei suoi confronti, come se egli non potesse sopravvivere
senza e loro fossero le uniche in grado di salvarlo. Secondo Robin Norwood, nel
testo “donne che amano troppo”, esse si convincono totalmente che il partner non
era mai stato amato da nessuna donna in passato e che devono essere proprio loro,
con il loro amore e la loro compassione a salvarlo. Egli, agli occhi della vittima,
appare come un uomo che ha sofferto, e qualsiasi azione disfunzionale, possa
praticare nei confronti della vittima appare, non solo normale, ma anche accettabile.
La donna, molto spesso decide di restare e giustificare questi comportamenti perché
avverte quella relazione come “disperatamente necessaria” per la sua sopravvivenza
e per questo rimane. Il bisogno di aiutare, è talmente forte nella donna che resta, a
tal punto che essa riesce a stare vicino a qualcuno, soprattutto un maschio, solo se
ha bisogno di lei, a maggior ragione se la maltratta, così lei potrà salvarlo da sé
stesso. ( Norwood, 1997). È utile, esporre, come già detto nel paragrafo precedente,
che la donna che decide di restare vive una fortissima dipendenza affettiva dal
partner e nonostante tutto, lei vuole qualcosa da lui che non può dargli. Riporto,
quindi, le parole di Robin Norwood: “[…] ma Trudi aveva la sensazione di essere
sempre più dipendente da lui sul piano dei sentimenti, mentre lui in cambio, le dava
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sempre meno.” ( Norwood, 1997).
Un’altra motivazione che spinge la donna a restare con il maltrattante, è che essa
tende a darsi la colpa per il fallimento della relazione. Nel libro di Luciano di Gregorio
(2017), viene esplicitato questo pensiero: l’autore sottolinea che la donna continua a
colpevolizzarsi per non essere stata in grado di farlo felice, pensa in ogni momento
di aver sbagliato qualcosa con lui e vuole farsi portavoce dei suoi problemi,
anticipando le richieste che le farà, cercando disperatamente di cambiare qualcosa
di sé stessa, in quanto si sente l’unica colpevole del fallimento della relazione.
Riporto a questo proposito le parole di una vittima nel libro di De Gregorio: “per un
po' di tempo ho aspettato, pensavo che fosse colpa mia, che non fossi all’altezza
come moglie, che non fossi abituata al sacrificio che la vita a due comporta.”
Una motivazione comune al perché la donna resta con il maltrattante è che
quest’ultima è convinta che il torto, le botte, o le violenze psicologiche, siano una
certa forma di amore; c’è la convinzione che se viene picchiata, il compagno lo stia
facendo solo ed esclusivamente per il suo bene. Si ricordi infatti, che le vittime di
maltrattamento, hanno un sé molto fragile e per questo non riescono a distinguere il
bene e il male all’interno della relazione. Inoltre, come spiega Norwwood (1997),
nella “donna che ama troppo” per lasciare, operano due fattori centrali: il primo è la
ricerca costante di modelli che assomiglino a quelli a cui lei era abituata in passato
(ad esempio, una bambina che è cresciuta con un padre violento nei confronti della
madre, tenderà a ricercare un fidanzato che rispecchi le medesime caratteristiche.)
Il secondo fattore è la spinta a ricreare e di conseguenza, superare le situazioni
dolorose del passato, decidendo di entrare in quella situazione di proposito, al fine
di modificare qualcosa. Quando si pensa a una donna che resta, è importante
prendere in considerazione la teoria dell’intrappolamento psicologico: questa
situazione la applichiamo in molteplici situazioni della nostra quotidianità, quando
siamo “fissati” in una situazione e non riusciamo a cambiare qualcosa, anche se
avremmo i mezzi necessari per farlo. Perché ci sia intrappolamento psicologico,
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devono essere presenti determinate variabili tra cui le seguenti:
• L’investimento effettuato dall’attore nel tentativo di perseguire l’obbiettivo che
si è prefissato deve essere irreversibile (nel caso della donna maltrattata,
possiamo pensare a tutto il tempo impiegato per cercare di cambiare il partner)
• “L’attore deve potere decidere tra entrare e rimanere nella situazione di
intrappolamento oppure no”. (Brockner e Rubin,1985)
• L’attore sceglie in condizioni di totale di incertezza: non riesce a comprendere
bene a quali risultati ottimali potrebbe portare la sua scelta
• L’investimento in qualcosa deve essere fatto ripetutamente
Osservando questi fattori necessari dal punto di vista di una donna maltrattata,
l’obbiettivo per lei sarà il raggiungimento di una relazione pacifica in cui investirà nel
tempo, risorse, energie, emozioni. Se dopo molto tempo, essa continuerà ad investire
si sentirà come intrappolata nella relazione stessa. La critica a questo modello è il fatto
che in esso non si presuppone che essa voglia abbandonare il partner, ma non valuta
né la soddisfazione che la donna può ottenere all’interno della coppia, né i
condizionamenti delle persone che circondano la coppia stessa. ( Choice e Lamke,
1997).
Tra le motivazioni per cui la donna resta, è utile parlare di quella più banale ma allo
stesso tempo quella più assurda: la donna resta perché, nonostante tutto quello che
l’uomo le ha fatto, lei lo ama ancora. La donna si rende conto che la relazione è
disfunzionale, e molto spesso si trova molto vicina al volerlo lasciare per i suoi
atteggiamenti violenti, ma non ci riesce perché è ancora innamorata di lui e di ciò che
era prima dei continui maltrattamenti. La donna, infatti, continua a nutrire la speranza
che il compagno possa cambiare. Trovo utile spiegare, a tale proposito, che la donna è
“intrappolata” in molte situazioni, in una “trappola dell’ambivalenza” (Freud), dove ella
prova ancora amore per il fidanzato, ma capisce che la situazione è irrecuperabile.
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Risalgo, dunque, alle origini più antiche del concetto di ambivalenza, riportando la
poesia “odi et amo” di Catullo:
odi et amo,
quare id faciam fortasse requiris
nescio, sed fieri sentio
et excrucior
A proposito di ambivalenza, va anche considerato che, spesso, la donna resta con
l’uomo maltrattante per la forte paura che ha di lui: l’uomo, infatti, mette in atto numerose
minacce nei confronti della donna che vuole lasciarlo, tra cui quella di ucciderla, o di
fare del male ai membri della famiglia di lei: la paura è talmente forte che la donna
decide di restare. Riporto, a questo proposito, la testimonianza di una donna: “se cambio
la serratura ha detto che m’ammazza, dice che è anche casa sua, solo perché ci ha
abitato, ma io stavo in affitto prima che arrivasse lui. Ma se cambio la serratura ora
m’ammazza. […] E io non l’ho cambiata, così è entrato di notte tranquillo con le sue
chiavi e mi ha strangolata mentre dormivo.” (Dandini,2013, p.52).
Tra le motivazioni per cui la donna resta, ricordiamo anche fattori non di natura
psicologica. Fra questi, il forte ruolo che gioca la famiglia nella decisione della donna di
restare: ricordando il “ruolo criminogeno” della famiglia di Giusti e Bacci (1992), va detto
che si tratta in questi casi di situazioni con un forte dominio di un “pater familias”, dove
la separazione dal compagno viene vista come qualcosa che potrebbe minare all’onore
della famiglia, e i casi di violenza vengono giustificati, e apparsi agli occhi della famiglia
come episodi di “assoluta normalità.” Un’altra motivazione che riscontriamo, sempre a
proposito della parentela, è l’idea di non volere lasciare il compagno maltrattante per
paura di fare male al figlio: c’è infatti la convinzione sociale di restare insieme per il
benessere di quest’ultimo, mentre vivere in una realtà come quella è un fortissimo
fattore di rischio per il futuro adulto. Una situazione sempre in relazione alla famiglia, la
vediamo anche da un aspetto economico: la donna maltrattata, nella maggior parte dei
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casi, è stata convinta dal partner a lasciare il lavoro e ad appoggiarsi a lui per qualsiasi
sua necessità; la donna, dunque, priva di una qualsiasi stabilità economica decide di
restare con il partner anche per questa motivazione.
A questo punto della ricerca, vorrei accennare brevemente a una situazione in cui la
donna prende consapevolezza della situazione disfunzionale che sta vivendo e come
decide di comportarsi: spesso questo “insight” avviene a seguito di un episodio
particolarmente violento da parte dell’uomo: la donna, quindi, decide di ribellarsi ai
soprusi e ai maltrattamenti, iniziando a sminuire il partner, etichettandolo come “violento
e svalutante” (Di Gregorio, 2017). Questo genera un forte senso di frustrazione nel
partner, in quanto abituato a percepire la compagna in una condizione di “sudditanza”,
non riesce ad accettare questa sua ribellione e diventa ancora più violento. Concludo a
tal proposito l’argomento con questa citazione: “ma io tanto insieme a lui non ci tornavo
neanche morta […] e lui l’ha capito che non avevo più paura, questi uomini qui se si
accorgono che siete diventate forti non lo possono sopportare.” (Dandini, 2017,p.66.)