4
degli storici latini coevi o di poco successivi agli eventi
2
, le uniche fonti
cui possiamo attingere per provare in qualche modo a ricostruire la
vicenda processuale del Nazareno sono i Vangeli che, pur avendo un
intrinseco valore storico, non furono certamente redatti per semplice e
obiettivo dovere di cronaca, ma “perché ci si potesse rendere conto della
solidità degli insegnamenti ricevuti”
3
. Se dunque i Vangeli ci trasmettono
una lettura dei fatti filtrata dalla fede, lo storico ha il dovere di ricostruire
gli eventi con il maggior grado di verosimiglianza possibile, inserendoli
nel contesto in cui si sono verificati.
Duemila anni di storia ci separano da quegli avvenimenti, duemila
anni in cui quegli stessi avvenimenti sono stati interpretati e
strumentalizzati per le ragioni più disparate.
In realtà, però, le domande principali cui nessuno è riuscito fino ad
ora a dare una risposta definitiva sono sempre le stesse: fu un processo
giusto? E soprattutto, chi lo volle e lo celebrò? Gli Ebrei, i Romani o
entrambi? In altre parole: chi fu il responsabile della vicenda giudiziaria
che portò alla condanna a morte di Gesù? Come ho già detto, non
abbiamo risposte univoche e niente esclude che la nostra ricerca possa
concludersi paradossalmente con la proposizione di ulteriori
interrogativi.
2
Mi riferisco a Flavio Giuseppe e a Tacito. Tratterò in seguito il problema delle fonti, determinante
per la ricostruzione e l’interpretazione degli avvenimenti in esame.
3
Lc., 1, 4.
5
Introduzione
IL CONTESTO SOCIO-POLITICO.
Il processo a Gesù di Nazareth si svolse a Gerusalemme, capitale
religiosa di una regione situata ai confini orientali dell’impero romano, in
quella Giudea che non riuscì mai a trovare un compromesso che
consentisse una convivenza pacifica con il dominatore romano. Divenne
provincia imperiale nel 6 d.C., dopo che alla morte di Erode il grande,
avvenuta a Gerico nel 4 a.C., Ottaviano aveva provato a lasciarne
l’amministrazione nelle mani del figlio di quello, Archelao
4
, ben
consapevole non solo delle difficoltà di governo del popolo ebraico, ma
soprattutto dell’utilità strategica di una “zona cuscinetto”, non
direttamente governata da Roma, ai confini dell’Impero. Archelao, però,
si lasciò ben presto detestare da un popolo al quale, per cultura e
tradizioni, non apparteneva, e che già alla morte del padre aveva
mostrato di preferire la dura, ma per certi versi tollerante, dominazione
romana all’oppressione ellenizzante dei “peccaminosi” Idumei
5
. Pressato
4
Alla morte di Erode la Palestina venne divisa da Augusto tra i figli del defunto re, così come disposto
nel testamento: Archelao fu nominato etnarca dell’Idumea, della Giudea e della Samaria; Filippo
ottenne, col titolo di tetrarca, la Batanea,la Traconitide e l’Auranitide; Erode Antipa, da ultimo, fu
nominato tertrarca della Galilea e della Perea. Cfr. F. Giuseppe, Περί του̃ Ίουδαϊκου ̃ πολέµου, II, 6.
5
Flavio Giuseppe ci racconta delle innumerevoli relazioni extra coniugali e dei terribili delitti di cui
furono artefici Erode il Grande e i suoi figli. Celeberrimo, inoltre, il racconto dell’assassinio di
Giovanni Battista ordinato da Erode Antipa, su richiesta della bella Erodiade, nel Vangelo di Marco, 6,
17-29.
6
dalle insistenti quanto antiche richieste dei Giudei, Augusto dovette alla
fine cedere, e rimosse Archelao, mandandolo in esilio a Vienna nelle
Gallie, e annettendo il regno di questo all’impero.
La Giudea diventava così ufficialmente una provincia romana,
formalmente assoggettata all’autorità del legatus Caesaris pro praetore di
Siria
6
, ma di fatto amministrata da un praefectus di rango equestre
nominato direttamente da Augusto e a lui soltanto sottoposto:
l’eccezionalità della situazione socio-politica e la delicatezza della
posizione geografica ne imponevano lo status di provincia imperiale, e il
riconoscimento, a chi la governava per conto del princeps, della più ampia
gamma di poteri possibile.
L’esiguità, e soprattutto la natura, delle fonti a disposizione,
purtroppo, non ci consente di poter ricostruire con precisione la natura e
i limiti dei poteri attribuiti al praefectus Judaeae, sia nei confronti del legato
di Siria, sia soprattutto nei confronti degli organi di governo locali, cui fu
sicuramente lasciata quanto meno una parvenza di autonomia. Certo, i
governatori delle province imperiali agivano in quanto mandatari del
princeps; ma se risulta agevole identificare la fonte del potere di Augusto
in quell’imperium proconsulare maius et infinitum che gli fu conferito nel 23
a.C. insieme alla tribunicia potestas vitalizia, è ben più arduo determinare il
6
F. Giuseppe, Περί του̃ Ίουδαϊκου ̃ πολέµου, II, 8, 1; XVIII, 1, 1; XVII, 13, 5. Tacito, però, in Annales, II,
42, ci riferisce di provinciae Suria atque Judaea. Probabilmente si trattò solo inizialmente di dipendenza
militare, che finì non appena il praefectus potè dotarsi di proprie truppe.
7
contenuto di tale mandato, che poteva assumere connotazioni specifiche
sia in relazione alla natura (imperiale) della provincia, sia in
considerazione del fatto che spesso il princeps assumeva anche le
attribuzioni dei precedenti sovrani.
In ogni caso ai governatori delle province veniva sicuramente
attribuito l’imperium necessario all’esercizio della guerra, sia per difendere
i confini dell’Impero, sia per riportare l’ordine interno nell’eventualità di
sommosse, così come è certo che il termine procuratores, col quale da
Claudio in poi furono designati tutti i governatori di tutte le province
imperiali
7
, trova la sua origine nella prevalenza della funzione fiscale
esercitata dagli stessi. Poteri finanziari e militari, dunque, cui si
aggiungeva naturalmente la funzione giurisdizionale penale, necessaria
all’efficace esercizio del potere.
Orbene, quando nel 6 d.C. Coponio fu inviato in Giudea, era
“provvisto di ogni autorità su tutti i giudei”
8
, “avendo ricevuto
dall’imperatore poteri estesi fino a comprendere quello di mettere a
morte”
9
. A questo potere giurisdizionale apparentemente illimitato,
diretta derivazione dello ius gladii riconosciuto ad ogni generale sui propri
7
Ad eccezione dell’Egitto. Cfr. B. Santalucia, La giurisdizione del prefetto di Giudea, in AA. VV., Il processo
contro Gesù, a cura di F. Amarelli e F. Lucrezi (Napoli 1999) pag. 90.
8
F. Giuseppe, ’Ιουδαĩκης ΄Αρχαιολογίας, XVIII, 1, 1.
9
F. Giuseppe, Περί του̃ Ίουδαϊκου ̃ πολέµου, II, 8, 117.
8
soldati
10
, corrispondeva, però, tutta una serie di privilegi, più o meni
ampi, che l’intelligenza politica di Augusto riconobbe a quel popolo così
orgogliosamente diverso, per tradizioni e soprattutto fede religiosa, da
tutti gli altri sudditi dell’Impero. I Giudei, infatti, non solo erano esentati
dal servizio militare, ma veniva lasciata loro anche una certa autonomia
in tutto quello che riguardava la religione, autonomia che trovava la sua
massima espressione nella facoltà di mettere a morte qualunque pagano
fosse entrato nel recinto sacro del Tempio di Gerusalemme, fosse anche
cittadino romano
11
. In segno di rispetto, inoltre, i soldati romani non
potevano entrare nella città santa con i vessilli raffiguranti l’imperatore,
mentre sulle monete coniate in quella terra venivano incise solo le
iniziali, e non l’immagine, del Divus Augustus.
Fu lasciato in vita anche il gran sinedrio, supremo organo religioso
e civile della nazione ebraica, presieduto dal sommo sacerdote e
composto da settantuno rappresentanti dei tre gruppi dominanti nella
società ebraica: i sommi sacerdoti, gli anziani e gli scribi. Quali fossero i
poteri e le prerogative del sommo sacerdote e del sinedrio al tempo di
Gesù, quanti sinedri operassero in Giudea e Galilea e con quali differenti
10
Secondo la ricostruzione storica prevalente, da cui dissente, però, Bernardo Santalucia. Secondo
l’insigne storico del diritto, infatti, lo ius gladii era il diritto di condannare a morte un cittadino romano,
mentre l’ordinaria giurisdizione capitale era conseguenza dell’imperium attribuito al governatore. La
differenza è, nella sostanza, molto sottile. Cfr. B. Santalucia, op. cit., pag. 88-90.
11
F. Giuseppe, Περί του ̃ Ίουδαϊκου ̃ πολέµου, VI, 2, 4; la notizia ha trovato conferma nel ritrovamento di
due iscrizioni nel 1871-72.
9
attribuzioni
12
, non siamo in grado, purtroppo, di poter stabilire con
sufficiente grado di sicurezza. La tradizione rabbinica ne attribuisce la
fondazione a Mosè, ma in realtà la loro istituzione risale all’epoca della
monarchia seleucide (III-II sec. a.C.), quando quei sovrani vollero
riconoscere una maggiore autonomia in campo civile e religioso ai
consigli degli anziani presenti in tutte le città ellenistiche. L’autorità
effettiva del sommo sacerdote e del sinedrio, però, veniva ad essere
inversamente proporzionale all’autorità di cui il monarca godeva nel
popolo. Se dunque con i Maccabei e gli Asmonei, giudei anch’essi, tale
autorità era massima, con gli odiosi e pagani Idumei finì per diventare
semplicemente il simulacro di un antico potere
13
.
Ma in quali campi tale autorità trovava la sua espressione e cosa ne
rimaneva ai tempi di Gesù? Certamente il sinedrio di Gerusalemme con il
sommo sacerdote costituivano la massima autorità religiosa per Israele,
ma sbaglieremmo se li considerassimo una sorta di Curia ebraica ante
litteram. Il giudaismo dell’epoca, infatti, era ben altro che un fenomeno
unitario: la fede nell’unico Dio e la tradizione degli antichi padri
rappresentavano forse l’unico collante tra sette religiose profondamente
diverse tra loro sia nella pratica religiosa sia, soprattutto,
12
m.Sanhedrin I.4., in Chaim Cohn, Processo e morte di Gesù (Torino 2000). Oltre al gran Sinedrio, dotato
di giurisdizione solo in pochi casi dichiaratamente definiti, esisteva il cosiddetto piccolo Sinedrio,
composto da 23 giudici, che esercitava la giurisdizione penale generale. La notizia, però, non ha
ulteriori riscontri.
13
G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo (Milano 2000) pag. 61.
10
nell’atteggiamento nei confronti del dominatore romano. Giuseppe
Flavio, che scriveva per un pubblico di gentiles, ci presenta i tre gruppi
principali del Giudaismo paragonandoli alle più note scuole filosofiche
greche: i sadducei-epicurei, i farisei-stoici e gli esseni-pitagorici
costituivano, secondo lo storico gerosolimitano, le tre principali “correnti
di pensiero” del mondo giudaico
14
. Il paragone è certamente costruito
per i lettori greci, ma lascia chiaramente intendere le profonde differenze
che esistevano all’interno del giudaismo e che per di più non si
esaurivano nei tre gruppi descritti dallo storico ebraico.
Sadducei, farisei ed esseni, dunque, ma anche zeloti e sicari,
ellenisti e timorati di Dio, novatori e briganti costituivano un ambiente
sociale così articolato dal punto di vista dottrinale quanto manicheo dal
punto di vista politico. Le differenze dottrinali non erano di poco conto:
basti per tutte il diverso atteggiamento nei confronti della resurrezione,
negata dai sadducei ma non dai farisei, e logica conseguenza del diverso
atteggiamento che i due gruppi avevano nei confronti della Legge. Se,
infatti, per i sadducei l’unica legge era quella scritta e consegnata
dall’unico Dio a Mosé, i farisei, invece, predicavano il rispetto assoluto
della Legge come della Tradizione degli antichi padri, perdendosi in tutta
una serie di prescrizioni che, secondo gli evangelisti, provocarono la
veemente reazione di Gesù. Ad un’aristocrazia “fortemente ellenizzata e
14
F. Giuseppe, ’Ιουδαĩκης ΄Αρχαιολογίας, X, 278; XII, 173; XV, 371.
11
apertamente filoromana”
15
, inoltre, si contrapponevano i ceti medi e
popolari, “strettamente legati alla tradizione e pervasi ancora da speranze
di liberazione”
16
. Al primo gruppo appartenevano sia le grandi e
possidenti famiglie patrizie (i maggiorenti - οί δύνατοι - di Giuseppe, e gli
anziani - οί πρεσβύτεροι - degli Evangelisti) sia alcune prestigiose e potenti
famiglie sacerdotali, di origine sadducea e di Gerusalemme che
detenevano le più alte cariche religiose e si occupavano
dell’amministrazione del Tempio, centro religioso e politico di tutto il
giudaismo.
A una di queste famiglie, quella di Anna (o Anano, o Anania),
appartenne per circa sessant’anni (dal 6 al 67 d.C.) la carica di sommo
sacerdote, e se è vero che tale incarico venisse conferito direttamente dal
legato di Siria, tale famiglia dovette dare al dominatore romano la
certezza della massima affidabilità politica possibile. In sessanta anni,
infatti, i sommi sacerdoti furono appena sette, e mentre Eleazaro(16-17
d.C.), Jonathan (36-37 d.C.) e Mattia (42-43 d.C.) furono rimossi dopo
appena un anno dalla nomina, gli altri, tutti imparentati con Anna, che fu
il vero patriarca della famiglia e il punto di riferimento religioso e politico
del gruppo sacerdotale, seppero conservarsi a lungo l’incarico, riuscendo
evidentemente graditi ai governatori romani.
15
G. Jossa, I gruppi giudaici ai tempi di Gesù (Brescia 2001) pag. 23.
16
Ibidem.
12
Caifa, genero di Anna e Sommo Sacerdote al tempo del processo e
della condanna di Gesù, fu nominato da Valerio Grato nell’anno 18 d.C.
e rimase in carica fino al 36 d.C.!
Al fianco dei sommi sacerdoti (οί άρχιερε ̃ις) e dei maggiorenti
Giuseppe colloca i capi dei farisei (οί πρω̃τοι τω ̃ν Φαρισαι ́ων), che nei
Vangeli sono chiamati scribi (οί γραµµατε ̃ις). Questi erano maestri farisei
che godevano di un ampio seguito tra le masse popolari, soprattutto tra i
giovani, per il loro radicalismo religioso, che tendeva ad una progressiva
spiritualizzazione del giudaismo attraverso la creazione di una comunità
religiosa chiamata al rispetto di quelle norme di culto fin qui valide per il
solo sacerdozio
17
. Il sinedrio, quindi, esprimeva il ceto dominante di
Israele, quello che più di ogni altro era interessato a conservare le proprie
prerogative e i propri privilegi, laddove invece nella società civile
cominciava a farsi largo con sempre maggiore veemenza una tendenza
politica di natura apocalittica che, pur sempre presente nella spiritualità
ebraica, aveva assunto nel tempo una fisionomia nient’affatto omogenea.
Da una parte, infatti, c’era chi attendeva l’arrivo di un Messia
politico, il figlio di Davide in grado di liberare Israele dal giogo
dell’oppressione, dall’altra tale attesa messianica si presentava come il
desiderio di una mondo di pace e di giustizia sotto la guida di quel figlio
17
Ibidem.
13
dell’uomo invocato dal profeta Daniele
18
. I gruppi degli zeloti e dei sicari
19
rappresentavano tale visione del giudaismo e se ne fecero promotori
attraverso una forte, violenta opposizione al dominio romano.
Un discorso a parte, invece, va fatto per quanto riguarda la setta
degli esseni. Questi, infatti, vivevano nel deserto in condizioni di perfetto
isolamento dal mondo, costituiti in comunità autosufficienti che
seguivano precisi riti di iniziazione e di purificazione. Rispettosi del
celibato, avevano adottato la comunione dei beni, e trascorrevano le loro
giornate tra la cura dei campi e rigorose pratiche ascetiche
20
.
Ponzio Pilato, che fu praefectus Judaeae e indubbio protagonista nel
processo a Gesù
21
, si trovò, dunque, a dover fronteggiare una situazione
estremamente complessa e turbolenta, e non sempre lo fece con
intelligenza e sagacia politica. Sia Giuseppe Flavio che Filone, infatti, ci
hanno tramandato l’immagine di un uomo scontroso e ostinato, che
disprezzava i suoi governati fino all’antisemitismo
22
. E questo suo
atteggiamento trovò a Roma l’appoggio di Seiano, favorito e onnipotente
18
Dn., 7, 9-14.
19
Ibidem. Nonostante che la maggioranza degli studiosi consideri il gruppo dei sicari semplicemente
come un’ala radicale dello zelotismo, Jossa ne ha dimostrato con acume la diversa origine socio-
religiosa.
20
Riccardo Calimani, Gesù Ebreo (Milano 1998) pag. 80.
21
Governò, infatti, dal 26 al 36 d.C.
22
“Filone di Alessandria e Flavio Giuseppe concordano in un’immagine molto negativa del
procuratore della Giudea, un tiranno corrotto, avido e del tutto insensibile alle ragioni della giustizia;
un uomo crudele per natura che, per la durezza del suo cuore, non sarebbe indietreggiato dinanzi a
nessun misfatto. Sotto il suo governo in Giudea, non si sarebbe ottenuto nulla se non per corruzione.
L’orgoglio, la prepotenza e l’insolenza sarebbero stati la regola. Il paese sotto Pilato è dipinto come
abbandonato al saccheggio, oppresso, oltraggiato in tutti i modi, un paese nel quale si mandava a
morte la gente senza giudizio”. Cfr. Filone di Alessandria, Legatio ad Caium, XXXVIII, in G.
Zagrebelsky, Il Crucifige! E la democrazia (Torino 1995) pag. 50-51.