4
all’eliminazione dal mercato del concorrente (cd. predatory
price). In particolare la fattispecie viene classificata tra le cd.
pratiche predatorie, quelle pratiche cioè poste in essere con
lo scopo di prevalere, in funzione monopolistica, sui
concorrenti artificialmente, ovvero senza competere sui
meriti. Quindi i primi dibattiti circa la liceità della pratica del
sottocosto sono affrontati dal punto di vista dell’antitrust,
avendo riguardo a problemi quali la tutela del mercato e
della libera concorrenza.
In Italia, invece, mancando fino al ’90 una specifica
disciplina antitrust, la vendita sottocosto è stata trattata
nell’ambito della concorrenza sleale e la sua liceità è stata
discussa in base alla previsione dell’art. 2598, n. 3 c.c.,
secondo il quale compie atti di concorrenza sleale “chi si
vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non
conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo
a danneggiare l’altrui azienda”. Nel tempo la vendita
sottocosto è stata ricostruita come fattispecie atipica di
5
concorrenza sleale per contrarietà ai principi della
correttezza professionale e tipizzata in via giurisprudenziale;
ma il dibattito circa la sua illiceità non è ancora sopito.
Con l’entrata in vigore della legge antitrust, anche in Italia si
pone il problema dei rapporti e della possibile interferenza di
questa disciplina con quella della concorrenza sleale,
soprattutto rispetto a fattispecie come la vendita sottocosto
che possono assumere rilevanza in entrambi gli ambiti.
Storicamente si ritengono distinti gli ambiti di applicabilità
delle due discipline, considerando la concorrenza sleale
come volta a garantire la lealtà nei rapporti tra concorrenti,
mentre l’antitrust, invece, come finalizzata ad assicurare
l’assetto concorrenziale del mercato, nell’interesse non solo
dei concorrenti ma anche e soprattutto dei consumatori.
Partendo da una tale visione, l’area di possibile contatto tra
le due discipline sembra svanire, dal momento che per
l’antitrust rileveranno solo quei comportamenti che mettano
in pericolo la concorrenza nel mercato, mentre per la
6
disciplina della concorrenza sleale avrà senso reprimere
pratiche che si rilevino dannose solo per i concorrenti. In un
caso avremo quindi tutela della concorrenza e del benessere
collettivo, in un altro caso tutela dei concorrenti e dei loro
interessi prettamente soggettivi. Figure come la vendita
sottocosto di conseguenza andrebbero valutate da prospettive
diverse a seconda che si discuta della loro illiceità sotto il
profilo della legislazione monopolistica (rilevando in questo
caso solo gli effetti della pratica sulle condizioni di mercato)
o sotto il profilo della disciplina della concorrenza sleale
(considerando in questo secondo caso solo la posizione delle
imprese rivali e gli effetti su di essa provocati dall’atto di
concorrenza, senza valutazioni di rispetto del meccanismo
concorrenziale).
Anche se parte della dottrina
1
continua a distinguere cosi
nettamente gli obbiettivi delle due discipline, oggi la
tendenza prevalente è di considerarle come entrambe volte a
1
Mansani L., Ribassi di prezzo, offerte promozionali e concorrenza
sleale, Milano 1990, p. 60.
7
garantire la libertà e la lealtà della concorrenza. A questa
visione più armoniosa si approda rivalutando il ruolo della
disciplina repressiva della concorrenza sleale che non viene
più concepita in maniera esclusivamente strumentale alla
tutela degli interessi individuali dei concorrenti, ma viene
anche vista come diretta a garantire il buon funzionamento e
lo sviluppo equilibrato del mercato. Nella tutela del mercato
e della concorrenza viene quindi individuato un importante
punto di convergenza tra disciplina antitrust e disciplina
della concorrenza sleale, la quale entra a pieno titolo tra gli
istituti regolatori del mercato e rivolti alla sua salvaguardia.
I criteri di valutazioni di fattispecie che possono rilevare in
entrambe le discipline diventano a questo punto coincidenti
perché si tratta in entrambi i casi di verificare l’impatto di
una pratica sul mercato e sulla concorrenza; diversamente,
potrebbe aprirsi un insanabile contrasto tra le due discipline
perché la normativa della concorrenza sleale, se pensata
come finalizzata alla tutela dei soli concorrenti e delle
8
posizioni da essi acquisite, finirebbe per bloccare la
concorrenza come strumento selettivo delle imprese più
efficienti, mortificando la concorrenza sui meriti
2
su cui si
fonda la disciplina antitrust.
Rispetto a figure quali la vendita sottocosto, l’interferenza
tra antitrust e concorrenza sleale determina però il rischio o
la possibilità che uno stesso comportamento sia sanzionato
due volte. Per cercare di delimitare gli ambiti di competenza
delle due discipline e capire quando un comportamento
come la vendita sottocosto rilevi per l’una e quando per
l’altra, una soluzione proponibile è quella di considerare la
posizione dell’impresa che utilizza tale pratica. Se l’impresa
agente è in posizione dominante (ai sensi del diritto
antitrust), la figura ricadrà sotto la disciplina antitrust,
nell’ambito della quale si dovrà valutare se la vendita
2
Per “concorrenza sui meriti” si intende una concorrenza in cui i
comportamenti sono adottati in funzione di un miglioramento
produttivo dell’impresa o in sua conseguenza (Giudici P., I prezzi
predatori, Milano 2000, p. 20 ss.); cfr. anche cap. 2, par. 1.2 di questo
studio.
9
sottocosto si possa configurare nel caso concreto come abuso
di posizione dominante; se viceversa l’impresa che vende
sottocosto non ha tale posizione, la pratica sarà valutata
nell’ambito della disciplina della concorrenza sleale,
verificando la sua contrarietà alla correttezza professionale,
con riguardo comunque all’idoneità di tale pratica a
modificare negativamente l’assetto concorrenziale del
mercato.
In questo lavoro la vendita sottocosto sarà studiata
nell’ambito della disciplina della concorrenza sleale, alla
luce delle varie concezioni della correttezza professionale
che sono state sviluppate in dottrina ed in giurisprudenza.
Il primo passo sarà analizzare le differenti interpretazioni dei
principi di correttezza professionale che si sono alternate e
mettere in risalto come tali interpretazioni finiscano poi per
legarsi a differenti concezioni della disciplina della
concorrenza sleale, dalle quali passa la tutela di interessi
diversi.
10
Il passo successivo è affrontare la questione della liceità
della vendita sottocosto partendo da queste differenti
interpretazioni della correttezza professionale.
Da ultimo, si esamina la più recente disciplina che in materia
di vendita sottocosto è stata approvata nel nostro paese, con
attenzione anche ai problemi ed alle critiche che essa ha
sollevato.
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CAPITOLO PRIMO
I PRINCIPI DELLA CORRETEZZA
PROFESSIONALE NELLE INTERPRETAZIONI
DELLA DOTTRINA E DELLA GIURISPRUDENZA
12
1. I PRINCIPI DELLA CORRETTEZZA
PROFESSIONALE
L’art.2598, n° 3 del codice civile stabilisce che compie atti
di concorrenza sleale chiunque “si vale direttamente o
indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi
della correttezza professionale e idoneo a danneggiare
l’altrui azienda”. Questa previsione segue a quelle contenute
nei numeri 1 e 2 dello stesso articolo che qualificano come
atti di concorrenza sleale quelli di confusione, di imitazione
servile, di denigrazione e l’appropriazione di pregi. La
previsione del numero 3 funziona da norma di chiusura del
sistema e non a caso utilizza una clausola generale quale
quella della “correttezza professionale”, sulla cui
interpretazione si sono confrontate dottrina e giurisprudenza.
Parlando dei “principi di correttezza professionale” la legge
sembra riferirsi ad un sistema di regole esistenti al di fuori di
essa, al quale operi una sorta di rinvio ricettizio. In realtà un
simile sistema non esiste affatto, quanto meno in forma
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codificata, vale a dire ad es. come raccolta di usi o come
codice deontologico approvato dai rappresentanti delle
categorie imprenditoriali. E’ dunque compito dell’interprete
quello di attribuire un contenuto alla formula legislativa,
compito questo di non facile soluzione.
3
1.1 LE TEORIE ELABORATE DALLA DOTTRINA
All’inizio la dottrina sembra dividersi essenzialmente tra due
posizioni contrapposte: una che intende i principi di
correttezza professionale come principi di ordine etico e
l’altra che li interpreta come usi, ovvero come
comportamenti tenuti in un determinato ambiente e in un
determinato momento storico. In entrambi i casi la fonte
della correttezza viene comunque ricercata al di fuori
dell’ordinamento positivo.
Si può subito premettere che l’adottare l’uno o l’altro criterio
importa conseguenze di notevole rilievo. Infatti, se per
3
Vanzetti A.- Di Cataldo V., Manuale di dir. Industriale, III ed.,
Milano, 2000, p. 23.
14
principi di correttezza professionale si intendono principi di
ordine etico, si finisce per caricare il giudizio sulla lealtà o
slealtà di un comportamento di contenuti deontologici e però
si è sempre in grado di valutare qualsiasi comportamento per
quanto nuovo esso sia. Se invece ai principi di correttezza
professionale si dà il significato di “usi”, se ne guadagna in
termini di certezza del diritto ma il rischio è di non poter
valutare un comportamento del tutto nuovo per via di una
norma che non risulta elastica.
1.1.1 Le tesi fenomenologiche
La dottrina che si ricollega alle tesi cd. fenomenologiche
parte dalla originaria concezione della concorrenza sleale
come disciplina funzionalizzata a tutelare esclusivamente gli
interessi della classe imprenditoriale nel garantire la lealtà
nella competizione economica.
4
4
Marchetti P.- Ubertazzi L., Commentario breve al diritto della
concorrenza, Padova 1997, p.504 ss.
15
Con il termine “tesi fenomenologiche” si intendono quelle
tesi secondo le quali il legislatore, con la clausola generale
della correttezza professionale prevista al n.3 dell’art. 2598
cc., avrebbe fatto rinvio ad una fonte non statale di
produzione del diritto (riducendo così il compito
dell’interprete e del giudice ad un intervento meramente
rilevativo) ed in particolare alle valutazioni dei ceti
imprenditoriali.
In questo senso una prima opinione ritiene che la clausola
dei principi di correttezza professionale rinvii agli usi in
senso tecnico propri del mondo imprenditoriale; ad essa
fanno capo autori come Franceschelli
5
, secondo il quale il
nostro legislatore, richiamando i principi di correttezza
professionale, ha voluto far riferimento a quei
comportamenti abitualmente praticati negli ambienti
interessati con il convincimento della loro giuridicità ovvero
agli usi. Questa ricostruzione, secondo l’autore, avrebbe il
5
Franceschelli G., Importazioni libere in zone di esclusiva e
concorrenza sleale, in Riv. dir. ind., 1954, I, p. 97 ss.
16
pregio di soddisfare la necessità di far riferimento ad un
criterio oggettivo, di evitare le incertezze di dottrina e
giurisprudenza nel definire che cosa siano i principi di
correttezza professionale ed infine di armonizzarsi con la
parallela formula – usi onesti- dell’art. 10 bis della
Convenzione dell’Unione di Parigi, in materia di
concorrenza, ratificata dall’Italia.
L’elemento caratteristico di questa prima opinione è quindi
questo richiamarsi a dati concreti ed oggettivi, sulla cui
duplice caratteristica dell’accettazione da parte della
categoria imprenditoriale e dell’impiego regolare dovrebbe
vertere il giudizio da parte dei giudici.
6
Secondo un diverso orientamento
7
i principi della correttezza
professionale andrebbero desunti dalla prassi ovvero dal
costume commerciale, cioè dall’insieme dei comportamenti
6
Ronco S., L’applicazione giurisprudenziale della clausola di
correttezza professionale nella concorrenza, in Contr. Impr., 1997,p.
917 ss.
7
Ascarelli T., Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, III ed.,
Milano 1960, p.209; Guglielmetti G., La concorrenza sleale, in Tratt.
di Dir. Civ. Ital., vol. X, p. 22 ss.
17
adottati e ritenuti corretti dalla categoria degli imprenditori,
pur se privi del carattere di uso in senso tecnico. Per
Ascarelli
8
, infatti, il codice, nella previsione dell’art. 2598 n.
3, “non ha fatto riferimento a una valutazione generale e
astratta, ma a quella valutazione che poi concretamente corre
in un determinato periodo e…in un determinato settore, in
corrispondenza a un’effettiva, perciò storicamente variabile,
valutazione sociale, tradotta in una pratica effettivamente
osservata in via generale, nei cui confronti il giudice sarà poi
chiamato a valutare l’atto concretamente compiuto”.
8
Ascarelli T., op. cit., p. 209 ss.