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letterario, avevano però già il vantaggio di essere la continuazione del latino parlato
dagli Etruschi, particolarmente conservatore e aderente alle norme linguistiche del
latino parlato a Roma dalle persone colte, quindi comprensibile a un maggior numero di
persone (De Mauro 1978). In aggiunta a questi due fattori, non si deve dimenticare che
Firenze in questo periodo storico si era arricchita con le industrie e i commerci ed era
diventata una della grandi potenze d’Europa.
Si affermò così a partire dal XV secolo una sorta di supremazia morale di
Firenze e della sua lingua. Nelle diverse regioni d’Italia cominciò a svilupparsi la
consapevolezza di una distinzione fra la lingua – usata soprattutto per scrivere
documenti e testi letterari, da far conoscere in un territorio esteso - e il dialetto, usato
per comunicare oralmente in un territorio limitato, in circostanze di vita quotidiana.
Detto questo, da una parte il toscano si affermò come lingua nazionale, dall’altra i
volgari non toscani iniziarono a ricoprire la funzione di dialetti. In Italia dunque, si può
parlare propriamente di dialetti solo a partire dall’affermazione del fiorentino come
lingua nazionale.
Nel 1861, quando si realizzò l’Unità d’Italia, la dialettofonia era la condizione
linguistica normale: solo una piccola percentuale di italiani (meno del 10%) conosceva
la lingua nazionale, ma sempre a fianco di uno dei dialetti in cui era scomposto il
panorama linguistico italiano. Da questo momento il quadro cominciò a modificarsi e
iniziò un lento e continuo processo di erosione della vitalità dei dialetti. Il processo di
unificazione linguistica si avviò lentamente e con ritmo diverso nelle varie regioni, con
maggiore rapidità al livello dei ceti socialmente più elevati, assai più a rilento nei ceti
più bassi ed economicamente depressi. Molteplici sono stati i fattori di cambiamento:
ξ La scuola. Al momento dell’Unità la scuola era poco frequentata e versava in
condizioni disastrose, basti pensare che la maggior parte degli insegnanti parlava
in dialetto a scuola. Col tempo si radicò però l’idea che i dialetti
rappresentassero il principale ostacolo nell’apprendimento della lingua corretta e
i programmi scolastici si mossero in questa direzione. Comportamenti per
principio o di fatto antidialettali nella scuola continuano tuttora, non tenendo
conto del fatto che porteranno ad una progressiva sparizione di una lingua: il
dialetto.
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ξ L’inurbazione. Con la seconda rivoluzione industriale, tra i due secoli, le attività
industriali si concentrarono all’interno o nelle immediate vicinanze delle città: lì
si trasferirono coloro che nell’industria avevano o cercavano lavoro, soprattutto
contadini che abbandonavano le campagne. Iniziò quindi da una parte,
l’abbandono dei territori rurali, dall’altro il progressivo sovrappopolamento delle
città fortemente industrializzate. Era l’inizio di un graduale passaggio dalla
civiltà agricola a quella industriale, che avrebbe caratterizzato in maniera sempre
più incisiva tutto il Novecento. Le conseguenze linguistiche furono molteplici: la
centralità socioeconomica della città conferì un prestigio sempre maggiore alle
varietà linguistiche urbane rispetto a quelle rurali e inoltre l’inurbamento attivò
processi di avanzamento sulla scala sociale che, sul piano linguistico, portarono
masse di parlanti dal dialetto alla varietà urbana, o regionale.
ξ L’emigrazione. Questo fenomeno comprende i grandi flussi di migrazioni
interne, diretti dalle regioni meridionali e dalle isole alle aree industrializzate del
Nord-Ovest, e un emigrazione verso l’estero; la fuoriuscita di masse di
dialettofoni contribuì a ridurre la percentuale di dialettofoni esclusivi presenti in
Italia.
ξ L’esercito. Con la leva obbligatoria estesa a tutto il Regno d’Italia, quasi tutti i
giovani ventenni, dialettofoni nativi, arruolati nell’esercito furono costretti a
parlare in italiano se volevano comunicare, dal momento che provenivano da
diverse zone. L’italiano venne utilizzato come lingua franca in una società
multidialettale (Grassi, Sobrero, Telmon 2003).
I fenomeni indicati sino ad ora influenzarono in maniera incisiva la società
italiana soprattutto a partire dal ventennio successivo al secondo confitto mondiale;
basti pensare che gli addetti alle attività terziarie, che nel 1951 erano il 21,1%, sono nel
1970 il 38,2% (De Mauro 1978, p.96). La crescente inurbazione è sicuramente il
fenomeno che occupa un posto centrale nella storia linguistica recente, perché
abbandonare il proprio paese di campagna per andare verso zone industrializzate e
urbanizzate, significava abbandonare il proprio dialetto locale e acquisire la lingua
comune per poter comunicare.
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Intorno agli anni cinquanta, l’avvento della televisione rinforzò ulteriormente la
promozione dell’italofonia; basta pensare che la pubblicità fino ad anni recentissimi ha
rigorosamente escluso ogni minima produzione dialettale, potenziando indirettamente il
prestigio dell’italiano (Grassi, Sobrero, Telmon 2003).
Il possesso della lingua nazionale è venuto ad assumere, in tempi recenti, sempre
più il valore simbolico di autentica cultura e di promozione sociale, a scapito del
dialetto che ha acquistato una connotazione spregiativa; tale valutazione ci porta a
pensare che nella nostra società siamo di fronte ad una vera e propria fuga dal dialetto.
1.1 Le isoglosse
Da molto tempo i dialettologi si sono posti il problema di classificare le varie
aree dialettali. L’hanno fatto, in generale, considerando principalmente i criteri
linguistici “interni” -cioè i fatti fonetici, morfologici, ecc.-, senza però trascurare altri
aspetti, che potremmo definire “esterni”, quali i processi storici che hanno
contraddistinto la nostra penisola, gli aspetti delle affinità e delle divergenze culturali e
la geomorfologia (Grassi, Sobrero, Telmon 2003).
Per quanto la classificazione non vada intesa in senso assoluto, si possono
distinguere in Italia tre aree con caratteristiche linguistiche diverse, la Settentrionale, la
Centrale e la Meridionale, separate da due grandi linee di confine (isoglosse): la linea
La Spezia-Rimini divide i dialetti settentrionali da quelli centro-meridionali; la linea
Roma-Ancona divide i dialetti centrali da quelli meridionali (Marazzini 2004).
L’individuazione, da parte di Gerhard Rohlfs, di questi due grandi fasci di isoglosse ha
il merito di combinare, pur partendo da criteri esclusivamente geolinguistici, le ragioni
della storia linguistica con quelle della storia dell’Italia e della geografia: oltre a seguire
il primo segmento della catena appenninica, la linea “La Spezia-Rimini” fu per molti
secoli la frontiera che divideva l’arcidiocesi di Ravenna dall’arcidiocesi di Roma. Non è
facile dire quanto queste premesse storiche siano state determinanti per stabilizzare le
differenze linguistiche, ma di fatto sono coincidenze innegabili.
È evidente che i vasti territori di questi grandi gruppi dialettali si lasciano
facilmente suddividere; molto netto è il limite fra il Piemonte e i dialetti liguri, come
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anche quello della Venezia dai dialetti di tipo lombardo. Ma tutti questi confini dialettali
non debbono intendersi come limiti assoluti perché una staticità dei territori dialettali
non esiste e non è mai esistita (Grassi, Sobrero Telmon 2003).
Fig.1 Linea La Spezia-Rimini e linea Roma-Ancona:le isoglosse più importanti (Grassi,
Sobrero, Telmon 2003, p. 44).
1.1.1 Il valore orientativo delle isoglosse
Nonostante le diverse teorie in merito alla suddivisione linguistica del nostro
paese, tutti i dialettologi sono ormai concordi nell’affermare che non si possa parlare di
frontiere rigide tra dialetti; le isoglosse valgono come utile orientamento, ma non vanno
assolutizzate. Questo per almeno due buone ragioni:
ξ in primo luogo, perché permane spesso una sorta di ambiguità nel significato
stesso della parola “dialetto”, che viene talvolta intesa come “insieme della
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parlate di un’intera area” (ad esempio, “il dialetto emiliano”, “il dialetto
lombardo”ecc.) e talvolta invece come “lingua locale di una singola comunità”
(ad esempio, “il dialetto di San Prospero”, “il dialetto di Mirandola”, ecc.).
ξ in secondo luogo, perché è evidente la constatazione che chi si muove, poniamo,
da Mirandola per dirigersi verso Bologna troverà, nel primo paesino che
incontra (supponiamo che Medolla sia distante da Mirandola poco più di cinque
chilometri), un dialetto che per qualche particolare fonetico, morfologico,
lessicale sarà magari un po’ differente da quello mirandolese, ma che, nel
complesso, potrà essere ritenuto molto simile a questo. Facendo ancora qualche
chilometro, si imbatterà in un nuovo dialetto che ha qualche differenza e molte
affinità con quello di Medolla, e magari qualche differenza in più rispetto a
quello di Mirandola; potrà andare avanti in questo modo, di piccola
differenziazione in piccola differenziazione, fino a Bologna. I due capi del
viaggio (dialetto di Mirandola vs. dialetto di Bologna) saranno molto differenti,
ma in ogni tratto del viaggio stesso le differenze tra dialetti concomitanti non
saranno certo così enormi.
Da quanto detto discende che il confine linguistico inteso come “isoglossa”, è
una pura convenzione da utilizzare con tutte le riserve del caso (Grassi, Sobrero,
Telmon 2003).
1.2 Dialetti Settentrionali
Ai fini di questo lavoro, si prenderanno in esame solamente i dialetti
settentrionali.
Come si può desumere dalla cartina, al di sopra della isoglossa La Spezia-Rimini
si collocano i dialetti settentrionali che comprendono quelli veneti e quelli galloitalici
(comprensivi a loro volta dei dialetti piemontesi, lombardi, liguri ed emiliano-
romagnoli). Per quanto possano essere differenti tra di loro, è innegabile che un certo
numero di fenomeni accomuna tutto questo insieme di parlate. I tratti comuni sono:
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1 La lenizione. È il fenomeno in base al quale le occlusive sorde latine, poste tra
due vocali, diventano sonore; più in particolare, se si tratta di consonanti labiali,
esse arrivano fino alla fricativa (es. pepe, dal latino piper, diventa “péver” in
lombardo, “pèiver” in torinese) e se si tratta di dentali o di velari, possono
arrivare fino alla caduta (es. fratello, dal latino fratellu, diventa “fradeo” in
veneziano e “fradèl” in milanese e emiliano).
2 Scempiamento vs. geminazione. Per scempiamento si intende quel fenomeno per
cui, in tutti i dialetti settentrionali e anche nella pronuncia settentrionale
dell’italiano, le consonanti geminate si riducono a consonanti brevi. In forme
quali il piemontese, il lombardo e il veneto, la parola “spalla” viene pronunciata
“spala”, così come “gatta” viene realizzata con la scempia “gata”.
Fig.3 I raggruppamenti dialettali in Italia (Grassi, Sobrero, Telmon, 2003 p.51)
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3 L’assibilazione. Davanti alle vocali palatali e e i, la consonante latina C tende
generalmente a divenire una sibilante, con articolazioni talvolta diverse a
seconda delle varietà; ad esempio troviamo quasi dappertutto “sira” per “cera”,
oppure “serkà” per “cercare”, ecc…
4 La conservazione o la palatalizzazione dei nessi consonantici CL e GL. La
parola “chiave”, dal latino “clave”, in dialetto mantiene la CL , pronunciando
“clàf” (conservazione). In emiliano diventa invece “ciev” (fenomeno della
palatalizzazione intensa). (Grassi, Sobrero, Telmon 2003).
5 La caduta delle vocali finali. La parola “anno” diventa “an”, così come “sale”
diviene “sal”; questo fenomeno non tocca però la vocale A in posizione finale,
che resiste.
6 La contrazione delle sillabe atone. Per esempio la parola”telaio”, diviene “ tlar”.
Inoltre, a nord della linea La Spezia-Rimini si ha la comparsa di alcuni tipi
lessicali, come “incö”, da “in hoc die”, invece di “oggi” (hodie), che non scavalcano il
confine in questione (Marazzini 2004).
Per concludere questa breve trattazione, è necessario considerare che i dialetti
veneti e quelli gallo-italici risalgono a due diversità di fondo; la parlata veneta presenta
un latino su un sostrato venetico, diverso dal sostrato celtico, che ha invece
contrassegnato diversamente i dialetti galloitalici (Grassi, Sobrero, Telmon 2003).
1.2.1 Dialetti emiliani vs. dialetti settentrionali.
Alla regione amministrativa dell’Emilia-Romagna non corrisponde una realtà
dialettale unitaria. Anzitutto entro i confini delle otto province si parlano molte varietà
dialettali, in secondo luogo i confini dei dialetti emiliano-romagnoli differiscono da
quelli amministrativi: a occidente raggiungono Pavia e Voghera, a nord verso il confine
veneto arrivano a Mantova, nelle valli appenniniche invece non sempre giungono al
crinale; scendono poi nella Lunigiana fin verso Carrara.
L’area emiliano-romagnola viene solitamente suddivisa in diverse sezioni: la
emiliana occidentale con le province di Parma, Piacenza, Reggio, Modena; la emiliana
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orientale con Bologna e Ferrara; la romagnola con le province di Forlì e Ravenna e il
circondario di Imola.
Le varietà delle parlate emiliano-romagnole sono il risultato di diversificate
ragioni storiche e geografiche che nel corso dei secoli hanno prodotto la situazione
attuale; non è facile dire quante esse siano ma è bene tenere distinte le due parti della
regione amministrativa: l’Emilia e la Romagna (Bellosi, Quandamatteo 1979).
Ciò che rende inconfondibili i dialetti dell’intera area linguistica emiliano-
romagnola, è, oltre all’intonazione, la presenza, più forte e diffusa che negli altri
territori gallo-italici – ma tuttavia differenziata nelle diverse varietà locali – dei due
fenomeni della palatalizzazione di A tonica in sillaba libera e della caduta delle vocali
atone.
Per quanto riguarda la palatalizzazione, si direbbe che si sviluppi lungo tutta la
via Emilia da Piacenza fino all’Adriatico, lasciando però ampie zone di conservazione
sia a sud, verso l’Appennino, sia a nord, verso il Po.
Tra Parma e Modena le vocali che si sviluppano dalla palatalizzazione sono
delle [æ] palatizzate, tuttavia distinte dai parlanti. Proseguendo verso Bologna, la
distinzione non è invece più percepibile, e vengono colpite dalla palatalizzazione tutte le
A toniche: mentre, per esempio, a Parma, Modena, Reggio si hanno esiti come säl,
amär, ma rana, campana, a Bologna si riscontrano invece delle chiarissime è aperte:
sèl, amèr, rèna, campèna. In Romagna, non soltanto proseguono le condizioni
bolognesi, ma, in numerose varietà, tutte queste è si chiudono in é.
Quanto alla caduta delle vocali atone, essa è talmente forte in quest’area da
provocare spesso incontri consonantici complessi, con la conseguente necessità di
sviluppare nuove vocali, soprattutto all’inizio di parola. Tipico il caso di amarcòrd, che
è in realtà l’unione del pronome riflessivo di prima persona e del presente indicativo:
am arcòrd “mi ricordo”, dove sono cadute sia la vocale e del pronome me “mi”, sia la e
di record “ricordo”, e in compenso sono state aggiunte altrettante a epentetiche.
Un’altra importante peculiarità dei dialetti emiliani e romagnoli riguarda il
vocalismo; come negli altri dialetti galloitalici, la distinzione tra vocali aperte e chiuse
non è operativa. Ne consegue un sistema tendenzialmente “pentavocalico” (formato da
cinque vocali: i, è, æ, ó, u), anche se in realtà ciascuna delle innumerevoli varietà finisce
poi per adottare modalità sue proprie (Grassi, Sobreto, Telmon, 2003 p.57-58).