1
Prefazione
All’inizio della mia ricerca, il mio intento era quello di scrivere una tesi riguardante i dialetti dello
Yemen. Però serviva un’introduzione all’argomento, doveva esserci un riferimento storico alle
origini della lingua e alle motivazioni che hanno portato alla differenziazione delle parlate, per poi
concentrarmi sullo Yemen.
Durante la lettura di studi precedenti sulla storia della lingua araba, mi sono talmente appassionata
all’argomento che alla fine il mio lavoro si è incentrato quasi per metà su questo tema.
Se si fosse trattato dell’evoluzione di una lingua europea, una ricerca in questo campo sarebbe stata
sicuramente interessante da un punto di vista linguistico; in questa tesi però ho parlato dell’arabo, e
uno studio sulla sua evoluzione non è interessante solo linguisticamente, ma anche e soprattutto dal
punto di vista culturale. Come verrà detto più volte, la lingua va sempre a spasso con la cultura e
viceversa, non è mai possibile scindere le due cose, quindi anche dallo studio diacronico del
francese, per esempio, si possono dedurre anche gli aspetti dell’evoluzione culturale.
L’arabo però ha un privilegio che rende questa lingua assolutamente unica: è la lingua del Corano.
Ora, questa non è un’osservazione da poco perché implica delle ripercussioni notevoli.
Secondo la religione islamica, nel 610 l’Arcangelo Gabriele iniziò a rivelare a Muhammad il Libro
Sacro “in lingua araba chiara”, cioè Dio aveva parlato al Profeta in Arabo per mezzo
dell’Arcangelo. Ma se Dio ha parlato in Arabo, significa che questa è una lingua sacra, intoccabile,
e quindi modificarla vorrebbe dire intaccare la parola di Dio. Da qui il problema della traducibilità
del Corano...
Ormai l’evoluzione linguistica è un dato di fatto, è un processo inevitabile come l’invecchiamento
organico. Ma pensiamo a chi in passato doveva decidere se e come introdurre un nuovo vocabolo.
Vedremo tutti i problemi creati dall’introduzione di nuovi concetti, propri dell’età moderna, che
ovviamente non esistevano ai tempi della rivelazione. Che fare? Cercare nella derivazione un
termine improbabile e poco efficace pur di mantenere la purezza della lingua sacra, oppure ricorrere
alla scorciatoia del prestito straniero, comprensibile a tutti, col rischio di inquinare la lingua
coranica? È stato il caso di “tram”, “telefono”, “televisione” e molti altri vocaboli ormai di uso
comune. In ambito europeo sappiamo che esistono lingue più aperte ai prestiti stranieri, come
l’italiano, e altre molto più conservatrici come il francese e lo spagnolo, che si ostina a chiamare
ratón il mouse del computer, l’ordenador. Ma nell’arabo non è una questione di essere più o meno
aperto agli scambi, è proprio una questione religiosa, direi mistica, che merita molta attenzione.
2
Nella seconda parte della tesi ho trattato il dialetto di San‘…. Perché non tutti i dialetti yemeniti
come mi ero proposta?
Innanzitutto i dialetti dello Yemen sono innumerevoli, ogni villaggio ne ha uno; è un po’ come se
volessimo fare uno studio su tutti i dialetti italiani: potremmo fare una breve panoramica che
risulterebbe alquanto sterile, oppure studiare approfonditamente una sola parlata locale.
In secondo luogo, i miei soggiorni in Yemen li ho trascorsi quasi interamente a San‘…, salvo brevi
escursioni. Quindi ho preferito dare rilievo alla mia esperienza sul campo, più che a ricavare
informazioni da studi precedenti, per altro numericamente scarsi.
Il dialetto di San‘… è quello che più si avvicina al classico, nonostante qualunque arabo sia convinto
di parlare la lingua più pura... È l’unico dialetto in cui tutte le lettere (comprese le enfatiche)
vengono pronunciate come nel classico, salvo poche eccezioni come la ق che si pronuncia come /g/
sorda. Anche dal punto di vista lessicale, difficilmente un vocabolo si discosta nettamente dal
classico o, se lo fa, spesso richiama delle sue forme arcaiche.
Lo Yemen è il più conservatore tra i Paesi arabi, sia dal punto di vista linguistico che da quello
culturale. Per questo visitandolo e studiandone la lingua si ha l’impressione di tornare alle origini
della civiltà araba (l’Arabia Felix era proprio lo Yemen) e di toccare con mano l’essenza di questo
mondo così contraddittorio e, forse per questo, così irresistibile.
3
Parte Prima
Premesse di sociolinguistica
Peter Breugel, La torre di Babele, 1563
4
Capitolo I
Sociolinguistica. Definizione
Anche se esiste una lunga tradizione nello studio dei dialetti e in generale il rapporto tra significato
delle parole e cultura, la sociolinguistica ha conosciuto il suo maggiore sviluppo solo tra la fine
degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta.
Possiamo senza dubbio affermare che sociolinguistica e linguistica sono due concetti diversi,
benché molti sociolinguisti si ritengano prima di tutto dei linguisti. Secondo Hudson, infatti, “la
linguistica tiene conto solo della struttura del linguaggio, ignorando i contesti sociali in cui essa
viene appresa e studiata. Tuttavia non si può dare per scontata la nozione di una “lingua X” dal
momento che tale lingua X è definita in termini di gruppo di individui che la parlano. Inoltre il
linguaggio ha una funzione sociale, sia come mezzo di comunicazione, sia come modo di
identificazione dei gruppi sociali. La linguistica dunque ignora la società”
1
.
Come vediamo da questa citazione, nel definire la sociolinguistica gli elementi in gioco sono
sempre due, il linguaggio da un lato e la società dall’altro, due elementi inscindibili. Le definizioni
di sociolinguistica sono tuttavia molto difformi. Tra le definizioni più ampie per quantità di soggetti
di analisi e campi d’azione troviamo quella di Fishman, che parla di “sociologia del linguaggio”, la
quale “concentra la sua attenzione sull’intera gamma degli argomenti connessi all’organizzazione
sociale del comportamento linguistico”. Secondo Hudson la sociolinguistica è “lo studio della
lingua in rapporto con la società”, ben diversa dalla sociologia del linguaggio che definisce “lo
studio della società in rapporto con la lingua”. La differenza tra queste due scienze dipende dal
maggiore o minore interesse che il ricercatore attribuisce alla lingua o alla società. Ciò che
comprende la sociolinguistica è stato ed è oggetto di interpretazioni assai varie. Per Hymes la
sociolinguistica è “un campo pluridisciplinare che tiene conto, in una misura variamente dosata ma
essenziale per capire la complessità dei fenomeni, di linguistica, sociologia, antropologia sociale,
etnografia, folklore, poetica, psicologia”
2
. Anche per Trudgill (1978) “the difficulty with
sociolinguistics [...] is that it is a term which means many different things to many different
people”
3
. È nota la posizione assolutista di Labov (1972), secondo il quale solo lo “study of
language in its social context”
4
è vera linguistica, e lo studio della variabilità linguistica è l’aspetto
centrale della linguistica in generale. La sociolinguistica è quindi la vera linguistica, posizione
ampiamente condivisa e sostenuta da Hymes, per il quale, più precisamente, “una sociolinguistica a
fondamento antropologico-etnografico ingloba come sua sottoparte la linguistica”. Trudgill ha
un’opinione simile, anche se non è d’accordo sul carattere assolutistico della sociolinguistica , che è
invece “that part of linguistics which is concerned with languages as a social and cultural
phenomenon” (1974) e inoltre cerca di definire meglio gli obiettivi della sociolinguistica che
possono essere esclusivamente sociologici, sia sociologici che linguistici o completamente
linguistici.
A conclusione di questa rassegna di posizioni, Berruto (1995) presenta dei postulati indiscutibili per
capire cosa sia effettivamente la sociolinguistica (SL): a) la SL è un settore degli studi linguistici,
1
Hudson R., Sociolinguistica, Il Mulino, Bologna, 1980
2
Hymes D., Fondamenti di sociolinguistica. Un approccio etnografico, Zanichelli, Bologna, 1980
3
Trudgill P., Introduction: sociolinguistics and sociolinguistics, London, 1978
4
Labov W., Sociolinguistic Patterns, Philadelphia, 1972
5
appartiene alle scienze del linguaggio e non a quelle della società; b) i sociolinguisti si considerano
di solito, e sono prima di tutto, linguisti; c) l’oggetto di studio della SL comprende fenomeni
linguistici visti sotto l’angolatura della dimensione sociale (assunta per lo più come variabile
indipendente). La SL è quindi “un settore delle scienze del linguaggio che studia le dimensioni
sociali della lingua e del comportamento linguistico, vale a dire i fatti e i fenomeni linguistici che
hanno rilevanza o significato sociale”, una sorta di “linguistica dei parlanti”. Sempre Berruto elenca
tutti i fenomeni che possono rientrare nel concetto di SL. Parla di un “nucleo duro” che è “la SL in
senso stretto e che ha come ambiti di applicazione lo studio della natura e delle manifestazioni della
variabilità linguistica, del rapporto fra lingua e stratificazione sociale” e poi la SL in senso lato, cioè
la sociologia del linguaggio, vale a dire “lo studio della distribuzione, della collocazione, della vita
e dello status dei sistemi linguistici nelle società”; solo alla periferia si trovano discipline come la
dialettologia, che personalmente ritengo più rilevante di quanto non lo ritenga Berruto, in quanto si
tratta dello studio delle manifestazioni del comportamento linguistico delle comunità linguistiche in
base alla loro distribuzione geografica, lo studio quindi della vera e propria “linguistica dei
parlanti”.
6
Capitolo II
Concetti sociolinguistici fondamentali
1. Comunità Linguistica
Questo è uno dei concetti più importanti perché innovativi. Illustra molto bene il cambiamento di
prospettiva rispetto alla lingua teorica, poiché ciò su cui viene posta l’attenzione non è più la lingua
astratta, bensì la lingua in rapporto ai parlanti. Inoltre, mentre nella linguistica teorica si prende
come punto di riferimento una comunità di parlanti ideale, astratta, l’interesse della sociolinguistica
è focalizzato sulle comunità linguistiche reali, concrete.
Anche in questo caso, le definizioni fornite dai ricercatori non sono uniformi e si basano di volta in
volta su criteri diversi. Un primo criterio è basato semplicemente sulla lingua, per cui una comunità
linguistica è l’insieme di tutte le persone che usano una determinata lingua. Gli studiosi che basano
su questo criterio le loro definizioni sono per esempio Hockett per il quale la comunità linguistica è
“the whole set of people who comunicate with each other, either directly or indirectly, via the
common language”
5
. John Lyons definisce la comunità linguistica come “tutte le persone che usano
una data lingua (o un dialetto)”
6
. Secondo lui quindi le diverse comunità si possono accavallare
l’una sull’altra dove esistono parlanti bilingui, quindi non hanno necessariamente un’unità sociale o
culturale. Per Kloss la comunità è “il complesso delle persone che hanno in comune come lingua
materna un determinato sistema linguistico nelle sue diverse varietà dialettali, sociolettali, ecc.”
7
,
mettendo l’accento sulla necessità che i parlanti siano nativi, mentre il già citato Fishman
presuppone una condivisione non solo di una lingua con le sue varietà, ma anche delle consuetudini
che ne regolano l’impiego adeguato alle situazioni; a differenza di Kloss, i membri della comunità
linguistica non devono necessariamente essere parlanti nativi della lingua in questione: “una
comunità linguistica è quella comunità i cui membri hanno tutti in comune almeno una varietà di
lingua e le norme per il suo uso appropriato”
8
.
Altri ricercatori si basano invece su altri criteri, come quello della base socio-geografica che implica
sia una comunanza di lingua che una condivisione del luogo di stanziamento. Per Ferguson (1959)
la comunità linguistica è un gruppo di persone che appartengono a una determinata entità
geografico-politica e condividono la stessa lingua.
Più complessa la definizone di Gumperz (1973) per cui comunità linguistica è “ogni aggregato
umano caratterizzato da un’interazione regolare e frequente per mezzo di un insieme condiviso di
segni verbali e distinto da altri aggregati simili a causa di differenze significative nell’uso del
linguaggio”
9
.
5
Hockett, C.F. A Course in Modern Linguistics, New York, 1958
6
Lyons, J. Natural language and universal grammar, Cambridge, 1991
7
Berruto, G. Fondamenti di Sociolinguistica, 2005
8
Ibid.
9
Gumperz, J. La comunità linguistica, 1973
7
Un altro criterio, sviluppato soprattutto da Labov, secondo il quale “gli atteggiamenti sociali nei
confronti della lingua sono estremamente uniformi in una comunità linguistica”, è costituito
appunto agli atteggiamenti. Per comunità linguistica bisogna intendere “un gruppo di parlanti che
condivide un insieme di atteggiamenti sociali nei confronti di una lingua”. Labov accenna anche
alla presenza di norme condivise: “La comunità linguistica è definita non tanto da un accordo ben
definito nell’uso degli elementi della lingua, quanto piuttosto dal coinvolgimento in un insieme di
norme comuni; si possono cogliere tali norme in tipi evidenti di comportamenti valutativi e
nell’uniformità di schemi astratti di variazione, invarianti rispetto a livelli particolari di uso”
10
.
Questo è un ulteriore criterio, su cui pone l’accento anche Hymes, secondo il quale una comunità
linguistica è “una comunità che condivide la conoscenza di regole per produrre e interpretare il
parlare”, cioè che condivide sia norme linguistiche che risorse verbali. Hymes afferma inoltre che
“la cosa più utile da fare è riservare la nozione di comunità per un’unità locale, caratterizzata per i
suoi membri da una comune collocazione spaziale e da interazione primaria”.
Ognuna di queste definizioni è giusta, poiché tutte definiscono un insieme di persone che hanno
linguisticamente qualcosa in comune: una lingua o un dialetto, l’interazione per mezzo della parola,
una certa gamma di varietà e di regole per l’uso di queste varietà, una certa gamma di atteggiamenti
nei confronti delle varietà e degli items.
Sviluppando i criteri degli atteggiamenti e delle regole condivise possono venire in primo piano i
sentimenti di appartenenza e l’autoidentificazione, con la conseguenza che il concetto stesso di
comunità linguistica perde il suo carattere unitario, dato che ciascun parlante può sentirsi
contemporaneamente partecipe, se non membro, di più comunità che si intersecano tra loro. In
questa prospettiva, quindi, i confini tra le comunità tendono a sfaldarsi. Entrando nel campo
sociologico, possiamo quindi distinguere fra “Gesellschaft (società), basata su rapporti sociali
convenzionali, fissati contrattualmente secondo divisioni ben definite, e Gemeinschaft (comunità),
basata su rapporti sociali fondati sulla solidarietà, con divisioni non ben definite e informali. È
soprattutto su quest’ultima che si basa il concetto di comunità linguistica” (Berruto, op. cit.).
Più si va avanti nell’analisi, più diventa difficile definire la comunità linguistica, perché entrano in
gioco, come abbiamo visto, diversi fattori che concorrono alla sua definizione, e soprattutto perché
la definizione cambia a seconda che ci basiamo su criteri oggettivi (spazio geo-politico, lingua) o su
criteri poco osservabili (atteggiamenti, condivisione di norme e valori..).
Per far fronte a questa difficoltà, Berruto propone una definizione riassuntiva di comunità
linguistica: “Un insieme di persone, di estensione indeterminata, che condividano l’accesso a un
insieme di varietà di lingua e che siano unite da una qualche forma di aggregazione socio-politica.
L’insieme di varietà di lingua e l’estensione dell’aggregazione possono essere stabiliti di volta in
volta. Una nozione del genere si può applicare sia a comunità ridotte, sia a comunità ampie o molto
ampie”.
2. Repertorio linguistico
L’insieme delle varietà di una lingua (varietà di una stesa lingua e/o varietà di lingue diverse)
presenti in una comunità parlante costituisce il repertorio linguistico. In prima ipotesi, si può
10
Berruto, op. cit.