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PARTE 1
LA STRUTTURA FINANZIARIA
1.1 Premessa
La realizzazione dell'attività produttiva richiede che l'impresa sia dotata di un
certo ammontare di capitale; l'insieme delle forme e delle condizioni in base alle quali
questo risulta vincolato all'impresa definisce la struttura del capitale, e cioè
l'articolazione delle fonti di finanziamento dell'impresa. Nella pratica operativa, infatti,
le forme di raccolta del capitale sono molteplici e variano in base alla lunghezza del
periodo in cui questo risulta vincolato, alle modalità di retribuzione, ai diritti conferiti ai
portatori del capitale in sede di liquidazione dell'impresa o in occasione di altri eventi
per questa rilevanti.
La questione di fondo in merito alla struttura del capitale può essere ricondotta
innanzitutto alla scelta di carattere generale tra capitale proprio e capitale di credito, cui
corrisponde una suddivisione dei finanziatori dell'impresa rispettivamente in azionisti e
obbligazionisti. Tali categorie di finanziatori differiscono essenzialmente per le
modalità di partecipazione ai flussi di cassa disponibili dell'impresa.
Ciò che preme sottolineare è che, così come i flussi di cassa prodotti dall’impresa
vengono suddivisi tra azionisti e obbligazionisti, anche il valore delle attività
dell’impresa può essere scomposto tra valore del capitale proprio e valore del capitale
di credito. L’interrogativo di fondo relativo alla struttura del capitale diventa dunque
quello di stabilire se attraverso diverse proporzioni di capitale proprio e capitale di
credito sia possibile incrementare il valore complessivo dell’impresa.
Ricorrendo ad una metafora largamente diffusa a tale proposito, il valore
dell’impresa può essere assimilato alle dimensioni di una torta, dalla cui suddivisione
risulta il valore spettante a ciascuna categoria di finanziatori: occorre dunque stabilire
se una diversa ripartizione possa condurre a un incremento delle dimensioni della torta
del quale possa beneficiare almeno una delle suddette categorie di finanziatori.
L’approccio classico a tale problematica è quello proposto da Modiglioni e Miller
(1958) in condizione di mercati perfetti. Successivi sviluppi, basati prevalentemente sul
rilascio di alcune delle ipotesi che presiedevano a quell’approccio, hanno condotto ad
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ulteriori modelli interpretativi che nelle imposte, nei casi del fallimento e nei costi di
agenzia individuano ulteriori fattori di spiegazione della struttura del capitale
dell’impresa.
È necessario inoltre sottolineare che il problema della struttura del capitale non si
esaurisce nell’effetto esercitato sul valore complessivo dell’impresa, ma si estende
anche a quello dei possibili trasferimenti di valore all’interno delle categorie di
finanziatori. Così, la conseguenza di un incremento del capitale può essere quella di un
trasferimento di ricchezza tra i vecchi e i nuovi azionisti che origina dal prezzo di
emissione delle azioni. Come pure la possibilità di trasferimento di ricchezza tra
azionisti e obbligazionisti può essere ricondotta all’emissione di titoli obbligazionari
sopra o sottovalutati rispetto al loro effettivo valore ovvero alle successive variazioni di
rischio delle attività dell’impresa, tali da ridurre il valore corrente delle precedenti
emissioni obbligazionarie.
Le decisioni finanziarie sono dunque generalmente tese alla ricerca di una
combinazione ottimale tra investimenti e finanziamenti in grado di aumentare il valore
dell’impresa sul mercato. In particolare, mentre sul fronte degli investimenti si cercherà
di individuare le scelte strategiche più idonee per conseguire quote di mercato e
vantaggi competitivi durevoli, sul fronte dei finanziamenti l’obiettivo principale sarà
quello di creare un mix di mezzi propri e mezzi di terzi in grado di coprire gli
investimenti effettuati e di assicurare uno sviluppo sostenibile, riuscendo al contempo a
minimizzare il costo del capitale.
Questi effetti delle politiche di finanziamento, al pari di quelli eventualmente
esercitati sul valore complessivo dell’impresa, possono dunque influenzare le decisioni
in merito alla ripartizione delle fonti in capitale proprio e capitale di credito.
Quindi, se da un lato il problema principale del management è quello di
individuare gli investimenti più redditizi e più capaci di creare valore, dall’altro è
importante, ai fini della sopravvivenza dell’impresa stessa, che sia realizzata una
struttura finanziaria che, da un lato non gravi troppo sui risultati aziendali con il peso
degli oneri finanziari, e, dall’altro, che non veda le possibilità di crescita limitate al
ricorso al solo finanziamento con risorse interne o mezzi propri.
Ne consegue che uno dei problemi affrontati negli studi di finanza aziendale è
quello dell’individuazione della struttura finanziaria ottimale di ciascuna realtà
d’impresa, struttura che risulta strettamente correlata a numerosi fattori, sia endogeni
che esogeni, come per esempio il contesto istituzionale all’interno del quale ciascuna
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impresa opera. Con il termine contesto istituzionale ci riferiamo principalmente al
panorama normativo esistente, ed in particolare a quelle leggi, soprattutto di carattere
tributario, che possono in qualche modo influire sulle decisioni di copertura degli
investimenti, modificando le scelte di struttura finanziaria.
Prima di approfondire nello specifico l'analisi dell'attuale disciplina fiscale
esamineremo brevemente il rapporto d’indebitamento e l'influenza che una particolare
struttura finanziaria ha nelle operazioni di valutazione dell'impresa, nonché nelle scelte
d’investimento e nelle conseguenti performance aziendali.
Come detto, la capacità di un’impresa di creare valore economico dipende non
solo dall'allocazione efficiente degli investimenti e dall'identificazione dei segmenti di
mercato strategicamente più rilevanti, ma anche da un attento governo della propria
struttura finanziaria.
Ci si chiede quindi:
- se esiste una particolare combinazione di fonti di finanziamento – e
segnatamente un particolare rapporto fra capitale di rischio e capitale di debito - che, a
parità di ogni altra condizione, risulta preferibile;
- quali sono, in caso affermativo, i fattori che contribuiscono a determinare
questa particolare combinazione di fonti e che, pertanto, vanno attentamente considerati
al momento di scegliere la struttura finanziaria.
Le risposte a questi interrogativi sono state molteplici, spesso contraddittorie.
Tuttavia, nel corso degli anni vi è stato un continuo affinamento dell’elaborazione
teorica e, quindi un costante progresso della conoscenza sull’argomento.
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1.2 Gli strumenti finanziari
All’impresa che deve trovare i fondi per finanziare nuovi progetti si presentano
due alternative: l’emissione di debito o di capitale netto. Spesso la distinzione fra
debito e capitale netto viene fatta in termini di obbligazioni ed azioni; tuttavia, la sua
ragione più profonda sta nella natura dei diritti sui flussi di cassa connessi ai due tipi
di finanziamento. In particolare, un titolo di debito conferisce al suo possessore il
diritto di ricevere per contratto una serie di flussi di cassa (di solito interessi e quota
capitale), mentre un titolo azionario conferisce al suo possessore il diritto di ricevere i
flussi di cassa residui dopo il pagamento degli altri obblighi finanziari. Nonostante
questa rimanga la differenza principale, nel corso del tempo se ne sono aggiunte altre,
frutto di alcuni sviluppi legislativi e del codice tributario.
La seconda differenza, conseguenza logica della natura dei diritti sui flussi di
cassa, è che il debito ha diritto di priorità sia sui flussi di cassa periodici che sui beni
dell’impresa in caso di liquidazione. La terza differenza è che la normativa fiscale ha
in genere trattato le spese per interessi che maturano a favore dei possessori dei
titolari di debito in modo diverso da dividendi o altri flussi di cassa che maturano a
favore dei detentori di capitale azionario. Un’ altra differenza è che il debito, di
solito, ha una data di scadenza prefissata, alla quale deve essere effettuato il
pagamento della quota principale, mentre il capitale azionario ha scadenza illimitata.
Infine, gli investitori azionari, in virtù del loro diritto sui flussi di cassa residui
dell’impresa, hanno di solito potere di controllo (più o meno esteso) sulla gestione
dell’impresa. Invece gli investitori a titolo di debito esercitano un ruolo molto meno
attivo nella gestione dell’azienda.
Per riassumere, si definisce debito qualsiasi strumento finanziario che
conferisca diritti contrattualmente prefissati (piuttosto che in funzione della
performance operativa) sui flussi di cassa aziendali, che generi pagamenti
fiscalmente deducibili, che abbia una scadenza determinata e che abbia precedenza
sui flussi di cassa sia nei periodi in cui l’impresa è operativa sia in caso di
liquidazione o riorganizzazione dell’azienda.
Si definisce invece capitale netto qualsiasi strumento finanziario che conferisca
al suo possessore il diritto di ricevere i flussi di cassa residui dell’impresa e il
controllo sulla gestione della stessa, senza vantaggi fiscali associati al pagamento di
tali flussi di cassa, con una scadenza indeterminata e senza diritto di priorità in caso
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di liquidazione o riorganizzazione dell’azienda. I titoli che presentano caratteristiche
sia dell’uno che dell’altro tipo vengono chiamati titoli ibridi.
1.2.1 Il capitale netto
Di solito, quando si parla di capitale netto, si pensa immediatamente alle azioni
ordinarie. In realtà, esso può assumere forme diverse, a seconda se l’impresa sia
quotata o no, e a seconda delle sue caratteristiche di crescita e rischio.
Le imprese non quotate hanno minor scelta rispetto a quelle quotate, in quanto
esse non possono emettere titoli per ottenere capitale a titolo di proprietà. Di
conseguenza, esse devono fare affidamento sui fondi investiti nell’azienda dal
proprietario/fondatore o da un’entità privata, di solito un fornitore di venture capital,
per trovare il capitale di rischio necessario all’esercizio e all’espansione dell’impresa.
Capitale proprio
La maggior parte delle imprese nascono grazie ad alcuni individui che
forniscono il capitale iniziale e reinvestono nell’attività d’impresa gli utili da essa
generati. Tali fondi, forniti dal titolare dell’impresa, vanno sotto il nome di capitale
proprio e forniscono le basi per la crescita e l’eventuale successo dell’impresa.
Venture capital
A un certo punto della sua vita, in genere un’impresa si trova ad affrontare il
momento in cui i fondi a disposizione non sono sufficienti per le necessità di
investimento dettate dalla crescita. Piccole imprese, soprattutto quelle attive in settori
ad elevata rischiosità, ricorrono così ad un venture capitalist, che fornirà
finanziamento a titolo di capitale netto in cambio di una quota della proprietà
dell’impresa.
In linea generale, la capacità di ottenere fondi da fonti alternative e/o di
quotarsi è maggiore per le imprese di maggiori dimensioni e con minore incertezza in
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termini di prospettive future. Perciò, imprese piccole e rischiose avranno maggiore
necessità di fare ricorso al venture capital e per ottenerlo dovranno dare in cambio
una quota significativa della proprietà dell’impresa.
Azioni ordinarie
Un’impresa quotata in genere si procura capitale netto emettendo azioni
ordinarie al prezzo che il mercato è disposto a pagare. Per un’impresa in procinto di
quotarsi il prezzo viene stimato dall’entità emittente; per le imprese già quotate, esso
si basa sul prezzo attuale di mercato. In alcuni casi, l’azione ordinaria emessa dalla
società è uniforme, vale a dire che ciascun partecipante riceve una quota
proporzionale sia dei flussi di cassa (come i dividendi) che dei diritti di voto. Altre
volte, vi saranno più classi di azioni ordinarie caratterizzate da diversi diritti in
termini di flussi di cassa e potere di voto in assemblea.
Nonostante imprese già quotate non vi ricorrano molto spesso, le azioni
ordinarie costituiscono il modo più comune per procurarsi capitale netto esterno. La
azioni ordinarie rappresentano un titolo semplice, relativamente facile da capire e
valutare. Inoltre, possono essere considerate un presupposto per tutti gli altri
strumenti finanziari cui un’impresa quotata può ricorrere, nel senso che un’impresa
senza capitale netto non potrebbe emettere debito o titoli ibridi. Il trattamento
contabile delle azioni ordinarie segue pratiche ormai consolidate e può essere inserito
senza difficoltà all’interno del formato tradizionale del bilancio d’impresa.
Warrant
Negli ultimi anni, le imprese hanno cominciato a cercare forme di capitale
netto alternative alle azioni ordinarie. Un’alternativa utilizzata con successo alla fine
degli anni ’80 è stata quella dei warrant, titoli che, in cambio del pagamento
immediato di un certo prezzo, conferiscono al possessore per un dato periodo di
tempo, il diritto di acquistare, ad un prezzo prefissato, un certo numero di azioni
della società. Poiché il valore dei warrant dipende dal prezzo delle azioni ordinarie
sottostanti, essi devono essere considerati una forma di capitale netto.