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INTRODUZIONE
Nella seconda metà degli anni settanta l’apertura internazionale dei
mercati finanziari ha generato una nuova concezione di attività bancaria
che ha posto al centro la grande importanza della variabile rischio.
Tale apertura ha favorito il passaggio da una situazione di “mercato
protetto”, nel quale l’obiettivo delle imprese bancarie era la sola crescita
dimensionale, ad una situazione di “mercato competitivo” nel quale
l’obiettivo è diventato massimizzare la remunerazione del capitale di
rischio per soddisfare le aspettative di un azionariato sempre più esigente
e selettivo.
L’aumento della concorrenza tra le banche dei principali paesi
sviluppati
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ha, pertanto, generato un’evoluzione del sistema economico-
finanziario, sintetizzabile nelle seguenti tendenze:
la prima è rappresentata, sia da un incremento della volatilità
2
delle
variabili finanziarie, quali tassi di interesse, tassi di cambio o prezzi
azionari, sia dall’assenza di un concreto coordinamento fra le
politiche economiche dei paesi in grado di ridurre la trasmissione
degli shock economici generati in altri paesi;
la seconda palesa la capacità degli azionisti nello spostare, con
estrema facilità, i propri capitali verso impieghi più remunerativi,
direzione questa che ha creato un progressivo spostamento
dell’attività degli intermediari bancari, dalla tradizionale attività di
intermediazione creditizia, come raccolta di depositi e concessione
1
Si fa riferimento agli undici Paesi più industrializzati: Belgio, Canada, Francia, Germania, Giappone,
Italia, Paesi Bassi, Regno Unito, Stati Uniti, Svezia e Svizzera.
2
L’aumento della volatilità è sfociato spesso in episodi di crisi, in cui il management delle istituzioni
finanziarie si è rivelato incapace di adottare adeguati sistemi di controllo e misurazione dei rischi
assunti.
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prestiti, verso nuove forme di intermediazione finanziaria
caratterizzate da diversi profili di rischio;
la terza, evolutiva, è rappresentata dal crescente orientamento degli
Organi di Vigilanza verso politiche di tipo prudenziale, incentrate
sull’adeguatezza patrimoniale in base al rischio assunto dalle
istituzioni finanziarie: per la tutela della stabilità del sistema
finanziario, infatti, risulta di basilare rilievo la gestione del rischio.
Pertanto, la tendenza evolutiva sopra delineata ha inevitabilmente
determinato un aumento dei rischi complessivi a carico
dell’intermediario creditizio.
Oltre ai classici rischi dell’attività di intermediazione bancaria, come il
rischio di credito ed il rischio di mercato, però, le banche devono, oggi,
fronteggiare una nuova categoria di rischi di più difficile identificazione,
i cosiddetti rischi operativi.
Le fondamentali funzioni di assunzione, trasformazione e gestione dei
rischi sono diventate, conseguentemente, più complesse da gestire,
causando un progressivo aumento dei modelli di valutazione dei rischi,
al fine, non solo di misurare il rischio in maniera più precisa, ma anche
di allocare il capitale tenendo conto delle diverse combinazioni di
rischio-rendimento.
Oggi l’obiettivo centrale della direzione bancaria, dunque, è proprio
l’adozione di un’efficace strategia di risk management, perseguibile
implementando un appropriato sistema di misurazione e gestione del
rischio in grado di misurare, controllare e prezzare (risk pricing
3
) le
diverse forme di rischio assunte.
3
Un pricing inadeguato del rischio potrebbe portare ad una crisi e all’eventuale insolvenza di un
Istituto bancario.
3
Ulteriore elemento determinante per una corretta strategia aziendale è
rappresentato da un’efficiente allocazione del capitale tra le diverse unità
che, assumendo rischio, assorbono necessariamente parte di questo.
In un contesto, quale quello sopra descritto, caratterizzato dalla crescente
perdita di rilevanza della tradizionale attività di intermediazione
creditizia, il patrimonio di una banca ha assunto un ruolo fondamentale,
non solo in un’ottica di vigilanza, in quanto cuscinetto di protezione dei
creditori, ma anche, e soprattutto, in un’ottica gestionale, in quanto
risorsa caratterizzata da un elevato costo e la cui allocazione deve essere
ottimizzata per massimizzare la propria remunerazione.
È con il primo accordo di Basilea, nel 1988, che furono introdotte per la
prima volta delle linee guida in materia di requisiti patrimoniali minimi
per le imprese bancarie. La base dell’accordo consisteva nel fatto che
ciascuna operazione di prestito doveva corrispondere ad una quota di
capitale da detenere obbligatoriamente a scopo precauzionale. In tale
documento, inoltre, il Comitato di Basilea
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fissava il capitale minimo
obbligatorio da accantonare all’8% delle attività ponderate per il rischio
di credito, capitale che non poteva essere investito in attività creditizia o
in operazioni finanziarie di altro tipo, al fine di garantire la solidità del
sistema creditizio.
Suddetto accordo, dunque, era volto, non solo a rendere più solido e
solvibile il sistema bancario internazionale, ma anche a diminuire
drasticamente il verificarsi di crisi bancarie: nel momento dell’Accordo,
infatti, il grado di patrimonializzazione delle maggiori banche dei paesi
industrializzati
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aveva raggiunto minimi storici e la gestione imprudente
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È l’organismo rappresentativo delle banche centrali degli undici Paesi più industrializzati del mondo,
istituito dai governatori delle banche stesse.
5
Si tratta dei paesi che fanno parte del G-10: Belgio, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia,
Paesi Bassi, Regno Unito, Stati Uniti d’America, Svezia e Svizzera.
4
del credito, da parte di numerosi istituti bancari, evidenziò i limiti del
quadro normativo presente.
I diversi limiti dell’Accordo di Basilea I, in particolar modo il fatto che
l’accantonamento fosse indifferente al rischio di controparte, risultando
troppo per una controparte a basso rischio e troppo poco per una
controparte ad alto rischio, e penalizzando, di conseguenza, le banche
con un merito di credito più elevato, portò il Comitato di Basilea alla
revisione del vecchio accordo, definendo il nuovo Basilea II che entrò in
vigore nel gennaio del 2007.
Nel nuovo accordo, cioè, il Comitato di Basilea, attraverso una serie di
decisioni, atte a promuovere solidità e sicurezza del sistema finanziario,
ha individuato una serie di obiettivi incentrati sui seguenti tre pilastri:
requisiti patrimoniali di capitale, vigilanza sui requisiti di capitale e
disciplina di mercato.
Il primo pilastro definisce le regole di una misurazione più completa ed
accurata dei rischi, in relazione alla quale dovrà essere predisposta un
adeguato accantonamento di capitale. Analogamente a Basilea I, il
rapporto tra il capitale utile ai fini della Vigilanza ed attivo ponderato
non può essere inferiore all’8%, lasciando, così, invariati il numeratore e
la misura minima del rapporto. La novità maggiore, pertanto, è
rappresentata dalla presenza, nel denominatore, di una terza tipologia di
rischio che si va a sommare al rischio di credito e di mercato,
precisamente il rischio operativo. Il nuovo accordo, inoltre, prevede che
le banche possano scegliere fra tre modelli per il calcolo del rischio di
credito: il modello standard, dove la capacità del debitore deve essere
valutata attraverso agenzie di rating esterne
6
, ed i modelli Internal Rating
Approch (IRB), Base ed Avanzato, che sfruttano sistemi interni di
6
L. Mancinelli, L’assegnazione di rating da parte delle agenzie: significato, implicazioni e principali
aspetti critici, Bancaria n. 3 (2005).
5
rating
7
. L’obiettivo del Comitato, dunque, è favorire l’adozione di forme
interne di rating, in grado di assicurare una maggiore precisione nella
valutazione degli affidati e consentire l’utilizzo di una quantità maggiore
di informazioni: le agenzie di rating esterne, infatti, possono basarsi
esclusivamente sulle informazioni di conoscenza pubbliche per la
valutazione del rischio, a differenza degli istituti bancari che possono
usufruire di una serie di informazioni interne in grado di delineare
meglio la figura dell’affidato e consentire una stima più precisa del
rischio assunto.
Il secondo pilastro prevede che le autorità di vigilanza valutino il rispetto
del livello minimo di capitale previsto per ogni banca e la sua
adeguatezza al grado di rischio assunto.
Il terzo pilastro, infine, impone alle banche l’obbligo di fornire una serie
di notizie e caratteristiche, riguardanti il proprio capitale, distinte,
successivamente, in informazioni fondamentali e supplementari.
L’insieme delle considerazioni sopra riportate rappresenta, dunque, la
base di partenza per la costituzione del presente elaborato che, pur non
fornendo una trattazione esaustiva delle metodologie e delle tecniche a
disposizione del management bancario per la misurazione delle diverse
tipologie di rischio, intende illustrare gli strumenti matematico-statistici
più importanti ed innovativi.
Nel primo capitolo ci si sofferma sulle principali configurazioni e
classificazioni dei rischi che caratterizzano l’attività tipica di
intermediazione bancaria.
Il secondo capitolo è dedicato alla descrizione dei nuovi modelli
matematico-statistici di misurazione dei rischi bancari.
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Il rating è l’insieme di procedure di analisi e di calcolo grazie alle quali una banca valuta quanto un
cliente sia rischioso qualora gli si conceda il credito dallo stesso richiesto: tramite il rating, infatti, si
calcola la “probabilità di default”, associata ad ogni classe di rischio, misurata negli anni passati.
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Il terzo, ed ultimo capitolo, invece, conclude con un’analisi più generica
dell’evoluzione del concetto di rating e delle metodologie utilizzate dalle
agenzie esterne per la sua stima.
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CAPITOLO 1
RISCHI DELL’ATTIVITÀ CREDITIZIA
1.1. Incertezza e rischio
Qualunque attività di tipo economico è dominata dall’eventualità che i
risultati finali siano diversi da quelli attesi; la probabilità che tale
fenomeno possa verificarsi prende il nome di rischio, concetto
strettamente legato a quello di “incertezza”, intesa come quella
situazione di conoscenza in cui risulta impossibile descrivere
esattamente la situazione esistente in quanto influenzata da molteplici
fattori aleatori.
La previsione del rischio consiste nell’anticipazione dei possibili fattori
aleatori in grado di condizionare, anche in minima parte, l’accadimento
dell’evento preso in considerazione. La definizione delle variabili, però,
non risulta sufficiente alla previsione del rischio; i fattori presi in
considerazione, infatti, potrebbero risultare più o meno influenti, non
avere alcun peso o influire in maniera diversa da quanto previsto. Appare
evidente come si possa parlare di una situazione in cui regna
l’incertezza.
L’incertezza degli eventi rappresenta una condizione che non può essere
eliminata poiché non è possibile prevedere ciò che potrebbe verificarsi:
si parla di incertezza nel caso in cui gli eventi possibili risultino più
numerosi di un insieme finito conosciuto.
Si fa riferimento al rischio, invece, quando l’evento che accadrà è
estratto da un insieme finito di eventi possibili. Il concetto di rischio,
quindi, regredisce verso quello di incertezza quando non si è in grado di
identificare i fattori che governano i fenomeni osservati, elemento di
8
importanza fondamentale per l’assunzione di giuste decisioni da parte di
operatori economici
8
.
In condizioni di incertezza, pertanto, il valore dei modelli di misurazione
del rischio si riduce e le tecniche di misurazione e gestione del rischio
diventano più soggettive.
Nel 1921 Knight definì il rischio come “l’incertezza misurabile” e
l’incertezza come “l’incertezza non misurabile”
9
.
L’esistenza di incertezze costituisce, pertanto, la base del rischio
10
ma
nonostante la stretta correlazione tra i due concetti, questi non
rappresentano assolutamente la stessa cosa.
In condizioni di incertezza, pertanto, il possibile accadimento di un
evento può essere distribuito secondo una scala di probabilità, grazie alla
quale si può dedurre la possibilità che l’evento manifesti valori diversi
da quelli attesi sì da poter operare scelte di carattere quantitativo; lo
scostamento tra il valore atteso e quello reale rappresenta, dunque, il
rischio.
Davanti ad un medesimo fenomeno risulterà diversa la valutazione del
rischio da parte di differenti soggetti, essendo differente la tipologia o
l’interpretazione della mole di informazioni reperite dai soggetti stessi.
Anche considerando un identico livello di informazioni ed
interpretazione, l’elemento che differenzierà la scelta dei soggetti sarà la
propensione o l’avversione al rischio, di natura strettamente personale
11
.
Di fronte al rischio da assumere, dunque, il soggetto potrà presentare tre
atteggiamenti diversi, tra loro contrapposti: l’avversione, la propensione
e la neutralità al rischio.
8
M. Massari, Rischi e regolamentazione degli intermediari finanziari, Cacucci Editore (2006).
9
F. Knight, Risk, Uncertainty and Profit, Boston, Houghton Mifflin Co (1921).
10
B. De Finetti, F. Emanuelli, Economia delle assicurazioni, UTET, Torino (1967).
11
Ciò può dipendere da fattori esterni quali l’entità di capitale a disposizione o l’andamento
congiunturale.