L’applicazione dei nuovi principi ha impresso profondi cambiamenti anche
agli scenari nei quali si muovono le risorse umane impiegate dalla pubblica
amministrazione, investendo decisamente la disciplina del rapporto di lavoro alle
dipendenze della pubblica amministrazione. Sicuramente ci sono state resistenze interne,
legate alla “sfasatura temporale” esistente fra l’introduzione delle riforme a livello
normativo e la maturazione di una corrispondente cultura a livello organizzativo, ma
anche altre circostanze, difficoltà oggettive, ostacoli di natura giuridica, influenze
provenienti dal contesto esterno hanno certamente svolto un ruolo determinate nella
riuscita solo parziale di alcune riforme.
In generale si può dire che siano stati introdotti, fondamentalmente, principi
tratti dallo schema di pubblico impiego contrattuale proposti dalla dottrina del New
Public Management
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ma, nei fatti, essi si sono spesso trovati a coesistere con riferimenti
legislativi non completamente coerenti con esso, risalenti al precedente assetto
burocratico legale-razionale, o si sono dovuti adattare a contesti profondamente diversi
da quelli presi in considerazione dal modello.
È stato opportunamente osservato che, proprio a causa del regime vincolistico
riguardante la pubblica amministrazione, gli apparati amministrativi italiani, assieme a
quelli di Belgio, Francia e Irlanda, hanno dimostrato una media transizione al New
Public Manangement rispetto alla più veloce acquisizione della nuova identità da parte
dei funzionari pubblici di Regno Unito, Finlandia e Olanda, dove è invece assente il
diritto amministrativo. Infatti, a differenza dei paesi dell’Europa continentale, nei quali
storicamente al concetto di amministrazione corrisponde anche quello di apparato, nei
paesi di common law l’intervento pubblico nasce dalla necessità di realizzare esigenze che
altrimenti non verrebbero soddisfatte (sussidiarietà). Ne consegue, in primo luogo, che
nei paesi a diritto amministrativo alla quota di potere assegnato alla pubblica
amministrazione corrisponde una compressione della libertà dei cittadini e,
secondariamente, che nei paesi di common law il settore pubblico è maggiormente
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Il New Public Management è una dottrina fondata sui principi delle transazioni di mercato.
La specializzazione delle componenti politica e gestionale richiede relazioni di tipo contrattuale che implicano a loro
volta la verifica del rispetto degli accordi presi dalle parti, e ciò si realizza attraverso la valutazione dei risultati,
utilizzando metodologie empiriche.
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orientato a considerare il proprio intervento in termini di risultati ottenuti e di
soddisfazione degli utenti (CAMMELLI 2004).
Se uno dei principali ambiti di intervento nei quali si è incamminato il processo
di rinnovamento è stato quello relativo al rapporto di impiego alle dipendenze della
Pubblica Amministrazione, per il quale è stata adottata una disciplina privatistica regolata
in larga misura da strumenti contrattuali, un altro caposaldo della riforma amministrativa
italiana è stato sicuramente la ridefinizione, perseguita con ostinazione dal legislatore, del
“principio di separazione” consistente nella distinzione, teorica e pratica, fra funzione
politica di “alta amministrazione” e gestione amministrativa, al quale si sono
accompagnate l’introduzione della nozione di autonomia dirigenziale, di responsabilità di
risultato, di valutazione della gestione e dei dirigenti che, essendo chiamati a dare
attuazione alle scelte politiche, di questa rispondono direttamente.
La riforma dell’assetto del rapporto di lavoro non è ancora completa:
l’introduzione di sistemi di stampo privatistico, con elementi di valutazione meritocratici
e discrezionali si scontra frequentemente con alcune rigidità tipiche del rapporto di
pubblico impiego le quali, anche se attenuate, sono ancora lontane dallo scomparire: ne
sono esempio eloquente, come vedremo più avanti, le vicende relative all’istituto
contrattuale della progressione verticale nel sistema di classificazione del personale e la
persistente oscillazione della regolamentazione della dirigenza fra gli opposti principi
dell’autonomia e della precarizzazione degli incarichi.
Il passaggio dalla valutazione delle risorse umane all’incentivo economico che
ad essa viene direttamente correlato è probabilmente un elemento chiave del problema
relativo al rinnovamento della pubblica amministrazione, che deve essere adeguatamente
analizzato. Infatti, se è vero, come è stato da più parti affermato, che il grado di
condivisione delle istanze di cambiamento da parte delle persone che operano all’interno
di una pubblica amministrazione, o se si vuole di un’organizzazione, svolge un ruolo
decisivo sulla riuscita effettiva di quanto viene stabilito e programmato dai vertici
decisionali, nella scelta e nell’attuazione dei meccanismi di valutazione e incentivazione
del personale si gioca una partita più importante di quanto si possa pensare a prima vista.
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Le relazioni annuali sul lavoro compiuto dall’Ispettorato Generale di Finanza e
sull’attività del sistema delle Ragionerie negli esercizi 2003 e 2004 hanno evidenziato una
“fenomenologia (…) generale che si estrinseca nella riluttanza degli enti locali a far uso
di strumenti valutativi efficaci ed efficienti”, trascurando le disposizioni contrattuali che
richiedono una “corresponsione degli incentivi erogata in modo selettivo e secondo i
risultati accertati dal sistema permanente di valutazione”. Gli enti stessi sono poco
disposti ad adeguarsi a logiche di tipo meritocratico e “alla selettività si preferisce una
ripartizione «a pioggia» invece che, come prevede la normativa, sulla base di progetti,
programmi o piani di lavoro”.
La valutazione delle risorse umane, negli enti locali come nel resto della
pubblica amministrazione, è materia che oggi viene esaminata con rinnovata attenzione
per vari motivi: perché viene considerata un importante indicatore del grado di
transizione delle amministrazioni da schemi operativi tradizionali a modelli basati sul
risultato, perché nonostante questo, o forse proprio per questo, continua a presentare
aspetti problematici e, ancora, perché stenta a decollare in maniera generalizzata. Il
sistema di valutazione del personale viene spesso considerato come indice di maturità in
senso gestionale della cultura organizzativa, e la presenza di metodologie poco selettive,
ritenute per questo inadeguate, viene conseguentemente messa in relazione con una
burocrazia forte, accusata di sostenere propri ed autonomi parametri di valutazione,
basati su sistemi di valori distinti e talvolta addirittura confliggenti rispetto a quelli
dell’amministrazione di appartenenza.
Si tratta di spiegazioni piuttosto condivise, però, a distanza di un tempo
considerevole dall’inizio delle prime riforme amministrative, la persistenza di grandi
problemi applicativi nella valutazione delle risorse umane delle amministrazioni
pubbliche spinge a tentare un approfondimento, anche per accertarsi che il tema delle
“resistenze interne”, aspetto che inizialmente ha effettivamente svolto un ruolo
importante, non finisca per rappresentare, diventando una sorta di “luogo comune”,
oltre che una possibile spiegazione, anche un limite delle potenzialità dell’indagine.
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Anche il rapporto dell’OCSE sulle “Performance-Related Pay Policies for
Government Employees” (OECD 2005), riguardante vari Paesi industrializzati, rileva
che spesso si verifica un notevole dislivello fra la formale esistenza di un sistema di
retribuzione basato sulle prestazioni ed il suo reale funzionamento. Esistono numerosi
limiti, fra cui, principalmente, la difficoltà di porre in essere processi di monitoraggio e
misurazione delle prestazioni e dei comportamenti organizzativi, trovando indicatori
appropriati, in grado di ridurre la discrezionalità manageriale e porre adeguatamente in
relazione apporti individuali e apporti di gruppo. Inoltre i sistemi di retribuzione collegati
alle prestazioni sono molto costosi da implementare, sia in termini di tempo che di
denaro, anche perché richiedono di essere ben progettati e realizzati, e necessitano di un
adeguato addestramento dei valutatori; tuttavia essi offrono il vantaggio di introdurre
gradualmente un approccio lavorativo orientato al risultato e stimolano lo sviluppo di
modelli relazionali individualizzati fra gli impiegati ed i loro dirigenti.
Conclude l’OCSE che un ambiente caratterizzato da una cultura del servizio
pubblico matura e ben fondata, che mantiene e sostiene relazioni di lavoro di tipo
cooperativo e tende a favorire lo sviluppo di interazioni meno rigide e più informali fra
manager e membri degli staff, rende certamente l’organizzazione più disponibile al
cambiamento, all’introduzione di metodologie di lavoro più flessibili, al rafforzamento
della convergenza sulle tecnologie di informazione e comunicazione e a focalizzare delle
risorse sulle politiche di formazione.
Per questo motivo i sistemi di retribuzione collegati alle prestazioni e l’attività
di valutazione delle risorse umane, che ne costituisce il corollario, oggi sono visti più che
come strumenti motivazionali per i dipendenti, come veri e propri strumenti manageriali,
in grado di veicolare i cambiamenti nella gestione e, più in generale, nell’organizzazione.
Se si considera prevalente l’elemento motivazionale, nella realizzazione pratica
del cambiamento della pubblica amministrazione la leva economica è sicuramente lo
strumento più efficace. In tale prospettiva quindi il superamento delle resistenze
individuali si dovrebbe conseguire, da un lato, attraverso la disponibilità di risorse, e
dall’altro, mediante la selettività del sistema di valutazione.
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La privatizzazione del rapporto di impiego dei dipendenti della pubblica
amministrazione, con il superamento di alcune rigidità dovute alla sua collocazione
nell’ambito del diritto amministrativo, e la precisazione, dopo averne definitivamente
sancito la separazione dai ruoli politici, delle prerogative e dei contenuti della funzione
dirigenziale, sono i principali elementi di raccordo fra gli aspetti formali, di carattere
giuridico, e gli aspetti più sostanziali della riforma di una pubblica amministrazione
ormai diretta verso modelli organizzativi e gestionali orientati al risultato che, a loro
volta, introducono ai temi della valutazione e, indirettamente, a quello dell’incentivazione
delle risorse umane.
Se, molto schematicamente, valutare significa misurare e interpretare dei dati,
incentivare richiede, a monte, un procedimento di selezione e poi la conseguente
distribuzione di risorse finalizzata ad indurre gli individui a muoversi in coerenza con gli
obiettivi perseguiti. Quindi il nesso tra selezione e distribuzione delle risorse non è che
uno degli aspetti da considerare, al quale si affianca un secondo passaggio logico,
fondamentale, che collega i criteri di selezione agli obiettivi. Questa affermazione pone
in evidenza un aspetto molto importante: la valutazione delle risorse umane implica
necessariamente l’aver fatto preventivamente un lavoro di chiarificazione degli obiettivi.
Ciò dipende direttamente dalla programmazione non solo degli obiettivi di breve, ma
anche di quelli, a carattere strategico, di medio termine.
La “cultura della valutazione”, orientata al risultato, investe quindi pure i centri
decisionali politici, i quali utilizzano anche meccanismi di controllo tradizionali come i
regolamenti, che sono pur sempre uno strumento irrinunciabile della pubblica
amministrazione e, troppo spesso, riferimenti più o meno impliciti a criteri di fedeltà ed
appartenenza politica, in parte anche ammessi dal vigente assetto legislativo degli enti
locali. Se portati alle estreme conseguenze, essi rischiano di entrare in totale collisione
con la metodologia della programmazione per obiettivi e della successiva verifica delle
attività svolte: a furia di attribuire gli incarichi direzionali secondo criteri di gradimento
politico, si svuota di significato la separazione fra politica e gestione, alla base della quale
sta l’idea che una “sana” dialettica garantisca meglio la qualità finale dei servizi erogati al
cittadino: in alcune realtà, in condizioni di marcata continuità nel governo locale, il
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pericolo di invertire i termini della questione, confidando in riconferme elettorali fondate
più sull’affezione politica dei cittadini che sull’effettivo apprezzamento delle scelte
amministrative, è abbastanza probabile.
La riflessione può essere estesa anche oltre l’area contrattuale della dirigenza: la
valutazione del personale è imposta dal contesto legislativo e contrattuale, ma l’eccessiva
enfasi su meccanismi fiduciari, o semplicemente l’adozione di sistemi di valutazione
poco evoluti, intuitivi, superficiali o non sufficientemente trasparenti, può rappresentare
un serio “rischio organizzativo”, un vero e proprio “boomerang” che invece di
incentivare il personale a migliorare le prestazioni, data la stabilità del rapporto di
impiego del personale e il peso, spesso poco più che simbolico, delle retribuzioni
accessorie, può provocare effetti indesiderati, come i fenomeni di disaffezione
individuale, a causa di effettive o supposte ingiustificate disparità di trattamento, o
l’allentamento della tensione organizzativa verso le finalità e gli obiettivi predeterminati.
Dalla rilevazione e misurazione dei dati relativi alle performances, alla loro
interpretazione in funzione degli effetti desiderati e, infine, alla loro traduzione in termini
di benefici economici a favore degli interessati, entrano in gioco moltissimi elementi: gli
attori, gli strumenti normativi e contrattuali, la diversificazione degli oggetti, le varie
metodologie, i particolari assetti funzionali delle organizzazioni, le caratteristiche del
contesto o dei contesti all’interno dei quali esse vivono e si muovono.
L’analisi di questo campo articolato e multidimensionale probabilmente non
produrrà risposte chiare e univoche al complesso problema della valutazione delle
risorse umane negli enti locali e, in generale, alle difficoltà incontrate nell’introdurre la
relativa funzione nel settore delle pubbliche amministrazioni; tuttavia, essa può
contribuire, in qualche misura, a descrivere alcune delle relazioni che entrano in gioco
nel processo, a delineare un po’ meglio il quadro generale e, magari, attraverso la
consapevolezza che si tratta di un’attività funzionale non solo al costante e progressivo
miglioramento dei servizi rivolti ai cittadini, ma anche alla valorizzazione delle risorse
umane impiegate, a restituirci una rappresentazione della valutazione delle risorse umane
più fedele alle sue principali finalità e cioè un po’ meno “ispettiva” e un po’ più
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“educativa” nei confronti sia delle persone che vengono valutate sia verso le
organizzazioni che la mettono in atto. Citando l’opera di Jeremy Rifkin “L’età
dell’accesso”, è stato osservato
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, che l’economia contemporanea sta realizzando il
passaggio dal “capitale materiale” al “capitale immateriale”: la nuova forma di
capitalizzazione della ricchezza è data non tanto dal controllo dei mezzi di produzione,
quanto dal controllo dell’accesso. Sono dati esemplificativi il fatto che un terzo dei
macchinari nelle aziende statunitensi è in affitto, e che i processi di esternalizzazione
nelle aziende coinvolgono tutti i processi produttivi, ad eccezione di quelli che
coinvolgono aspetti immateriali come l’idea o il design, che restano all’interno
dell’azienda. Anche nella Pubblica Amministrazione, allora, la valutazione del personale,
così come la formazione, rappresentano strumenti particolarmente significativi per
ottimizzare l’impiego del “capitale immateriale”, essenzialmente la risorsa umana, nella
prospettiva di incrementare i livelli di efficacia, efficienza ed economicità.
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Cfr. BANCALARI e TOMMASI 2005.
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