II
valutazione può riguardare la produzione scientifica di un singolo ricercatore, di un
dipartimento o ateneo.
Diverse sono le tecniche elaborate nel corso del tempo per far fronte alle diverse
situazioni. Di particolare interesse, per la sua importanza all’interno del processo di
valutazione e per la ricchezza di soluzioni implementabili, è l’analisi della valutazione
ex-post dei risultati della ricerca, per la quale si individuano prevalentemente tre
metodologie: direct peer review, modified peer review ed indirect peer review. La prima
prevede una valutazione diretta dei risultati da parte di un esperto o di un gruppo di
esperti che devono valutare la qualità di un prodotto della ricerca o confrontare gli
obiettivi che un progetto di ricerca si prefissava con quelli effettivamente raggiunti. La
seconda coniuga la valutazione di esperti con quella di persone appartenenti ai settori di
attività esterni alla ricerca che dovranno beneficiare dei risultati della ricerca. Infine, la
indirect peer review si basa su indicatori numerici di produttività e qualità della ricerca;
non prevede quindi il giudizio diretto, ma discende dalla raccolta di giudizi di qualità
espressi in altre sedi.
Ogni paese ha impostato un proprio sistema di valutazione della ricerca con proprie
peculiarità, più o meno adatto a svolgere la propria funzione nel contesto in cui opera.
Le nazioni che vantano una maggiore tradizione nel campo della valutazione sono,
generalmente, anche quelle che sono riuscite ad elaborare sistemi più approfonditi ed
incisivi. L'Italia ha iniziato ad affrontare il tema della valutazione della ricerca solo nei
primi anni novanta e lo ha fatto in modo incerto e poco coordinato, accumulando un
forte ritardo nei confronti degli altri paesi occidentali.
Nel primo capitolo si sottolinea l’importanza che l’attività di ricerca ha per l’uomo,
sia da un punto di vista morale che pratico. In particolare ci si concentra sui benefici
economici che indirettamente tale attività produce; la coscienza di tali benefici ha
determinato una maggiore attenzione per l’attività di ricerca e tentativi di accrescerne
l’efficienza, anche attraverso l’impostazione di sistemi di valutazione che sono l’oggetto
centrale dello studio. Si illustra come, in particolare negli ultimi cento anni, la teoria
abbia cercato di spiegare la crescita economica e di come i primi modelli, basati sul
semplice studio di capitale e lavoro ed incapaci di fornire previsioni convincenti, siano
stati soppiantati progressivamente da modelli più evoluti, basati su teorie che
III
contemplano l'importanza della conoscenza e che erano capaci di fornire spiegazioni più
esaurienti. Quindi, si sottolineano le diversità, nel ruolo e nelle caratteristiche
dell'attività di ricerca, tra paesi economicamente sviluppati e paesi che stanno iniziando
un percorso di sviluppo economico; si evidenzia altresì come, in particolare nel primo
gruppo, sia particolarmente importante svolgere attività di ricerca d'avanguardia per
conseguire soddisfacenti tassi di crescita. Infine, si descrive brevemente, attraverso l'uso
di alcuni indicatori particolarmente significativi, la posizione dell'Italia nella ricerca,
nell'istruzione, nell'innovazione e nelle produzioni tecnologicamente avanzate, fattori
che da fonti autorevoli sono indicati come le fondamenta dello sviluppo economico
futuro.
Nel secondo capitolo si approfondisce l’analisi dell’attività di ricerca; una volta
descritte le caratteristiche ed i problemi che tale attività pone, diviene più facile
comprendere i metodi, le tecniche, le osservazioni e le diverse esperienze di
valutazione descritte nei capitoli successivi.
Dopo avere riportato una breve terminologia dell'attività di ricerca, terminologia
utilizzata nel seguito del lavoro, si affronta il problema della produzione di ricerca dal
punto di vista teorico, distinguendo tra le diverse tipologie di attività e di risultati.
Quindi, si analizzano alcuni argomenti più specifici dell'attività di ricerca nelle imprese
e nelle università o centri di ricerca statali, si rappresenta un quadro della situazione
della ricerca in Italia attraverso la descrizione dell’attività svolta dai soggetti pubblici e
privati che nel campo svolgono un ruolo di primo piano, nonché dei dati sull’entità delle
risorse investite.
Il terzo capitolo affronta il tema della valutazione della ricerca, attività finalizzata ad
accrescerne efficienza ed efficacia, che si diffonde parallelamente alla valutazione di
altri aspetti delle attività svolte dalle amministrazioni pubbliche. Prima di impostare un
sistema di valutazione devono essere definiti gli ‘elementi preliminari’ alla valutazione
(focus, obiettivi, criteri e organizzazione), elementi indispensabili a chiarirne le finalità
e il contesto, a determinare le caratteristiche che dovrà avere per adempiere alla propria
funzione. Il focus è definito dal tipo di ricerca oggetto della valutazione, dal livello-
unità d’analisi e dall’intervallo temporale; gli obiettivi e i criteri di valutazione in parte
sono dettati dal tipo di focus, in parte condizionano l’organizzazione del sistema di
valutazione.
IV
Per implementare il sistema si devono conoscere anche le aspettative delle parti
interessate, chi la sostiene, chi effettuerà la valutazione, la periodicità con cui verrà
condotta e la posizione ricoperta nel processo decisionale. Spesso, in una medesima
struttura di ricerca (università, ente o impresa) convivono più processi di valutazione
della ricerca che è necessario coordinare tra loro e con gli eventuali altri processi di
valutazione in atto sullo stesso oggetto; è il caso, ad esempio, della valutazione della
ricerca e della didattica svolta da un docente-ricercatore. Tra le varie tipologie di
valutazione, richiedono particolare attenzione le tecniche e i metodi di valutazione ex-
post della produzione scientifica, in quanto presentano varietà di soluzione e sono molto
diffuse. Dopo un breve richiamo alla valutazione di processo si compie una rassegna
delle più importanti esperienze di valutazione condotte a livello internazionale nei
sistemi di ricerca universitari, in modo da offrire un termine di paragone con la
situazione dell’università italiana descritta nel successivo capitolo.
Il quarto capitolo, attraverso un riepilogo delle esperienze più significative sinora
effettuate, si pone l’obiettivo di descrivere lo stato dell’arte nel sistema delle università
italiane. Da tale analisi si desume che vi è stata e vi è ancora molta frammentazione e
scarsa incisività, in particolare rispetto ai sistemi di ricerca dei nostri paesi concorrenti.
Numerosi sono gli organismi che si sono interessati della valutazione, ma nessuno con il
necessario supporto di mezzi, esperienza e volontà politica. Tra le varie esperienze,
quella condotta nell’ambito della valutazione del sistema universitario attraverso
l’operato dei nuclei di valutazione e dell’Osservatorio della Ricerca è quella di più
lungo corso, che sinora ha impiegato maggiori risorse umane e finanziarie ma che ha
affrontato solo marginalmente la ricerca scientifica, concentrandosi prevalentemente su
altri aspetti dell’attività degli atenei. Molto importante è stato il contributo della CRUI,
attraverso ricerche, studi e proposte che in parte si sono concretizzate e in parte sono
state utilizzate in altre esperienze di valutazione. Negli ultimi anni, di pari passo col
crescere dell’autonomia dei singoli atenei, sono cresciute le loro possibilità di impostare
un proprio processo di valutazione e di conseguenza è cresciuta l’eterogeneità
complessiva del sistema di valutazione italiano. Non mancano esperienze che, pur non
raggiungendo in pieno gli scopi prefissati, sono di buon livello tecnico sia dal punto di
vista concettuale che pratico; è il caso della selezione dei progetti di ricerca nell’ambito
del Prin, che rappresenta un esempio interessante e completo di valutazione ex-ante.
V
Vengono anche descritte altre esperienze di valutazione. Alla fine rimane
fondamentalmente in sospeso il problema della messa in opera di un buon sistema di
valutazione della ricerca e l’interrogativo su quali siano le sorti della valutazione in
Italia.
Nel capitolo quinto si riassumono le caratteristiche e i limiti delle varie tecniche e
metodi di valutazione ex-post della produzione della ricerca. Alla luce di alcune
considerazioni sul problema della qualità in generale e del contributo scientifico di un
articolo, si evidenziano ulteriori limiti e si prospetta come la direct peer review e la
indirect basata sull’uso delle citazioni possano essere utilizzate congiuntamente per
effettuare una valutazione più completa. All’interno della descrizione di tale tecnica che
combina i due metodi, si individuano alcuni accorgimenti che possono aumentare la
significatività delle citazioni ed infine si descrive un processo rivolto ad individuare
potenziali rapporti collusivi.
1
1 – La crescita economica
1.1 - La crescita economica e il ruolo della conoscenza
Il tenore di vita dell’uomo occidentale è cresciuto in modo sorprendente negli ultimi
due secoli. Il processo che ha portato in così breve tempo da una società agricola ad una
industriale e, successivamente, ad una post-industriale, si è innescato nel momento in
cui scienza e tecnologia si sono avvicinate quasi sino a diventare sinonimi. Tuttavia,
sino alla metà del diciannovesimo secolo, scienza e tecnologia erano ancora ben
distinte: “la prima era tradizionalmente aristocratica, speculativa e con fini intellettuali;
la seconda era per ceti medio bassi, empirica e rivolta all’azione”
1
. Confondere
tecnologia e scienza sarebbe dunque un grave errore, in particolare ai fini di questo
studio, nel quale si affrontano le problematiche della valutazione della ricerca scientifica
(termine che, oltre alla scienza in senso più ristretto, ricomprende anche le scienze
sociali ed umanistiche), poiché la ricerca scientifica ha valore a prescindere da possibili
implicazioni pratiche in quanto soddisfa un bisogno primario dell’uomo quale è quello
della conoscenza, come ci ricorda Dante Alighieri: “foste non fatti per viver come bruti
ma per cercare virtute e conoscenza”. Richiamare il ruolo della conoscenza nella
crescita economica non deve quindi indurre a pensare che la ricerca scientifica sia
finalizzata esclusivamente a questa, né che debba essere necessariamente valutata sulla
base di un possibile ritorno economico; tuttavia, è pur vero che i sistemi di valutazione
per l’assegnazione dei finanziamenti alle università nascono dall’esigenza di aumentare
il valore da esse creato a beneficio della comunità, valore che si misura anche attraverso
la crescita economica che ne risulta indotta.
Il tema della crescita economica è sempre stato centrale nel dibattito tra gli
economisti sin dalle riflessioni di Smith, Ricardo e degli altri grandi economisti
classici
2
. Nel secolo scorso vi sono state tre ondate di pensiero nell’evoluzione della
teoria macroeconomica sulla crescita.
1
White, citato in Baussola (1996)
2
La ricostruzione del dibattito tra le principali teorie della crescita economica contenuto nel paragrafo 1.1
tratta da Baussola (1996)
2
La prima fu prodotta negli anni quaranta dal lavoro dei Keynesiani Harrod e Domar;
la seconda iniziò negli anni cinquanta con lo sviluppo di un modello neoclassico di
crescita economica da parte di Solow e Swan. Infine, la terza è iniziata verso la metà
degli anni ottanta con i lavori di Romer e Lucas.
Harrod e Domar furono influenzati nei loro studi dalla Grande Depressione del 1933
e dalla paura per le conseguenze della seconda guerra mondiale sull’economia, che li
spinsero a ricercare le condizioni soddisfatte le quali un sistema economico è in grado
di crescere nel lungo periodo in stato stazionario limitando i danni prodotti
dall’incertezza e dall’alternarsi dei cicli economici. Nella loro teoria l’instabilità era il
risultato dell’incapacità da parte dei governi di uguagliare il tasso di crescita garantito
(dato dal tasso di risparmio e da un certo bisogno di capitale per unità di output) al tasso
di crescita naturale (dato dal tasso di crescita della forza lavoro e dell’output per
lavoratore). Secondo Harrod e Domar si poteva garantire un alto tasso di crescita
stimolando con politiche adeguate il tasso di risparmio ed indirizzando gli investimenti
verso gli impieghi più produttivi.
Solow e Swan dubitavano che la chiave per passare da un basso ad un alto tasso di
crescita potesse risiedere nella crescita del tasso di risparmio. Nel loro primo modello,
un paese che fosse riuscito ad elevare permanentemente i suoi tassi di risparmio e di
investimento avrebbe ottenuto per un certo periodo di tempo tassi di crescita superiori,
tuttavia, individuavano nello sviluppo tecnologico la fonte primaria di crescita
economica. Un’innovazione tecnologica garantisce per un certo periodo di tempo un
balzo nei tassi di crescita, ma se non si introducono continuamente ulteriori innovazioni
il tasso di crescita ritorna al suo livello “naturale”. Se non vi fosse progresso tecnico il
tasso di crescita dell’economia dovrebbe dipendere da una media ponderata tra il tasso
di crescita del capitale e quello del lavoro (intendendo in senso lato progresso tecnico e
prescindendo dai rendimenti crescenti); se il prodotto cresce maggiormente, ciò è da
imputarsi ad un’ulteriore variabile, il progresso tecnico per l’appunto. Solow osservò
che il saggio di sviluppo del reddito tra il 1909 e il 1949 non spiegabile con una
variazione degli input capitale e lavoro era stata in media dell’1,5% annuo, ovvero i 7/8
dell’aumento del reddito erano da attribuirsi al progresso tecnico! In realtà tale
interpretazione lasciava alcuni dubbi, vi sono numerose influenze sulla crescita non
riconducibili al progresso tecnico.
3
Denilson, negli anni sessanta, cercò di disaggregare le diverse componenti del tasso
di crescita residuo ed imputò circa il 40% della crescita complessiva al progresso
tecnico, eliminando l’effetto dovuto, ad esempio, al miglioramento della qualità delle
risorse impiegate o agli spostamenti di risorse verso aree più produttive.
Dopo una fase di grande dibattito, per un certo periodo di tempo vi fu una
progressiva riduzione dell’interesse per queste tematiche poiché il modello neoclassico,
assumendo il progresso tecnico come variabile esogena, era incapace di spiegare
endogenamente le variabili che determinavano l’innovazione tecnologica e quindi la
crescita. Senza tale assunzione il modello non era in grado di generare un tasso di
crescita positivo del reddito pro-capite di lungo periodo; inoltre, non era in grado di
spiegare perché non vi è convergenza nei tassi di crescita in stato stazionario tra i paesi
sviluppati, né perché vi siano delle differenze nella crescita tra i paesi sviluppati e quelli
in via di sviluppo.
Ponendosi nello schema neoclassico, alcuni economisti svilupparono approcci
teorici precedenti in modo da rendere endogeno il processo innovativo, e quindi il tasso
di crescita dell’economia. La conoscenza diviene l’elemento fondamentale e nei tre
filoni analitici principali si cerca di comprendere il modo in cui essa si forma. Nel
primo, rappresentato dalle teorie che Arrow concettualizzò agli inizi degli anni sessanta,
la conoscenza viene incorporata nel capitale, legata allo stock che le imprese
accumulano nel corso del tempo; questo perché attraverso un processo di learning by
doing migliorano ed aggiungono conoscenza ai beni capitale che producono. Nel
secondo filone, che ha in Uzawa (metà anni sessanta) e Lucas (fine anni ottanta) i
principali rappresentanti, la conoscenza è incorporata nel capitale umano, l’input lavoro
è allocato tra i settori della produzione e dell’educazione ed il progresso tecnico è
assunto come una funzione del lavoro allocato in quest’ultimo; nel terzo è il frutto
dell’attività di un settore ad hoc (ricerca e sviluppo) ed è quindi endogenizzata nella
funzione di produzione di tale settore, come sostenuto nei primi anni novanta da
Romer.
Le teorie sulla crescita endogena, sottolineando il legame tra conoscenza, ricerca ed
innovazione tecnologica, riescono a comprendere meglio quelli che sono gli elementi
che, combinati, danno luogo alla crescita economica: si inizia ad aprire la “scatola nera”
dell’innovazione tecnologica la quale, da variabile esogena e indipendente diventa
4
endogena e dipendente in parte dalla politica sulla conoscenza. I governi possono quindi
incrementare i redditi e la produttività attraverso un’adeguata politica nella formazione
e nell’attività di ricerca e sviluppo: nonostante le rettifiche da fare nell’assegnare un
peso al progresso tecnico nella crescita (cfr Denilson) e quelle sul peso della ricerca nel
progresso tecnico (le innovazioni possono anche essere acquisite in altri modi), vi è
infatti una forte correlazione tra spesa in ricerca e ammontare dell’output. Soete, Turner
e Patel nei primi anni ottanta hanno stimato che nei paesi più industrializzati il tasso di
rendimento delle spese in ricerca sia approssimativamente del 20%.
5
1.2 – La crescita nei paesi in via di sviluppo e nei paesi industrializzati
Come evidenziato dal paragrafo precedente, nel corso del tempo le teorie sulla
crescita economica hanno sottolineato sempre di più il legame tra conoscenza,
progresso tecnico e sviluppo economico. Tuttavia, conoscenze ed innovazioni tecniche
possono essere ottenute da un paese non solo tramite una propria attività di ricerca e
sviluppo direttamente finalizzata ad ottenerle, ma anche acquisendole da coloro che già
ne sono in possesso. Le nazioni che hanno iniziato un percorso di crescita economica,
ma che non hanno ancora raggiunto un livello di benessere paragonabile a quello dei
paesi maggiormente sviluppati, conducono ricerca prevalentemente su conoscenze
tecniche già diffuse altrove, con l’intento di introdurle con successo anche nel proprio
paese. L’acquisizione di conoscenze dall’esterno consente un notevole risparmio di
costi in ricerca e sviluppo, infatti si acquisisce una tecnologia già funzionante senza
doversi sobbarcare tutte le spese che ha sostenuto colui che per primo l’ha sviluppata
(costi per tentativi falliti, etc.); inoltre vi è un risparmio in ordine di tempo, perché se ne
conoscono già gli usi, i limiti, gli eventuali pericoli. Se una nuova tecnologia viene
introdotta nei modi e nel contesto adatti è quindi probabile che produrrà effetti molto
positivi, spesso addirittura maggiori di quelli che aveva prodotto quando era stata
utilizzata per la prima volta (perché la tecnologia è stata intanto perfezionata
dall’esperienza) e in tempi più rapidi. Questo fenomeno è stato riscontrato in paesi
come la Germania, l’Italia e il Giappone del dopoguerra i quali, disponendo di un
adeguato capitale umano, poterono rapidamente acquisire macchinari e tecniche da
paesi più avanzati e godere per qualche decennio di altissimi tassi di crescita. In tempi
più recenti si può ricordare il caso della Corea del Sud, delle altre tigri asiatiche e,
soprattutto, quello della Cina, che negli ultimi 20 anni è stata protagonista di uno
sviluppo prodigioso. Gli elementi di queste storie di successo sono, oltre alle tecniche
importate, anche il sistema efficiente, istruito e laborioso che ne sta alle spalle.
L’acquisto di tecnologia e conoscenze dall’esterno ha dei costi di acquisizione il cui
peso si fa sentire in modo sempre più rilevante mano a mano che il paese si avvicina al
livello di benessere dei paesi più sviluppati. Se, a questo punto, non viene impostata una
propria politica della ricerca, rivolta verso tecniche innovative, ossia non più una ricerca
di semplice studio e adattamento di tecniche già note, allora quella nazione non
6
raggiungerà mai il livello di benessere dei paesi “d’avanguardia”. Essa vivrà il
paradosso di Achille e la tartaruga: si avvicinerà sempre più a tale livello ma senza mai
raggiungerlo e continuerà a dipendere dall’esterno per ogni innovazione tecnica. Ben
più grave è il pericolo che corrono quei paesi che smettono di investire in modo
adeguato nella ricerca: rischiano di essere risucchiati nel gruppo dei paesi più arretrati
dal momento che, oltre a non produrre ricerca d’avanguardia, non conducono neppure la
ricerca necessaria ad adattare e studiare le nuove conoscenze prodotte all’esterno.
Esiste una grande differenza tra la ricerca nei paesi avanzati e quella nei paesi in via
di sviluppo. I paesi più avanzati devono cercare di raggiungere conoscenze sempre
nuove da sfruttare direttamente e indirettamente (vendendoli ad altri paesi), senza di
queste le loro economie sono destinate a ristagnare o regredire. Al riguardo può essere
utile ricordare brevemente la teoria del mutamento tecnologico di Schumpeter,
sviluppata agli inizi degli anni quaranta, secondo la quale tale processo è composto da
tre fasi:
1- la fase dell’invenzione, che consiste nella generazione di nuove idee;
2- la fase dell’innovazione, che rappresenta lo sviluppo delle nuove idee in prodotti
commerciabili;
3- la fase della diffusione, che è lo stadio in cui i prodotti/processi vengono adattati e
utilizzati dagli attori.
Non tutte le invenzioni diventano innovazioni e non tutte le innovazioni si
diffondono, ad ogni stadio vi è un processo di selezione. I paesi più avanzati operano in
tutte e tre le fasi caricandosi dei costi di quelle invenzioni che non si diffonderanno e
godendo dei proventi dalla cessione delle invenzioni di successo. I paesi che non sono
all’avanguardia nella ricerca agiscono invece prevalentemente nella fase della
diffusione poiché acquistano l’innovazione dall’esterno preoccupandosi di integrarla nel
loro sistema economico.
Da chi è composto il “club” dei paesi che fanno o dovrebbero fare ricerca
d’avanguardia?
In realtà non è un club con membri fissi né essi sono gli stessi nei vari campi della
ricerca, né si può dire che è composto solo dai paesi più sviluppati: basti citare il caso
della Russia che, nonostante un’economia non certo prospera, riesce a produrre
7
conoscenze di alto livello in molti campi. Un altro esempio è quello di Cuba che, nel
campo della ricerca medica, ottiene risultati certamente superiori al livello della sua
economia. Tuttavia, gli attori principali di questa competizione sono Stati Uniti, Unione
Europea e Giappone, ossia le tre aree macroeconomiche più sviluppate.
Le vicende dell’ultimo decennio hanno dimostrato che si può innescare un circolo
vizioso o virtuoso (a seconda di chi si considera) che può distanziare i contendenti e,
infine, retrocederne alcuni al rango di paesi che non conducono ricerca d’avanguardia.
Gli Stati Uniti hanno vissuto un circolo virtuoso: avevano una ricerca efficiente e
produttiva che ha contribuito a garantire alti tassi di crescita, lo stato ha avuto così
molte risorse da poter impiegare nuovamente nella ricerca e alimentare ulteriormente
questo processo. L’Europa ha vissuto invece un periodo di relativa stagnazione
economica ed il livello e la qualità delle risorse fisiche ed umane impiegate nella ricerca
non è migliorato o addirittura è peggiorato nel corso degli anni ’90 con il rischio di
incrementare ulteriormente un meccanismo questa volta deleterio per il benessere della
nazione (cfr. figura 1.1). Se rapidamente non si correrà ai ripari invertendo questo
processo e cercando di intervenire laddove è più opportuno, il rischio precedentemente
paventato diventerà tutt’altro che irrealistico. Se in passato si sono verificate alcune
“success stories” come quella del Giappone e della Germania nel dopoguerra o, in tempi
più recenti, della Cina, si possono anche elencare storie di insuccesso; il caso più
eclatante è quello dell’Argentina, che all’inizio del secolo era una della nazioni più
ricche del mondo, verso cui milioni di italiani emigrarono. Dopo 80-90 anni la
situazione sembra essersi capovolta con gli argentini che emigrano in Italia mentre il
loro paese precipita in una profonda crisi. Il caso dell’Argentina testimonia che, così
come paesi che inizialmente hanno a disposizione poche risorse ma investendole
saggiamente possono accrescere la loro produttività (Germania, Cina, Giappone, etc.),
così, paesi che hanno a disposizione molte risorse possono, con una politica degli
investimenti errata, imboccare una strada che li porta al declino. La tentazione di molti
paesi europei, in una fase di stagnazione economica come quella attuale, è proprio
quella di sottrarre risorse alla ricerca, scelta che non farebbe che aggravare nel lungo
termine la loro situazione economica.
In un recente studio dell’OCSE si disegnano le possibili traiettorie di crescita nel
nuovo ciclo economico basato sulla conoscenza:
8
“Una tendenza generale di lungo periodo è il graduale spostamento dei sistemi
economici dei paesi industrializzati verso economie di servizi e la graduale riduzione
degli apporti del manifatturiero esplicito alla composizione del valore aggiunto totale. I
settori con maggiore crescita, in termini di valore aggiunto e di occupazione,
riguardano i servizi finanziari, le assicurazioni, i servizi alle imprese, alla collettività,
alle persone fisiche. Il manifatturiero high-tech (aerospazio, computer,
telecomunicazioni, elettronica, informatica) manifesta la tendenza a conservare la sua
quota di apporto alla formazione del valore aggiunto totale, mentre il manifatturiero
medium-tech (chimica) e low-tech (prodotti alimentari, tessile, carta e prodotti del
legno) hanno già registrato negli ultimi anni un rapido declino nel loro apporto alla
composizione delle produzioni nazionali.” OECD (1998)
Quattro mercati di beni e servizi presentano tendenze di crescita progressiva:
1- mercato dei beni e servizi legati alla gestione dell’informazione e della
conoscenza;
2- mercato dei beni e servizi legato all’ambiente, ancora poco sviluppato, è
destinato a crescere per le numerose interdipendenze con altri settori come quelli
alimentare, trasporti, costruzioni, energia e per la sempre maggiore attenzione alla
qualità della vita;
3- mercato legato alla salute, ciò a causa del rapido invecchiamento della
popolazione dei paesi industrializzati;
4- mercato dei servizi professionali e finanziari al settore manifatturieri in
quanto una quota sempre crescente del successo commerciale di questo settore dipende
proprio de questi servizi associati. Le interazioni tra manifatturiero e servizi
continueranno a crescere anche per effetto delle nuove regole imposte dalla
competizione transnazionale.
Analisi della Commissione dell’Unione Europea prevedono un declino nei beni e
servizi standardizzati come moda, calzaturiero, meccanica ed un continuo movimento di
capitali verso i settori economici basati sulla conoscenza. Il futuro prospetta crescente
complessità e specializzazione delle attività economiche, ampliamento dei confini
territoriali delle imprese, crescente interdipendenza di numerosi mercati di prodotti
intermedi, ruolo rilevante delle capacità tecnologiche e delle competenze umane nei
9
processi di creazione del valore, rapida evoluzione di nuove forme organizzative ed
istituzionali e soprattutto accelerazione di processi convergenti verso assetti economici
“knowledge and innovation driver”. In questa nuova fase economica si enfatizzerà la
già riconosciuta centralità della conoscenza e dell’innovazione nel processo di crescita
economica.
10
1.3 – L’Italia nel nuovo ciclo economico basato sulla conoscenza
Alla luce delle considerazioni contenute nel rapporto dell’OCSE e di quelle
effettuate dalla Commissione Europea, può essere utile riportare alcuni dati che
descrivono la posizione dell’Italia nella ricerca, nell’istruzione e nei settori produttivi ad
alto contenuto tecnologico, fattori sui quali si gioca buona parte del suo futuro
economico.
Sono significativi i dati contenuti nella tabella 1.1 che riporta alcuni indicatori di
spesa nella ricerca e sviluppo (ricerca
3
) in alcuni dei paesi maggiormente
industrializzati, la spesa media dei paesi membri dell’OCSE e dell’Unione Europea a
dodici componenti. I dati della tabella mostrano come l’Italia spenda, in percentuale sul
Pil, meno di tutti gli altri paesi suoi principali concorrenti, ad esclusione di Spagna e
Portogallo. Analoga considerazione può essere compiuta sulla spesa in ricerca delle
imprese in percentuale del Prodotto interno dell’industria e sulla spesa procapite in
ricerca. Anche se paragonata ad un paese di recente industrializzazione come la Corea
del Sud, l’Italia impiega molte meno risorse nella ricerca. Particolarmente suggestivo è
il dato della spesa procapite degli Stati Uniti d’America che con 892 dollari USA, nel
1999 registravano il valore più alto in assoluto nel mondo: gli USA coprivano quindi,
nel 1999, il 47,7% delle spese totali in ricerca dei paesi OCSE. La figura 1.1 riporta altri
dati preoccupanti sul posizionamento dell’Italia nella ricerca, evidenziando come nel
gruppo dei sette paesi maggiormente industrializzati sia sempre stata, negli ultimi 25
anni, il fanalino di coda.
Si può notare, inoltre, che nell’ultimo decennio la spesa in ricerca dell’Italia, in
percentuale sul Pil, è stata meno della metà di quella di Germania, Giappone, Francia,
USA e poco più della metà della Gran Bretagna. Sempre nell’ultimo decennio, mentre i
principali paesi europei hanno ridotto in modo significativo le spese in ricerca, il
Giappone, gli Usa e il Canada le hanno aumentate, tanto che si è creato un divario tra
Giappone e Stati Uniti da una parte e Germania dall’altra, che sino al 1990 erano invece
appaiati.
3
Per una definizione completa di ricerca si veda il paragrafo 2.1