5
Introduzione
La felicità è da sempre il fine ultimo cui tende l‘uomo. Non è un caso, infatti, che
due fondamentali strumenti del diritto come la Dichiarazione d‘Indipendenza
Americana del 1787 e la Dichiarazione dei Diritti del Cittadino elaborata nella
Francia post-rivoluzionaria del 1793 sanciscano, anche se in prospettiva individuale
l‘una e collettiva l‘altra, il diritto alla felicità come un diritto inalienabile dell‘uomo.
Il vero quesito di fronte al quale più volte l‘umanità si è interrogata è cosa, però,
sia la felicità e come possa essere raggiunta. Le risposte a tale interrogativo così
impregnato di significati filosofici, psicologici e anche economici creano notevoli
difficoltà alla costruzione di un modello unico che possa dirci cosa realmente sia la
felicità.
Il vocabolario della lingua italiana alla voce felicità riporta la seguente
definizione: ―stato d‘animo positivo di chi possiede quello che veramente appaga i
propri desideri‖ (Pianigiani, 2010).
Ci si trova quindi di fronte alla descrizione di un‘emozione che è
indissolubilmente legata all‘appagamento dei propri desideri. Ed è proprio questo
legame che ha fatto, nel corso della storia, proliferare teorie circa la possibilità da
parte dell‘uomo di raggiungere la felicità.
6
Numerosi sono stati i quesiti che gli studiosi in particolare filosofi, psicologi ed
economisti si sono posti. Primo tra tutti il ―locus‖della felicità: ―la felicità è dentro o
fuori dell‘individuo?‖.
È possibile cioè ascrivere alle sole caratteristiche dell‘individuo, siano esse
psicologiche o genetiche, la maggior o minor probabilità di raggiungere la felicità
oppure, al contrario, il raggiungimento di tale obiettivo è soltanto legato al contesto
storico-sociale nel quale l‘individuo si trova ad agire?
Ad oggi scindere i due aspetti rifacendosi o ad una mera visione dell‘uomo come
monade (Freud) o ad un‘altrettanto sterile visione dell‘uomo calato nel contesto
(Vygotskij) risulterebbe un‘analisi monca del fenomeno.
Il fatto stesso che le cosiddette società del benessere economico sembrerebbero
non risultare quelle in cui il grado di felicità sia più alto mostra come essa sia, allo
stesso tempo, funzione di variabili del tutto soggettive e di altre assolutamente
oggettive. A tal proposito, ad esempio, i dati pubblicati dall‘OMS (Organizzazione
Mondiale Sanità), per tenere in considerazione un indicatore considerato da molti
autori significativo, nel 2006 mostrano come il tasso di suicidi registrato in paesi
come Austria, Svezia e Francia sia significativamente più elevato rispetto a quello di
paesi come Argentina o Brasile.
Per molto tempo di fronte alle difficoltà connesse al raggiungimento di una
definizione chiara a livello sociale del concetto di felicità si è ovviato, utilizzando un
punto di vista economico, assumendo una sostanziale equivalenza tra felicità e
reddito. È stato Easterlin il primo, in epoca moderna, a mostrare l‘infondatezza di
tale approssimazione formulando, quasi 4 decenni fa, il noto ―paradosso della
felicità‖.
Secondo l‘economista americano l‘andamento della ricchezza e della felicità
seguono inizialmente un percorso parallelo, alla crescita della prima corrisponde
una crescita della seconda, fino a giungere ad un punto in cui, a causa del continuo
sforzo che l‘individuo deve sostenere per l‘accumulazione di beni, si genera
un‘involuzione del grado di felicità che l‘individuo stesso percepisce.
Il ritorno del concetto di felicità sulla scena economica mondiale è legato, come
vedremo, alle numerose critiche che da più parti vengono rivolte agli usuali indici di
misurazione del benessere sociale, primo tra tutti il PIL, Prodotto Interno Lordo,
ritenuto da molti, uno strumento intrinsecamente limitato e limitante nella
formulazione della programmazione economica.
7
Se infatti l‘obiettivo delle politiche economiche deve essere il miglioramento del
benessere sociale, l‘utilizzo di un indicatore distorto produce inevitabilmente scelte di
policy distorte e quindi potenzialmente dannose.
Interrogarsi sulla felicità, andare ad indagare quali siano le variabili oggettive e
soggettive che ne influenzano la nostra percezione e tra queste scegliere quelle che
statisticamente hanno un significato è stata ed è ancora oggi una sfida che la
statistica si trova ad affrontare.
Costruire un corretto indicatore in grado di misurare il livello di benessere partendo
dal concetto di felicità, per molti autori, diventa essenziale se ci si pone l‘obiettivo di
contrapporre all‘economia della mera crescita un‘economia finalizzata all‘aumento del
grado di soddisfazione sociale ed individuale.
Non ci poniamo certo con questo lavoro l‘obiettivo di rispondere ad un quesito di
tale e tanta complessità, ma cercheremo, partendo dai dati estrapolati da un
sondaggio, di evincere la presenza o meno di eventuali correlazioni tra la felicità e le
variabili da noi considerate.
In questo lavoro, infatti, dopo una breve analisi, fatta nel primo capitolo, circa il
modo in cui il concetto di felicità viene formalizzato da due dei più grandi filosofi
greci, Platone e Aristotele, e dall‘utilitarismo moderno si è passati a considerare le
innovazioni nel modo di guardare la realtà che, in ambito socio-economico, sono
state apportate dall‘economia della felicità si passa all‘analisi statistica del
campione oggetto di studio. Nel secondo capitolo si analizzano le caratteristiche
peculiari del campione mediante l‘utilizzo dei più noti indicatori di posizione e di
variabilità idonei all‘analisi di dati ordinali.
Nel terzo capitolo si introducono minuziosamente il modello CUB, un modello
innovativo realizzato al fine di rispondere all‘esigenze di analisi di dati ordinali, che
è stato poi utilizzato per effettuare una lettura statisticamente rilevante dei dati in
possesso. Il quarto capitolo è, infine, dedicato alle conclusioni e ad una serie di
considerazioni circa la possibilità di inferire il grado di felicità dalle variabili
analizzate.
8
Capitolo 1
La felicità: da oggetto filosofico a strumento di programmazione
economica
“Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità (...). Da
giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità.”
Epicuro Lettera sulla felicità (a Meneceo)
9
1. Prospettiva filosofica
Come scrive un noto studioso del pensiero antico, i greci ―si trovano
alle sorgenti stesse della civiltà occidentale‖ (Pohelenz M., 1987) appare
quindi necessario, al fine di comprendere il significato che per l‘uomo ha
la parola felicità, prendere le mosse da quella cultura che è effettivamente
all‘origine del nostro sapere.
Nell‘esperienza dei filosofi greci l‘idea di felicità è collegata allo stato
psichico conseguente ad una sensazione di pienezza, di appagamento delle
proprie aspirazioni, di espansione del proprio essere. Tale sensazione di
pienezza si sperimenta in momenti particolarmente significativi e
nonostante sia circoscritta all‘attimo essa appaga interamente perché ha il
potere di sospendere il tempo.
L‘attimo tuttavia svanisce mostrando quanto instabile e incerta sia la
condizione dell‘uomo che, come è naturale, cerca in tutti i modi di
controllare gli eventi al fine di poter rendere duratura quella sensazione
altrimenti effimera e fugace.
Di qui nasce il problema della felicità che passa dall‘essere
un‘esperienza a diventare una continua ricerca. Nella visione della Grecia
classica la felicità durevole è legata indissolubilmente all‘appagamento dei
propri desideri in maniera durevole e tale conclusione li pone di fronte al
problema di definire cosa sia la ―vera‖ felicità e come possa essere distinta
da quella momentanea, apparente.
1.1 La concezione di Platone
10
"I felici sono felici per il possesso della giustizia e della temperanza e gli
infelici, infelici per il possesso della cattiveria” (Platone)
Per comprendere cosa sia per Platone ad appagare l‘uomo, è necessario
soffermarsi brevemente su come il filosofo consideri l‘uomo stesso.
L‘uomo è identificato dal filosofo greco con una realtà spirituale,
l‘anima, eterogenea rispetto al corpo ma che con esso si trova a convivere. I
desideri del corpo sono quindi ben distinti dai desideri dell‘anima che,
essendo immortale, aspira al Bene in sé [―le persone felici sono felici perché
posseggono il bene‖ (Platone, Simposio 205 a)].
La conoscenza diviene quindi fondamentale perché permette all‘uomo di
scoprire la sua identità con l‘anima e la sua estraneità rispetto al corpo.
Partendo da tali affermazioni il filosofo greco riesce a circoscrivere la
sofferenza umana a questo mondo poiché la vera vita dell‘anima è quella
spirituale e, quindi, nemmeno le più atroci sofferenze possono
compromettere la felicità perché queste riguardano il corpo.
Platone conclude tale visione affermando quindi che la vera felicità è
nell‘aldilà quando sarà l‘anima liberatasi dal fardello del corpo a dirigere
l‘azione umana. Per il filosofo ciò però non si traduce in un totale
disimpegno in questa vita, anzi.
L‘uomo che aspira alla vera felicità deve, innanzitutto, mettere ordine in
questo mondo, dentro e fuori di sé, del resto felicità individuale e felicità
collettiva sono le due facce di una stessa medaglia. Platone afferma, infatti,
che uno Stato è retto secondo giustizia solo se i suoi cittadini sono giusti,
implicando quindi una diretta dipendenza della felicità individuale dalla
11
giustizia e dalla felicità collettiva, nel senso che nessun individuo può
sperare di vivere felicemente se non in una polis ben ordinata.
Ci si chiede quali siano, quindi, le condizioni necessarie affinchè
l'uomo sia in pace con se stesso, visto che nell'anima vi sono una
molteplicità di elementi in lotta tra loro: Platone afferma che l'uomo giusto
e felice sarà colui nel quale governa la parte razionale dell'anima.
È nel Filebo che il filosofo si sofferma sul concetto di felicità: la vita migliore
per l'uomo consiste, dice, in una miscela proporzionata di intelligenza e di
piacere ed è l'educazione lo strumento con cui l'uomo impara a distinguere quali
sono i veri piaceri e quali sono le cose che danno la vera felicità.
Un quesito che potrebbe essere rivolto a tale visione delle cose è perché
si dovrebbe voler essere felici e giusti. Platone ribatte a tale interrogativo
sostenendo che la giustizia è in sé il bene supremo dell'anima, la giustizia
cioè è salute e armonia dell'anima, come la salute fisica e la bellezza
esteriore sono desiderabili per il corpo allo stesso modo la giustizia è
auspicabile per l‘animo umano. Conclude affermando che, nonostante le
apparenze, i giusti vivono comunque meglio e sono più felici degli ingiusti.
1.2 La felicità nella visione aristotelica
"Esercitare liberamente il proprio ingegno, ecco la vera felicità"
(Etica Nicomachea I)
Nella visione aristotelica il bene è ―ciò a cui tutto tende‖. L‘agire umano
ha come fine ultimo il raggiungimento del bene ―sommo‖, problematico
resta, però, definire in cosa esso consista. Nel primo libro dell‘Etica
Nicomachea il filosofo critica aspramente la posizione di Platone secondo la
12
quale esisterebbe il ―Bene in sé‖, un qualcosa di estrinseco all‘uomo, eterno
e trascendente, una visione per lui inaccettabile.
Il primo quesito a cui il filosofo cerca di dare una risposta è individuare
quale sia tra le scienze quella in grado di raggiungere la conoscenza del
bene giungendo alla conclusione che la Politica, la scienza architettonica
per eccellenza, quella a cui tutte le altre sono subordinate, sia l'unica in
grado di condurre a tale conoscenza. Definita la scienza che può condurre
al bene assoluto rimane da analizzare in cosa quest‘ultimo consista.
Aristotele nota come per la maggior parte degli uomini il bene sommo
sia la felicità, ma ciò non risolve il problema perché definire in cosa
consista la felicità è cosa tutt‘altro che semplice.
Vengono analizzate e criticate alcune tra le più diffuse posizioni a
riguardo: l‘identificazione del bene con il piacere, tipica dell‘Edonismo
associata nella lettura aristotelica al popolo rozzo e che conduce alla
schiavitù del corpo; l‘identificazione del bene con l‘onore tipica degli
uomini politici, ritenuta superficiale e pericolosa perché può rendere
dipendenti dall‘essere onorato mentre il vero bene deve poter essere
trovato nella propria singolarità; l‘identificazione del bene con la
ricchezza vista come una grossolana confusione tra strumento e fine: la
ricchezza può essere un mezzo che favorisce il raggiungimento del bene
ma di per sé stessa non può essere un fine.
Come si è detto il bene - e per estensione la felicità - è assai relativo al
soggetto col quale ci si confronta: bisogna perciò isolare una caratteristica
che possa definirsi come peculiare dell‘uomo, qualcosa che non sia posseduta
dagli altri esseri popolanti la terra, ma che sia comune ad ogni uomo.