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processi e le peculiarità che hanno caratterizzato e caratterizzano tuttora la
valutazione dei dirigenti nelle APL.
1. Gli obiettivi
Obiettivo di questo lavoro è quello di indagare su cosa sta succedendo oggi
nelle APL sul tema della valutazione, quali sono le direttive, quali i risultati, quali
le idee e quali gli strumenti, anche per fornire del materiale di confronto a tutte le
APL. Pur sapendo che ogni sistema di valutazione viene implementato e
plasmato sulle caratteristiche e le esigenze di ciascun ente, credo che dal
confronto nascano idee e che la conoscenza di altre esperienze crei un surplus
culturale non indifferente, consentendo magari l’adozione di alcuni strumenti
poco o per nulla conosciuti, che permetterebbero una migliore rispondenza alle
singole esperienze di valutazione.
La stessa adozione dei sistemi di valutazione nella P.A., trova origine dal
confronto con le esperienze adottate presso le imprese private e, mentre in
principio erano solo queste le esperienze a cui si poteva fare riferimento, con
tutte le divergenze esistenti tra mondo pubblico e mondo privato, oggi, a
distanza di 10 anni, il materiale di confronto esiste anche nel campo pubblico e,
quindi, si può sfruttare questa risorsa per migliorare ulteriormente le successive
esperienze.
Certamente non è obiettivo di questo lavoro fare una classifica o riportare le
“migliori” esperienze esistenti oggi. Credo, infatti, che una classifica sia
un’operazione che risente delle considerazioni soggettive di chi la stila ed anche
il semplice giudizio, in quanto tale, risente delle esperienze e delle idee di chi lo
emette. Proprio per questo, preferisco mantenere una certa oggettività
nell’esposizione dei casi in esame anche se, ovviamente, la soggettività della
trattazione rimane ed in alcuni casi potrà trasparire la mia personale preferenza
verso l’uno o l’altro strumento adottato.
3
Chiaramente, non è obiettivo di questo lavoro fornire un sistema di
valutazione valido in assoluto e che, quindi, possa essere adottato
indiscriminatamente in qualsiasi ente. E’ mia convinzione, infatti, che tale
sistema non esista e credo che anche le esperienze di questi anni lo dimostrino.
Certamente si può copiare, ma un sistema di valutazione deve essere
partorito dalla stessa amministrazione che lo adotta e, come un bambino eredita
le caratteristiche genetiche dei genitori e col tempo può essere influenzato
anche dalle loro convinzioni culturali, così un sistema di valutazione deve
rispecchiare le caratteristiche organizzative e culturali dell’amministrazione che
lo crea e lo utilizza. Solo così, ciascuna amministrazione potrà adottare le
soluzioni tecniche più adeguate alle proprie caratteristiche organizzative, alle
sue funzioni ed ai suoi obiettivi strategici
Copiare, certamente è possibile, ma bisogna vedere il motivo per cui lo si fa
e, se tale motivo risiede semplicemente nel voler adottare quel sistema perché
lo si considera interessante e ben congegnato, indipendentemente da quanto si
presti effettivamente ad essere applicato presso l’ente, è sicuramente un modo
sbagliato di approcciarsi alla valutazione. Se, invece, il motivo deriva dalla
volontà di adottare quello stesso sistema, perché considerato esattamente
corrispondente alle esigenze ed alle caratteristiche dell’ente, allora sicuramente
copiare assume un significato positivo, anche se in realtà piuttosto che di
copiare parlerei di “prendere spunto”.
2. I metodi
Proprio in relazione agli obiettivi di questo studio e, soprattutto, in
considerazione di quelli che non vogliono essere i suoi obiettivi, il metodo di
lavoro intrapreso per la ricostruzione delle esperienze di valutazione, cerca di
essere il più oggettivo possibile e per questo segue lo stesso schema per tutte
le amministrazioni che hanno voluto partecipare a questo mio lavoro.
4
In particolare, in tutti i casi, dopo un primo contatto con l’amministrazione,
avvenuto tramite posta elettronica o telefonicamente per saggiarne la
disponibilità, ho ricevuto da queste il materiale necessario per avere un’idea del
sistema adottato e per verificare quanto tale sistema fosse interessante per il
mio studio. Dopo questa prima fase, grazie anche al materiale ricevuto, ho
concordato con le amministrazioni, interessate e interessanti, un colloquio che,
sostanzialmente, verteva sui seguenti temi:
- Descrizione caratteristiche dell’ente
- Origine, tempi e modi di attuazione del sistema di valutazione
- Descrizione del processo valutativo
- Criticità e successi
- Progetti di revisione futura
Le informazioni raccolte con questi colloqui e il materiale fornitomi durante
gli stessi o nella fase precedente di contatto, sono alla base della ricostruzione
delle esperienze raccontate nel prosieguo di questo lavoro. In ogni caso, prima
della pubblicazione quanto scritto è stato portato a conoscenza delle rispettive
organizzazioni per correggere eventuali imprecisioni nella trattazione.
Oltre a questo capitolo introduttivo, che ha avuto la funzione di specificare
quelli che erano gli obiettivi del mio studio, il metodo utilizzato e le ragioni di
alcune scelte, il prosieguo del lavoro sarà suddiviso in tre parti: una prima parte
introduttiva, che và ad esaminare le evoluzioni che la P.A. ha intrapreso negli
ultimi anni ed il ruolo che la valutazione ha assunto e può assumere in questo
processo, con particolare riferimento ai sistemi maggiormente diffusi che sono la
valutazione delle posizioni e la valutazione delle prestazioni.
La seconda parte raccoglie tutte le esperienze analizzate strutturate, per
ogni comune, sulla base di quelli che sono i contenuti delle interviste.
La terza parte, infine, sulla base del confronto tra le varie realtà analizzate,
fornisce un quadro complessivo della situazione riguardo alla applicazione dei
sistemi di valutazione dei dirigenti nelle Amministrazioni Pubbliche Locali.
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3. Perché i Comuni?
La scelta di concentrare la mia analisi alle APL e, in particolare, ai comuni
risiede nelle caratteristiche stesse di questi enti e nella loro stretta vicinanza ai
cittadini.
Per Amministrazioni Pubbliche Locali si intendono i comuni, le province e le
loro eventuali forme associative.
I comuni e le province sono le istituzioni politiche ed amministrative più
vicine al cittadino ed il Comune, in particolare, è l’ente attraverso il quale la
persona acquista la sua cittadinanza, la sua appartenenza allo Stato, con tutti i
diritti e i doveri che ne conseguono, come quelli di elettore e contribuente.
La Costituzione sancisce, fra i suoi principi fondamentali, sia la tutela delle
formazioni sociali (art. 2), sia il riconoscimento delle autonomie locali (art. 5), cui
si affianca la previsione del più ampio decentramento amministrativo per i servizi
di competenza statale.
La recente legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001 ha aggiunto,
all’originario tessuto, sostanziali innovazioni in ordine al tema delle autonomie
locali. Il nuovo testo dell’art. 114 Cost. recita infatti che la Repubblica è costituita
dai Comuni, dalle Province, dalle Città Metropolitane, dalle Regioni e dallo
Stato, realizzando una nuova fisionomia dello Stato repubblicano,
profondamente rinnovato nella distribuzione del potere politico e dell’autonoma
determinazione organizzativa e funzionale, con introduzione del fondamentale
principio di equiordinazione delle comunità territoriali e quindi di parità politica e
giuridica. Invece, il nuovo testo dell’art. 118 formula il principio di sussidiarietà,
quale regola attributiva della competenza, che deve essere svolta il più possibile
vicina al cittadino.
Si afferma così un peculiare modello di Stato che non è federale, poiché la
Repubblica resta una ed indivisibile, ma è comunque improntato alla massima
considerazione e spazio per le autonomie locali e sociali.
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La riforma del 2001 non è stata né la prima, né tanto meno sarà l’ultima,
questo a riprova del fatto che, negli ultimi mesi, è stata approvata dal
parlamento una nuova riforma costituzionale che trasforma profondamente
l’organizzazione dello Stato e prevede la cd. “devolution” che darà alle APL
ulteriori spazi di autonomia e di responsabilità.
Prima della riforma del titolo V della costituzione, i principi costituzionali di
riconoscimento e valorizzazione delle autonomie locali, hanno trovato
attuazione, dopo l’iniziale tentativo della legge Scelba (n. 62 del 10.2.1953), solo
con la legge 142/1990. Quest’ultima ha soppiantato quasi totalmente i
precedenti testi unici ed ha fornito agli enti locali nuove regole, strutture e
procedure, proiettandoli in una fase nuova del processo di innovazione delle
pubbliche amministrazioni italiane.
Sono stati introdotti istituti come il diritto di partecipazione e accesso dei
cittadini ai procedimenti amministrativi.
E’ stato ridisegnato il profilo esterno, con consistenti innovazioni strutturali
per gli enti già esistenti (comuni, province, comunità montane, città
metropolitane) e forme associative nuove (le convenzioni, i consorzi, le unioni di
comuni, le fusioni).
Anche la struttura interna è stata innovata, spiccando particolarmente il
riconoscimento dell’autonomia statutaria; l’innovazione, inoltre, ha riguardato
anche i processi deliberativi in un’ottica di semplificazione e snellimento, con
riduzione drastica delle funzioni dell’organo consiliare ed attribuzione di maggiori
poteri agli esecutivi.
Come si può facilmente capire, le APL, sono state oggetto di una rivoluzione
sia interna che esterna, che non poteva non avere conseguenze importanti sulla
loro gestione.
Il riconoscimento di una maggiore autonomia, richiedeva anche maggiori e
migliori capacità gestionali.
Prima di questa evoluzione le APL, sostanzialmente, avevano il ruolo di meri
esecutori delle scelte centrali, senza la possibilità e la volontà di intervenire in
quelle scelte. La loro gestione, di conseguenza, era estremamente semplice, si
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trattava, in sostanza, di una conduzione burocratica, che serviva a giustificare le
spese. Con le riforme intervenute, il loro ruolo è stato decisamente ridisegnato
e, da meri esecutori, le APL si sono trasformate in cogestori, insieme
all’amministrazione centrale, dei servizi pubblici.
Questa profonda evoluzione ha reso queste organizzazioni degli interessanti
laboratori d’innovazione, dai quali si possono attingere idee, visioni ed
esperienze di successo, ma che possono essere utilizzati anche per evitare di
incorrere in errori già commessi.
Questa operazione è facilitata dall’elevato numero di queste amministrazioni
e dalle enormi differenze che esistono tra le stesse. Basti pensare che solo i
comuni, in Italia sono oltre 8000 e, se a questi aggiungiamo le province, le
regioni, le Asl, le circoscrizioni e tutte le altre forme di autonomie locali,
ci troviamo di fronte ad un contenitore di esperienze estremamente vasto e
capillare.
Inoltre, i comuni, sono anche le amministrazioni che detengono la quantità di
capitale umano più rilevante, all’interno del vasto campo della Pubblica
Amministrazione: su una stima di circa 683 mila dipendenti pubblici locali, ben
516 mila sono dipendenti dei comuni e questo, nell’ottica del mio lavoro, è un
aspetto da non sottovalutare, visto che la valutazione va ad agire, appunto, sulle
persone e sulle loro competenze e capacità.
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Sezione 1
“Una panoramica teorica”
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Capitolo 1
“La valutazione dei dirigenti nelle APL”
Sommario
1. Le ragioni del cambiamento della Pubblica Amministrazione; 2. Il Pubblico Impiego
prima delle riforme; 2.1 I primi accenni di riforma; 2.2 Le riforme degli anni ’90; 3. Il sistema di
gestione del personale come motore del cambiamento del Pubblico Impiego; 3.1 La
valutazione dei dirigenti pubblici: il focus d’indagine; 3.2 Il ruolo della valutazione nel processo di cambiamento.
1. Le ragioni del cambiamento della Pubblica Amministrazione
Gli anni ‘90 sono stati caratterizzati da un radicale cambiamento nel modo di
concepire la Pubblica Amministrazione e le sue dinamiche.
Le ragioni sono le più diverse anche se, a prima impressione, si potrebbe
rispondere seccamente che, questa nuova cultura, si sia affermata
semplicemente per previsione di legge, ed in un certo senso è così.
Infatti, difficilmente senza l’intervento del legislatore, ci sarebbe stata questa
spinta verso il cambiamento, ma questo intervento ha rappresentato soltanto la
formalizzazione di un’esigenza oramai sentita da troppi anni e che trovava la
sua giustificazione in tre ordini di motivi:
1. Obsolescenza del sistema previgente.
2. Economici.
3. Storico Culturali.
Fino agli inizi degli anni ‘90, la P.A. italiana, era caratterizzata da strutture
amministrative obsolete rispetto alle esigenze che la moderna società
richiedeva, basti pensare che l’ultima riforma organica risaliva ad oltre un secolo
prima.
Si trattava di un’organizzazione gerarchico-piramidale fortemente
centralizzata e nella quale, quelle che oggi chiamiamo autonomie locali, erano
10
semplicemente delle strutture periferiche il cui unico compito era quello di fare
ciò che i diversi ministeri gli chiedevano di fare.
Questa struttura “verticistica”, gerarchica e formalizzata, con l’espansione
dei settori di intervento dello Stato nella società, ha visto proliferare gli uffici e i
conflitti tra gli stessi, che, a loro volta, hanno ulteriormente alimentato le
lentezze e le inefficienze che già caratterizzavano tale sistema, e soprattutto
rendeva, la consistente rete di controlli, inefficace ad evitare distorsioni ed abusi.
Questa situazione è stata fotografata in maniera eccellente da un famosissimo
saggio di Sabino Cassese
1
, dal titolo I moscerini e gli avvoltoi scritto nel 1992,
durante la fase di gestazione delle riforme del ‘94 : “Una ben strana rete di
protezione, che lascia passare dalle proprie maglie gli avvoltoi mentre
imprigiona schiere di moscerini”.
Tale struttura amministrativa, quindi, nonostante alcune isole di efficienza, si
caratterizzava per un’eccessiva inefficienza accompagnata da costi spropositati.
La P.A. Italiana, parafrasando una storica battuta dello stesso Cassese
“Fornisce servizi da Terzo Mondo ed ha una pressione fiscale da Paesi
Scandinavi”; ciò ovviamente non poteva non avere delle conseguenze e, quindi,
era necessario intraprendere la strada del cambiamento e dell’affermazione di
una nuova cultura della Pubblica Amministrazione.
Tra i fattori economici, sicuramente un peso rilevante lo ha avuto l’enorme
stock di debito pubblico accumulato dal nostro paese.
Basti pensare che, dal 1980 al 1994, tale stock era quasi raddoppiato, passando
dal 57,7% al 124,9% e la situazione era resa, se possibile, ancor più grave, dal
fatto che la spesa pubblica fosse in gran parte fissa e la parte corrente fosse
invece minima; ciò, ovviamente, significava che tale debito era destinato ad
aumentare ulteriormente e quindi a diventare insostenibile.
1
Già Ministro della funzione pubblica del Governo Ciampi, è professore ordinario di Diritto
Amministrativo presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” di Roma.
E’ considerato come uno dei padri delle riforme degli anni ’90.
11
In quegli anni, inoltre, il processo di integrazione europea ha avuto una
notevole evoluzione tradottasi, principalmente, nel Trattato di Maastricht
2
che
imponeva dei limiti allo stock del debito pubblico ed, in particolare, al rapporto
tra debito e PIL che, se non rispettati, determinavano l’esclusione dal processo
d’integrazione.
Considerati tutti questi aspetti, ci rendiamo conto di quanto, riformare la
Pubblica Amministrazione in quegli anni, fosse una necessità dettata più che da
ragioni di utilità, da ragioni puramente economiche.
Ovviamente le ragioni economiche, pur rappresentando un perno importante
per la leva del cambiamento, difficilmente da sole avrebbero potuto innescare
quella spinta verso una nuova concezione della P.A..
Le difficoltà economiche segnalavano un problema ma, solo un’attenta
analisi dei fattori storico-culturali che avevano portato a quei risultati, poteva
fornire una possibile ed utile risposta.
Vari sono i fattori storico-culturali, alcuni di carattere interno, altri di carattere
internazionale, che hanno portato a questa spinta, poi tradotta in provvedimenti
normativi di vasta portata.
Tra questi, sicuramente, un ruolo importante è ricoperto dalla sempre maggiore
integrazione tra nazioni a seguito del rafforzamento delle istituzioni comunitarie.
L’accresciuta “concorrenzialità” tra sistemi amministrativi di diversi paesi
europei, ha messo ancora più impietosamente in luce l’inadeguatezza del
sistema amministrativo italiano. Inadeguatezza accentuata dal miglioramento
delle condizioni sociali del paese, che hanno spostato le preferenze dei
“consumatori-utenti” verso una maggiore attenzione alla qualità della
prestazione.
Sul fronte interno, particolare importanza hanno avuto fenomeni della
cronaca racchiusi nell’espressione “mani pulite”, attraverso i quali è caduto
l’ultimo ostacolo alla presa di coscienza, da parte dei cittadini, del livello di
2
Il trattato di Maastricht fissava alcuni parametri ben precisi che dovevano essere rispettati dai paesi
aspiranti a far parte della UME sin dall’inizio. In particolare quelli a cui mi riferisco sono: il rapporto
deficit/PIL non deve essere superiore al 3%; il rapporto debito pubblico/PIL non deve essere superiore al
60%. Gli altri tre parametri riguardavano essenzialmente i tassi di cambio, di inflazione e d’interesse.
12
inefficienza e di corruttela diffuso nella gran parte del sistema amministrativo
italiano, a tutti i livelli.
D’altro canto, dal settore delle imprese private, arrivavano crescenti critiche
sul ruolo di freno allo sviluppo economico dovuto alle numerosissime
incombenze imposte dal sistema pubblico.
Sempre esigenze di competitività delle aziende e del sistema economico in
genere, facevano apparire maggiormente insostenibile il livello di spesa pubblica
Italiano, soprattutto perché questo non era accompagnato da un adeguato
ritorno in termini di utilità pubblica.
Questo ed altri fattori hanno quindi portato alla consapevolezza, da parte del
legislatore, della necessità di intervenire e riformare il funzionamento del
sistema amministrativo pubblico, nel tentativo, soprattutto, di renderlo più snello
e produttivo nel perseguimento degli obiettivi propri della Pubblica
Amministrazione.
2. Il Pubblico Impiego prima delle riforme
Il regime del Pubblico Impiego in Italia non aveva subito apprezzabili
cambiamenti dall’inizio del secolo
3
, rimanendo caratterizzato da un regime
rigorosamente pubblicistico, alla stregua del quale, il rapporto di impiego con gli
enti pubblici era scandito da atti pubblicistici, senza che alcun rilievo venisse
conferito alla fonte contrattuale.
Vi era, inoltre, una forte accentuazione dei rapporti di gerarchia ed i
dipendenti pubblici venivano ripartiti in gruppi, a ciascuno dei quali
corrispondevano diversi livelli stipendiali.
Il testo unico approvato con D.P.R. n. 3 del 10.1.1957 aveva parzialmente
modificato tale situazione, mediante l’introduzione dell’ordinamento delle
carriere. Gli impiegati pubblici venivano inquadrati in quattro carriere: direttiva, di
concetto, esecutiva ed ausiliaria . Nell’ambito di ciascuna carriera si accedeva
3
R.D.2395 e 2960 del 1923.
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mediante concorso, poi, all’interno delle stesse, erano previste alcune qualifiche
che si raggiungevano mediante le promozioni. La progressione all’interno delle
carriere avveniva quasi esclusivamente sull’anzianità di servizio e solo
marginalmente sulla sorta di un anacronistico sistema di valutazione, che non
teneva conto della reale verifica dell’efficienza lavorativa, ma che si basava,
sostanzialmente, su di un rapporto informativo compilato per ciascun dipendente
e che si concludeva con un giudizio sintetico complessivo: ottimo, distinto,
buono, mediocre, insufficiente. Erano, inoltre, previsti degli strumenti
sanzionatori per gli impiegati che violavano i loro “doveri”: la censura, la
riduzione dello stipendio, la sospensione della qualifica e la destituzione.
In pratica, le promozioni alla qualifica successiva, avvenivano in ogni caso
sulla base dell’anzianità di servizio o, in generale, su di un certo numero di anni
durante i quali si era ricoperto lo stesso ruolo (nella maggior parte dei casi 2 o 3
anni). Queste promozioni erano subordinate, a loro volta, al giudizio
comparativo espresso sull’attività del dipendente durante questi anni (in genere
non inferiore a buono) e sull’assenza di provvedimenti sanzionatori. Questo
sistema, estremamente rigido, portava spesso a promozioni di qualifica che non
erano dettate da reali esigenze dell’ente, ma che trovavano giustificazione
esclusivamente nella prassi di promuovere il dipendente dopo un certo periodo.
Si trattava di un sistema che vedeva la subalternità dell’amministrazione al
vertice politico, in cambio della sicurezza occupazionale che il Pubblico Impiego
garantiva.
2.1 I primi accenni di riforma
Una prima spinta verso il cambiamento è stata data dal D.P.R. 748/1972,
che ha introdotto, per la prima volta, nell’ordinamento amministrativo le
qualifiche dirigenziali distinguendole da quelle direttive della precedente
legislazione.
Questa legge prevedeva tre diverse qualifiche all’interno della stessa carriera
dirigenziale: dirigente generale; dirigente superiore; primo dirigente.
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In sostanza, si trattava della creazione di una nuova “carriera” nell’ordinamento
delle carriere, previsto dal D.P.R. 3 del 1957, e quindi, nella gestione di queste
figure dirigenziali, venivano seguite, sostanzialmente, le stesse procedure
previste per le altre carriere.
Tuttavia, a tali qualifiche erano assegnate specifiche competenze e la capacità
di esprimere atti di rilevanza esterna non passibili di ricorso gerarchico. Inoltre,
ed è forse l’aspetto più importante, queste godevano di un’ampia autonomia in
merito alla direzione di strutture dell’amministrazione, entro i limiti delle linee
dettate dall’organo politico, che al tempo era rappresentato dal Ministro.
Si comincia ad incrinare così la subalternità dal vertice politico e nel contempo,
rinunciando ad un po’ di sicurezza occupazionale, si introduce il concetto di
“responsabilità direzionale”
4
, intesa come responsabilità di risultato, sia in
termini di legittimità dell’azione amministrativa, che di rispetto delle direttive del
Ministro, al quale erano attribuite le funzioni di indirizzo.
Questo tentativo non ebbe molto successo, soprattutto a causa delle resistenze
dei vertici burocratici, che non erano abituati ai concetti di responsabilità e di
risultato.
Le novità introdotte da questo decreto, tuttavia, si riferivano esclusivamente
all’Amministrazione Centrale e non alle amministrazioni periferiche.
Le P.A. Locali rimasero del tutto ignorate per un intero decennio e, solo alla
fine degli anni 70, sulla spinta del famoso Rapporto Giannini
5
, vennero
approvate altre due norme molto importanti: la l 312/1980 e la Legge quadro
n. 93/1983.
La prima, particolarmente importante, in quanto prevedeva l’introduzione
delle qualifiche funzionali, inizialmente otto poi diventate nove, alle quali si
facevano corrispondere diversi gradi di prestazione e di responsabilità e che
andarono a sostituire il vecchio sistema delle carriere.
4
Art 9 D.P.R. 748 del 1970.
5
“Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello stato”, presentato al parlamento nel 1979
dal Ministro della Funzione Pubblica di allora e da cui prende il nome. Questo rapporto metteva alla luce
alcune inadeguatezze del sistema della P.A. italiana e chiedeva al parlamento di impegnarsi ad approvare
una serie di leggi dirette a riformare l’intero sistema amministrativo italiano.
15
In particolare, ciascuna qualifica era articolata in diversi livelli professionali,
definiti in base alla tipologia dell’attività lavorativa. A ciascuna qualifica
corrispondevano poi diversi livelli retributivi, aggiornati in base a scatti periodici
e classi di stipendio. Vengono inoltre aboliti i rapporti informativi annuali e il
giudizio complessivo ed istituito un nuovo strumento sanzionatorio, la nota di
demerito.
Il passaggio di qualifica avveniva mediante concorso pubblico a cui potevano
partecipare i dipendenti con profilo professionale di qualifica immediatamente
inferiore e che non avevano avuto note di demerito negli anni considerati.
Particolarmente interessanti erano, inoltre, gli art 21 e 22 della legge.
Il primo, che introduce i concetti di partecipazione, responsabilità ed apporto
individuale del dipendente, introducendo anche i concetti di efficienza, efficacia
ed economicità dell’azione amministrativa. Il secondo, invece, introduce i
concetti di recupero di produttività e di rendimento.
Come si può capire, si trattava di una rivoluzione davvero incisiva nel modo di
concepire la P.A..
Ancora più importante è la legge quadro n. 93/1983: questa introduce le
figure dirigenziali anche nelle P.A. locali e attribuisce valore normativo alla
contrattazione collettiva. Inoltre, ribadisce il concetto della produttività
prevedendo anche l’istituzione di un fondo per la retribuzione variabile.
Tuttavia, molti degli interventi rimasero sostanzialmente sulla carta e, ad
esempio, l’erogazione degli incentivi previsti, avveniva a pioggia e senza alcuna
razionalità, se non quella di dividere in parti uguali l’intera “torta”.
Con queste due leggi si ha un timido, seppur incisivo, riavvicinamento del
pubblico impiego all’impiego privato, come era stato auspicato dal già citato
Rapporto Giannini, che aveva espresso la necessità di recepire, nell’ambito del
rapporto pubblicistico, alcuni principi di carattere privatistico, particolarmente
quello della contrattualizzazione e della produttività.
Bisogna, tuttavia, attendere l’inizio degli anni ‘90 per assistere ad un
mutamento sostanziale della Pubblica Amministrazione in generale e del
Pubblico Impiego in particolare.