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Capitolo 1
I cambiamenti nel mondo del lavoro. Aspetti psicosociali connessi alle
difficoltà di reinserimento occupazionale
1.1. I cambiamenti del mondo del lavoro
Il primo capitolo sarà dedicato al tema del lavoro nella società occidentale
contemporanea quale fattore di integrazione sociale e dimensione fondamentale per
l’identità di ciascun individuo.
Il lavoro, infatti, non attiene solo ad una dimensione “strumentale”, ma si assume sia
capace di orientare gli atteggiamenti e i valori, i comportamenti e i significati degli
individui, in sfere ad esso non direttamente collegate (Fraccaroli, 1998; Depolo, 1998).
Si partirà dall’analisi dei principali cambiamenti che hanno interessato il mercato del
lavoro negli ultimi decenni entro la società occidentale, per poi esaminare i significati e
la valenza del lavoro nella vita e nell’equilibrio psicofisico delle persone.
La seconda parte del capitolo sarà centrata sull’analisi del contesto normativo europeo e
italiano in relazione alle politiche del lavoro, con particolare riferimento alle politiche
passive e attive destinate ai percettori di ammortizzatori sociali in deroga.
Negli ultimi trent’anni il mondo del lavoro, nella società occidentale industrializzata, è
stato caratterizzato da profondi e importanti mutamenti. Tali cambiamenti non hanno
determinato la perdita della centralità del lavoro nella vita delle persone: il lavoro
costituisce, infatti, il canale principale di accesso alla condizione di cittadino, favorisce
la costruzione dell’identità dell’individuo e il suo inserimento in reti di relazioni
(Spreafico, 2010).
Con il termine “lavoro” si possono indicare l’insieme delle attività formali che
permettono di percepire un reddito alle persone che lo svolgono. In tal senso si può
parlare di lavoro come di un’occupazione, indicando così il lavoro socialmente e
giuridicamente riconosciuto, per il quale si riceve in cambio un corrispettivo in denaro
(Mingione, Pugliese, 2002).
Oltre a rappresentare il principale strumento per ottenere risorse materiali indispensabili
per vivere, si riconosce, tuttavia, al lavoro un ruolo fondamentale nella definizione
dell’identità del soggetto e nella percezione del proprio livello di benessere (Caprara,
Scabini, Steca & Schwartz, 2011).
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Per mercato del lavoro, invece, si può intendere il “luogo” in cui si incontrano la
domanda e l’offerta di lavoro e, a partire dall’epoca post-fordista, ovvero dalla seconda
metà degli anni settanta, si è assistito ad un progressivo aumento della sua complessità,
con l’accrescere di caratteristiche quali la precarietà, la globalizzazione e la flessibilità
(Grimaldi, Ghisleri, 2004).
Il mercato del lavoro può essere considerato un mercato atipico, dove non entrano in
gioco solo i principi di concorrenza o elementi di natura prettamente economica. Se ne
riconosce il carattere di costruzione sociale, dove aspetti economici e non economici si
intrecciano tra loro (Bagnasco 1988; Zucchetti 2005).
Pertanto, la realtà occupazionale attuale nella società occidentale è da considerarsi frutto
non solo dei cambiamenti avvenuti nel corso degli anni, ma è anche legata alle modalità
di adattamento a queste trasformazioni nei diversi contesti locali (Spreafico, 2010).
Nella disamina delle trasformazioni che hanno portato all’assetto occupazionale attuale
e alle problematiche che ne derivano, si partirà dal modello taylor-fordista, sviluppatosi
a partire degli anni trenta, definito dagli economisti come quel periodo di sviluppo
economico che ha visto le società occidentali impegnate a reagire alla crisi economica
mondiale sviluppatasi con il crollo della borsa di Wall Street nel 1929 (Chicchi, 2001).
Il sistema taylor-fordista era fondato sulla divisione di genere del lavoro, su contratti a
tempo pieno e indeterminato nelle grandi industrie manifatturiere e negli apparati
pubblici (Spreafico, 2010). Tale modello si basava sul “male breadwinner”, dove il
compito degli uomini era l’impegno diretto per l’alta produttività, mentre quello delle
donne di sostenere indirettamente l’alta produttività degli uomini fornendo cura, affetto,
tranquillità domestica e la riproduzione di nuove generazioni socializzate a questa stessa
divisione (Mingione, 1997).
Nel periodo fordista prevaleva lo stereotipo del cosiddetto posto fisso, sinonimo di
garanzia, sicurezza ed elevata identità sociale dei lavoratori, che si identificavano in
specifiche appartenenze per grandi categorie e settori. La disoccupazione rappresentava
un evento isolato e di breve periodo (Rutelli, Agus &, Caboni, 2007).
A partire dagli anni settanta una serie di cambiamenti hanno investito la società
occidentale a livello culturale, sociale, economico e produttivo, determinando la crisi
del modello fordista.
Il modello fordista della piena occupazione viene messo in discussione dall’affermarsi
di modelli di organizzazione imprenditoriali basati su una maggiore flessibilità e una
minore vincolatività della disciplina legale. Tale maggiore flessibilità richiesta dalle
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imprese ha causato una maggiore precarietà dei rapporti di lavoro, stante la riduzione
del rapporto tipico a durata indeterminata e a tempo pieno.
Il lavoratore si trova ad essere costantemente chiamato a mettersi in gioco e ad investire
personalmente per accrescere le proprie competenze. Egli non è più inserito nella stessa
azienda, con la stessa occupazione, per tutta la vita, ma può incontrare con facilità, nel
proprio percorso professionale, eventi quali sottoccupazione, mobilità geografica e
professionale, doppio lavoro, turnover delle posizioni lavorative (Grasselli, Montesi,
2010).
Le imprese richiedono sempre maggiore flessibilità e competenze trasversali, così i
rapporti di lavoro si caratterizzano sempre più da dimensioni quali instabilità e
precarietà (Rutelli, Agus & Caboni, 2007). Le aziende, sotto il vincolo delle norme
esistenti, adottano nuove strategie di gestione flessibile delle risorse umane,
modificando posizioni, durata del rapporto, luoghi e retribuzione, rendendo quest’ultima
più variabile e correlata ai risultati professionali ed aziendali (Grasselli, Montesi, 2010).
Nel contesto occupazionale italiano, da un’economia di scala, fino agli anni ottanta
fondata sulle grandi imprese con manodopera stabile, si è assistito al passaggio, dalla
fine degli anni ottanta, ad un’economia della flessibilità, caratterizzata prettamente da
piccole imprese e contratti di lavoro atipici (Rutelli, Agus & Caboni, 2007).
Anche il tessuto imprenditoriale della Sardegna, fino agli anni novanta costituito da
medio-grandi imprese manifatturiere, sviluppatesi a partire dagli anni ‘60, attualmente è
connotato da piccole realtà aziendali che hanno preso il posto delle grandi industrie,
ormai in profonda crisi (Pruna, 2011).
Accanto a questi cambiamenti, si rileva, rispetto all’epoca fordista, una maggiore
partecipazione delle donne nel mercato del lavoro. Se nel periodo fordista, infatti, il
maschio rappresentava la figura del “breadwinner”, ovvero del maschio adulto capo
famiglia il cui reddito era fondamentale per il mantenimento del tenore di vita
dell’intero nucleo familiare, a partire dagli anni settanta, il lavoro extra-domestico
diviene parte integrante anche della vita della donna. La forza lavoro femminile assume
i caratteri di componente stabile del mercato del lavoro (Altieri, 1995) e ciò anche per
l’espansione, dagli anni ottanta, del settore terziario, che in quel periodo ha
rappresentato il principale serbatoio del lavoro femminile (Rutelli, Agus & Caboni,
2007).
L’assetto attuale del mercato del lavoro impone alle imprese un processo di adattamento
alle continue mutevoli richieste dei consumatori, determinando fenomeni quali:
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flessibilità interna ed esterna, la prima legata all’orario di lavoro e alle mansioni
dei lavoratori e la seconda alla possibilità di variare il volume della manodopera
attraverso i licenziamenti e le sospensioni del rapporto di lavoro , ovvero attraverso
l’utilizzo di forme contrattuali atipiche non a tempo indeterminato;
una crescente segmentazione del mercato del lavoro;
un incremento della nati-mortalità delle imprese (Signorelli, 2004).
Ciò è da considerarsi derivato sia da dimensioni strutturali che sociali, connesse, in
particolar modo, ai cambiamenti economico-produttivi delle organizzazioni e alla
necessità di potenziare la competitività nel mercato globale attuale (Rutelli, Agus &
Caboni, 2007).
1.2. Il significato del lavoro nell’equilibrio psicofisico delle persone
I cambiamenti che hanno investito il mercato del lavoro a partire dagli anni ‘70, quali la
globalizzazione dei mercati a livello mondiale, che si riflettono nel contesto locale
europeo, la flessibilità dei processi produttivi, le nuove forme contrattuali, hanno
determinato una maggiore facilità nel perdere il posto di lavoro o nell’incrementare
situazioni di sospensione dall’occupazione (Spreafico, 2010) e, nel contesto italiano,
fenomeni sempre più frequenti di ricorso a strumenti di sostegno al reddito quali la
cassa integrazione e mobilità.
Accanto all’incremento della disoccupazione nel mercato del lavoro europeo, si assiste,
inoltre, all’aumento di situazioni di assenza di occupazione per prolungati periodi di
tempo e ciò comporta una maggiore difficoltà a rientrare nel mercato del lavoro, che
sembra essere direttamente proporzionale al perdurare del periodo di disoccupazione o
sospensione dal lavoro, come nel caso della cassa integrazione. Il persistere di stati di
inattività occupazionale incide sul soggetto non solo a livello materiale ed economico
ma anche in altre dimensioni psicosociali, quali fiducia, autostima, motivazione ed
integrazione sociale (Depolo, 1998).
Il lavoro è un’attività complessa, che si attua in un contesto di regole, vincoli, pressioni
culturali. Oltre a costituire lo strumento principale per ottenere le risorse materiali
indispensabili per vivere, rappresenta un valore centrale nella cultura occidentale
attuale.
Il significato che un individuo attribuisce al lavoro può dipendere da una serie di fattori
che interagiscono tra loro, tra i quali motivazioni, storia individuale, gruppi sociali di
appartenenza e concrete condizioni lavorative.
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I cambiamenti che si verificano nel corso della vita, come quello relativo alla fuoriuscita
o sospensione dall’attività lavorativa, richiedono al soggetto una continua revisione dei
propri sistemi di significato (Depolo, 1998).
Jahoda (1982), partendo dall’analisi degli effetti derivanti dalla mancanza di
occupazione, ha individuato nelle funzioni psicologiche del lavoro la fonte principale
dei significati di tale attività per le persone.
Essa propone, sulla base dei suoi studi, due funzioni attribuibili al lavoro: una funzione
esplicita, che attiene all’aspetto economico e una funzione latente, che suddivide in
cinque fattori (Boccato, Serra, 2010):
Strutturazione del tempo quotidiano: il lavoro garantisce una struttura temporale
alla quale ancorare la propria vita quotidiana;
Interazioni sociali: il lavoro rappresenta un sistema sociale dove persone e
gruppi interagiscono reciprocamente. Gli stili di vita, le opinioni e le rappresentazioni
della realtà elaborate dalle persone e scambiate reciprocamente, diventano patrimonio
comune che si traduce in norme e regole condivise e consolidate;
Definizione del proprio status sociale e dell’identità personale: l’attività
lavorativa contribuisce a definire la collocazione del soggetto nella struttura sociale in
cui vive. L’esperienza lavorativa può procurare soddisfazione per i risultati raggiunti,
può fornire riscontri positivi sui propri progetti di vita, può rappresentare un punto di
riferimento per riconoscersi, arricchire e confermare il proprio modo di concepire se
stessi nella concreta situazione che si sta vivendo;
Rinforzo della possibilità di svolgere attività: il lavoro richiede all’individuo di
attivare il proprio bagaglio di abilità cognitive e comportamentali;
Connessione tra mete individuali e scopi sociali: il soggetto si confronta con
l’esistenza di scopi che trascendono quelli individuali e richiedono l’attivazione di
comportamenti di tipo cooperativo (Caprara, Scabini, Steca & Schwartz, 2011).
Il lavoro non risponde solo all’esigenza di guadagno, attraverso il lavoro è possibile
soddisfare anche bisogni non strettamente economici (Carelli, 2002).
Molti gli studi che hanno individuato il legame tra lavoro e motivazione. Secondo
Abraham Maslow (1954), uno dei maggiori studiosi dei bisogni e delle motivazioni
umane, la motivazione rappresenta la spinta prima di ogni azione umana ed ogni
individuo si attiva per la soddisfazione dei bisogni fondamentali (Bassi, Tagliafico,
2010).
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La motivazione può essere definita come un processo attraverso il quale l’individuo
canalizza l’energia verso il raggiungimento di una meta-incentivo per il
soddisfacimento di determinati bisogni. Il bisogno può essere inteso come una carenza
che genera tensione, per la riduzione della quale il soggetto pone in essere il
comportamento ritenuto più adatto (Fontana, 1993).
Secondo Maslow, l’uomo, una volta acquisiti gli strumenti per sopravvivere fisicamente
e socialmente, necessita di relazioni sociali, di essere accettato dagli altri e di sentirsi
parte del gruppo con il quale condivide tempi e spazi della propria vita. Dal rapporto
con gli altri emerge l’esigenza di differenziarsi da loro, di definire la propria
individualità e di farla rispettare.
Maslow, nella sua “Teoria della gerarchia dei bisogni”, individua una serie di bisogni
organizzati in scala gerarchica. L’ultimo livello della piramide di Maslow (1954) è il
bisogno di autorealizzazione, che comprende la stima e il successo. Ciascuno, cioè,
aspira ad esprimersi secondo le proprie caratteristiche e manifesta l’esigenza di "attuare
le proprie migliori potenzialità" (Maslow, 1954).
Frederik Herzberg e coll. (1959), occupandosi specificamente della motivazione al
lavoro, individuano un andamento parallelo a quello di Maslow. La “Teoria dei due
fattori” di Herzberg distingue i bisogni dei lavoratori secondo due categorie: i bisogni
relativi al contesto, “fattori igienici” e quelli relativi al contenuto di lavoro, “fattori
motivanti”. I “fattori igienici” comprendono le condizioni fisiche e psicologiche del
lavoro, la retribuzione, la sicurezza, le politiche aziendali. I “fattori motivanti”
riguardano la natura intrinseca del lavoro, il conseguimento dei risultati, la
responsabilità, lo status e il riconoscimento ottenuto. La loro presenza favorisce la
motivazione al lavoro e soddisfa i bisogni di ordine superiore quali autostima e
autorealizzazione.
Secondo Herzberg e coll. (1959), il conseguimento e il riconoscimento dei risultati, la
crescita professionale, l’assunzione di responsabilità e soprattutto la possibilità di
esprimersi nel lavoro, rappresentano i principali fattori di gratificazione del soggetto
“organizzativo” (Herzberg, Mausner & Snyderman, 2009).
L’uomo, nel lavoro, porta tutti i suoi bisogni di persona. Il lavoro favorisce una relativa
sicurezza economica, permette al soggetto di sentirsi parte della società nella quale è
inserito, fornisce visibilità e potere sociali, conferendogli uno status socialmente
riconosciuto e apprezzato. Gli consente, inoltre, di esprimersi in quello che fa (Fattorini,
Gilioli, 2002).
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Una ricerca (Farnese, 2007) rivolta a soggetti tra i 20 e 65 anni tesa ad esplorare i
significati che le persone attribuiscono al lavoro, ha messo in luce che
complessivamente, pensando al “lavoro”, i soggetti lo definiscono in primo luogo come
un impiego finalizzato a percepire un compenso e, secondariamente, come un’attività
che consente di generare un sentimento di autorealizzazione, seguono poi le idee che
aggiunga valore a qualcosa, che faccia parte dei propri doveri e che sia un contributo per
la società. Effettuata una prima distinzione di base tra lavoro come prestazione
professionale remunerata ed altre forme di attività volontarie, le concezioni
prevalentemente proposte dai soggetti ruotano attorno ad una idea “generativa” del
lavoro che procura soddisfazione e gratificazione e rende più ricca la propria vita
(Grimaldi, 2007).
Nel corso degli anni ‘80 e dei primi anni ‘90, un gruppo di psicologi di nazioni diverse
ha condotto un progetto di ricerca, denominato WIS, Work Importance Study, volto ad
indagare le credenze e gli atteggiamenti relativi al lavoro, sia all’interno della singola
nazione, sia tra i sistemi valoriali delle varie nazioni partecipanti al progetto
(Mancinelli, 2003). In Italia sono stati coinvolti 1523 soggetti (Bellotto, 1997).
Per indagare il significato che le persone attribuiscono al lavoro sono state prese in
considerazione due dimensioni: il significato di “valore del lavoro” e il “coinvolgimento
nel lavoro”. I valori sono definiti come l’insieme di credenze e atteggiamenti su cosa sia
preferibile e opportuno perseguire nella vita, rappresentano criteri che guidano e
orientano il comportamento delle persone in momenti di transizione o crisi. I “valori
lavorativi” rappresentano gli scopi generali e relativamente stabili che le persone
cercano di raggiungere mediante il lavoro (quali prestigio, remunerazione economica,
riconoscimento sociale). Per “coinvolgimento nel lavoro”, invece, si intende sia il posto
che l’individuo assegna al lavoro nel corso della sua esistenza sia una componente
dell’immagine di sé, data dal rapporto tra prestazione e autostima (Bellotto, 1997).
Tale progetto di ricerca ha messo in luce come, nel contesto italiano, il valore lavorativo
al quale viene attribuita l’importanza maggiore sia lo sviluppo personale, elemento che
pone in primo piano la funzione di potenziale investimento soggettivo che
l’occupazione assume per le persone. Il lavoro non rappresenta solo il luogo necessario
per il mantenimento economico, ma anche uno spazio di prospettiva, una risorsa
percepita come dispositivo di sviluppo e crescita personale, professionale e sociale
(Mancinelli, 2003).