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integrante ed emblema di una tradizione culturale, artigianale, gastronomica, univocamente
associata a quel sapore, che rappresentano la strada opportuna, se non obbligata, per la
sopravvivenza di alcune economie.
E tra i diversi metodi di differenziazione la tipicità rappresenta sicuramente quello più
caratterizzante, per la forte espressione di un legame tra il prodotto ed il suo territorio. Che si
tratti della provenienza delle materie prime, o della localizzazione delle diverse fasi di
lavorazione, il prodotto esprimerà un maggior grado di tipicità, quanto più contenga in sé un
rimando immediato al contesto ambientale di origine.
Il nostro Paese detiene il primato europeo delle certificazioni riconosciute, 151 in totale,
seguito quasi a ruota dalla Francia (145) e dai più distaccati Portogallo (93), Spagna (91) e
Grecia (84).
Il paniere delle certificazioni italiane si compone per la maggioranza di prodotti ortofrutticoli
(26%), dagli oli d’oliva (23%) e dai formaggi (22%). Seguono le carni, fresche o lavorate, e il
dolciario.
In particolare, i formaggi rappresentano, insieme ai salumi, il comparto che attiva la quasi
totalità della produzione agricola, e costituiscono i prodotti maggiormente export oriented (il
20% del totale delle certificazioni, pari alla metà dei formaggi realizzati in Italia).
Il comparto italiano del tipico, nel suo complesso, fattura in un anno circa 9 miliardi di euro
dei 105 complessivamente prodotti dall’industria agroalimentare, ciò vuol dire che ne
costituisce quasi il 9%. Un peso apparentemente irrilevante, che cambia di valutazione se
dall’ottica nazionale si passa a considerare l’impatto che le produzioni differenziate hanno
sull’economia locale delle aree di pertinenza.
La regione italiana più prolifica da questo punto di vista è l’Emilia Romagna, che ha ottenuto
25 certificazioni, un patrimonio custodito e promosso dall’operosità dei Consorzi di Tutela
istituiti tra produttori, che con mentalità vincente e spirito di cooperazione costituiscono un
sistema che realizza il 68% della Produzione Lorda Vendibile DOP/IGP nazionale ed il 57%
dell’export, a dimostrazione della portata della capacità di attivazione socioeconomica
realizzata dai prodotti a marchio sui sistemi locali, fino a diventarne settore trainante.
La maggior parte di questi prodotti, infatti, si concentra in parti di territorio talmente
circoscritte, da coincidere con aree sub-regionali o addirittura provinciali: Parmigiano
Reggiano, Prosciutto di Parma, Grana Padano, insieme al Prosciutto di San Daniele (in Friuli)
costituiscono il 65% del valore al consumo nazionale di questi tipi di prodotti.
Gli altri ambiti territoriali con maggiore possibilità di produzione certificata sono il Veneto,
con 21 certificazioni, la Lombardia con 20, e la Toscana con 19.
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La regione Campania è capofila nel meridione. Se si esclude la Sicilia, infatti, le 12
denominazioni qui riconosciute rappresentano la più grande ricchezza di prodotti a marchio
registrata nelle regioni del Sud. A tutto questo però, non corrispondono adeguate quantità
certificate di prodotto. Quel che è accaduto è che, dopo una fase di affannosa rincorsa alla
registrazione comunitaria, non si è provveduto a sensibilizzare i produttori potenzialmente
interessati né a strutturare organismi di tipo associativo in grado di attuare strategie di
valorizzazione dei prodotti.
Nel Sannio si realizzano in totale 8 prodotti a marchio o in corso di registrazione, di cui ben
sei sono legati alla tradizione agricola specifica della provincia. Gli altri due ricadono invece
anche in altri territori regionali.
Si tratta di due oli extravergini d’oliva DOP, “Sannio Caudino Telesino” e “Colline
Beneventane”, la Melannurca Campana, nelle due varianti di “Annurca” e “Rossa del Sud”, il
Caciocavallo Silano, il Pecorino di Laticauda Sannita, il Vitellone Bianco dell’Appennino
Centrale, il Prosciutto di Pietraroja, il Torrone di Benevento e il Torroncino di San Marco dei
Cavoti.
Sono prodotti con un patrimonio storico talvolta secolare, legati a tradizioni risalenti in alcuni
casi alla metà dello scorso millennio, colture e tradizioni nei quali le popolazioni dei territori
corrispondenti all’attuale Sannio identificano la propria identità e provenienza.
Il Panel Test per l’olio, le analisi chimiche della Melannurca, l’inserimento dei derivati della
Laticauda nei menu delle diete salutiste, rivelano e in qualche modo testimoniano una qualità
tutta da scoprire, che per ora rimane solo al buon senso, e al buon gusto, di amatori ed
intenditori. Ma intorno a queste tipicità dall’indubbio valore intrinseco, fa fatica a nascere un
tessuto produttivo e imprenditoriale capace di collocarsi sulla scia dell’evoluzione dei
mercati.
Basti pensare che, in generale, fatta eccezione per un grande pastificio ed un torronificio che
ormai di Benevento ricorda solo le radici storiche, l’industria agroalimentare sannita
rappresenta il fanalino di coda della regione con il 7% delle imprese regionali, percentuale
che raggiunge un ristretto 2,2% nel settore dei formaggi, che a livello nazionale ha registrato
invece le performance più entusiasmanti.
Al comparto del tipico, dunque, non si è mai voluto guardare nel Sannio con realistica
possibilità di sviluppo, se non di recente, anche a livello istituzionale. Ciò comunque
condizionerà le dinamiche evolutive di un sistema che sta facendo in qualche modo “clamore”
per l’importanza che il comparto ha assunto a livello nazionale ormai da tempo, e che solo
negli ultimi tempi sta riscoprendo le sue potenzialità nella provincia di Benevento.
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Significativi a tal proposito sono i meccanismi che si stanno creando intorno al dolciario,
all’oleario e ad una particolare filiera dell’ortofrutta, quella della Melannurca, laddove alcuni
imprenditori, primi sostenitori della qualità dei prodotti, stanno riuscendo a creare un sistema
di cooperazione per lo sfruttamento economico dei marchi, che rappresentano non un punto
d’arrivo, bensì l’inizio di una strategia di promozione.
Uno dei fattori che scoraggiano il decollo del tipico nel Sannio è l’elevata struttura dei costi
legati alla rigidità dei processi stabiliti nei disciplinari di produzione, ma non potrebbe essere
altrimenti. Quello dei prodotti tipici è un mercato di nicchia ad elevato contenuto di valore
aggiunto, caratterizzato da costi e margini superiori a quelli delle commodities, che necessita
di un approccio gestionale e di mezzi adeguati. Né tanto meno si può pensare ad una
produzione a larga scala, essendo la delimitazione areale e quantitativa la vera garanzia di
originalità e genuinità dei prodotti a denominazione.
Le attitudini manageriali degli agroimprenditori sanniti risultano ancora eccessivamente
orientate alla produzione, con scarsa attenzione a quelle logiche di mercato che costituiscono
l’antitesi dell’autoconsumo e della sussistenza. Spesso si riscontra mancanza di cooperazione
all’interno del tessuto produttivo, e tutta una serie di atteggiamenti poco costruttivi per il
decollo del sistema, a partire dal livello di performance aziendale.
Le politiche istituzionali di intervento forniscono numerosi strumenti di sostegno al comparto,
tra i quali quelli collocati nell’ambito della Programmazione di Iniziativa Comunitaria Leader,
giunta ormai alla sua terza fase, alla quale si affianca un altro fondamentale strumento, il
Piano Operativo della Regione Campania, che ha dato un impulso fondamentale negli scorsi
anni allo sviluppo dell’economia agricola regionale, con interventi di pianificazione ad ampio
raggio suddivisi in specifiche misure.
Nel Sannio è operativo dal 2003 anche un Programma di Riqualificazione Urbana e Sviluppo
Sostenibile del Territorio, che nell’allegato n. 16 prevede l’attuazione di uno specifico
Progetto di implementazione delle filiere agroalimentari, studiato per il decollo del settore
nella provincia di Benevento. L’approccio innovativo utilizzato costituisce il fondamento del
programma: l’individuazione delle filiere, un lavoro che nel Sannio andava ancora fatto, e
l’integrazione delle fasi di lavorazione all’interno delle stesse, partendo proprio dai passaggi
fondamentali della formazione degli operatori, dello studio dei mercati di riferimento e del
miglioramento della funzione logistica, finanziaria e di marketing di ciascuna impresa
aderente.
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CAPITOLO I
Il sistema agroalimentare italiano. Stato dell’arte e dinamiche
evolutive.
1.1 Caratteristiche strutturali del sistema agroalimentare italiano
Secondo l’ultimo rapporto INEA (Istituto Nazionale Economia Agraria) la dimensione
economica del settore agroalimentare italiano si aggira intorno ai 208 miliardi di Euro,
corrispondenti al 15,4% del Pil del nostro Paese. Questo settore costituisce il secondo
elemento di traino dell’economia nazionale, subito dopo il metalmeccanico (1).
Questa sintesi, stimata in termini di valore aggiunto ai prezzi di base, tiene conto delle
principali componenti del settore, delle quali la più produttiva si è rivelata in maniera evidente
la commercializzazione e distribuzione, che ha raggiunto i 70,5 miliardi con il 33,9% del
valore aggiunto complessivamente prodotto dal settore (Grafico n. 1).
Le altre componenti sono, in ordine decrescente:
Servizi di ristorazione (VA 32.120 mld; 15,5%).
Agricoltura (VA 31.894 mld; 15,3%).
Industria alimentare (VA 27.190 mld; 13,1%).
Investimenti agroindustriali (spesa di miglioramento delle infrastrutture e dei macchinari
agricoli, investimenti per la trasformazione e commercializzazione dei prodotti,
agroambiente ecc., VA 17.260; 8,3%).
Consumi intermedi agricoli (materie prime, fonti energetiche, manutenzione dei beni
mobili e immobili e cure per il bestiame, spese di trasformazione, studi di mercato e
servizi di ricerca. A queste voci vanno aggiunti i reimpieghi, che comprendono sia i
prodotti riutilizzati in azienda, che le vendite tra le aziende agricole, VA 16.410 mld;
7,9%).
Imposte dirette settori agroindustriali (VA 16.410 mld; 5,6%).
Contributi erogati da enti pubblici per il sostegno alla produzione agricola (VA 862 mld;
0,6%).