4
lontano dal “punto di partenza”. A prescindere da tutto ciò che c’è dietro il loro
viaggio, persone che ci guardano chiedendo cosa debbano fare ora, chi debbano
essere per vivere ed essere accettati. E, d’altro canto (o per usare un’espressione ben
più ostile, dall’altra parte della barricata) noi li guardiamo senza capire cosa
cerchino, al di là di un miglioramento delle condizioni materiali, e come intendano
convivere con noi.
In questo contesto di profonde differenze ci muoviamo a tentoni, cercando di
ignorarle o negarle in modo semplicistico, ma comunque differendo la soluzione del
conflitto ad un livello micro, alla contingenza locale, senza un approccio di più
ampio respiro (fatte salve quelle leggi, nazionali ed europee, che regolano l’accesso
al Paese), che indichi una strada coerentemente con un disegno di matrice che, forse
grossolanamente, potremmo definire cosmopolita.
Eppure, a livello europeo, così come a quello mondiale, la domanda dell’integrazione
è già stata formulata (e tra i questuanti sono incluse masse di italiani), e le sono state
date risposte di relativa efficacia. Certo non si è trattato di una risposta scevra da
incoscienza e difformità, non svincolata da errori e ripensamenti, sia a livello teorico
che pratico, ma almeno è stata indicata una direzione, che l’Italia stenta a
riconoscere, nonostante il vantaggio di osservare i modelli proposti, i fallimenti, le
correzioni approntate.
Volgendo lo sguardo al passato si può solo constatare il fallimento dei modelli che
prevedevano la mera omologazione, prospettando la creazione di una super cultura
risultante dalla fusione di tutto ciò che si trovava sul territorio; o che annullavano, se
non negavano radicalmente, qualsiasi differenza culturale.
Relativamente al secondo caso si può proporre la situazione della Francia, dove
reminescenze di sentimenti giacobini impongono alla democrazia di considerare tutti
uguali, appiattendo qualsiasi differenza etnica
1
. Sono sufficienti le immagini degli
scontri nelle periferie di Parigi a propalare il fallimento di questo approccio.
Di più vasto interesse, sia per le dimensioni del fenomeno immigrazione che per il
parossismo di strumenti quali la televisione e il marketing (considerati in questa
esposizione come elementi centrali e convergenti nel fornire gli schemi necessari alla
1
Tréguer J.P. e Segati J.M., I nuovi marketing. Marketing, generazionale, marketing gay, marketing
etnico, Il Sole 24 Ore, Milano, 2004, pp. 219 - 220
5
ricostruzione sociale dell’immagine dell’immigrato), risulta l’esemplificazione del
primo modello: quello statunitense del melting pot.
L’ideale del melting pot, a cui fece cenno per la prima volta Gordon nel 1964, si
riferiva letteralmente al crogiolo: alla fusione di metalli diversi che formano una
lega. La metafora era considerata calzante nel definire la società statunitense,
storicamente fondata da immigrati (con tutta la comprensione disponibile, purtroppo,
non si possono certamente attribuire le origini degli Stati Uniti alla cultura indiana
tribale, nonostante fosse quella autoctona) e sviluppatasi attraverso l’innesto di nuove
migrazioni, delle origini più disparate. Ma la persistenza (anzi, potremmo dire
l’accentuarsi) dei forti connotati culturali propri di diversi “ceppi” suggerisce
l’inadeguatezza di questa visione così uniformante.
Nella società americana si fondono individualismo e appartenenza culturale in sintesi
originali, le quali sono determinate dal vissuto personale e collettivo, dalle capacità
di adattamento e di rielaborazione. Queste sintesi, nate dal culturale, nel culturale si
manifestano, non solo nelle sue forme più “alte”, ma anche in quelle più pop,
probabilmente in queste più sincere, ossia più legate alla gente che le crea. Una
considerazione (probabilmente legata ad una percezione estremamente personale e
poco condivisibile) che slega gli artisti (per una loro pretesa di innovazione e
continua sfida degli schemi convenzionali) dalla gente comune, base più conformista
della società: un ideale di popolo, che, ben lungi dall’essere piatto e grigio, fa della
quotidianità il suo palcoscenico, in cui confluiscono aspettative e mondi
immaginativi personali e pressioni sociali di varia natura, anche se preponderante
può essere considerata, soprattutto ai fini della trattazione, quella mediatica.
In quali ambiti si esprime allora il pop? Semplificando si può limitare la prospettiva
al consumo e alla fruizione dei media, senza che il quadro ne risulti eccessivamente
falsato.
Tenendo presente che consideriamo due settori in cui gli USA si mostrano campioni,
possiamo applicarli alla società multiculturale che si è andata formando nel corso dei
secoli in Nord America.
Da veri pionieri gli Stati Uniti hanno saputo rendere pervasivo il sistema mediatico e
tremendamente raffinate le tecniche di marketing, giungendo ovviamente ad
applicare le seconde al primo. Che la si voglia considerare una conseguenza
6
predeterminata o il banale confluire in un’unica soluzione di fenomeni diversi, la
scoperta del bacino di consumo prodotto dal marketing etnico ha determinato la
nascita di televisioni e programmi legati al fattore razziale. Il considerare questo dato
di fatto come forma sublimata di discriminazione o a – etica strategia di vendita è
frutto di opinioni strettamente personali.
Risulta più proficuo analizzare come media e marketing abbiano contribuito a
forgiare una società, influendo triplicemente sotto il profilo culturale nella sua
determinazione: sia indicando soluzioni in prospettiva integrante, sia riportando
quello che emergeva dalla vita quotidiana dei “ghetti” (ma potremmo parlare,
dandogli anche una connotazione meno forte e negativa, di “aree naturali”), sia
“vendendo” un’immagine che corrispondesse alla visione di sé di un più che
consistente gruppo sociale, che non si riconosceva in quello che vedeva nella
televisione WASP (acronimo per White Anglo – Saxon Protestant) o che a questa
aveva qualcosa da aggiungere perché potesse essere più rappresentativa.
Allargando l’orizzonte e rivolgendoci al di là delle frontiere degli Stati Uniti,
possiamo trattare in modo sistematico gli strumenti concettuali necessari a
comprendere queste tre vie di interferenza nel sociale, distinguendo tre tematiche:
1) le teorie sulla comunicazione di massa;
2) il problema delle differenze culturali e della comunicazione interculturale;
3) il marketing etnico (da considerarsi come collante tra i primi due punti).
Una sintesi di questi tre snodi concettuali può fornirci una chiave di lettura che leghi
il mondo dei consumi a quello dei media, da considerarsi esso stesso come un ambito
di legittima fruizione consumistica e non solo come produttore monolitico di
ideologia, senza però giungere a negare questa prospettiva, ma accompagnandola al
problema culturale e a quello dei flussi migrativi.
Considerando obsoleto il concetto di melting pot, e le sue immediate conseguenze,
quale un’omologazione indiscriminata di tutte le sfumature attraverso la fusione,
rimangono da valutare i quesiti propri di una prospettiva secondo la quale le
differenze possano sopravvivere, nonostante una componente della popolazione
residente in una nazione si senta, per motivi storici e culturali, a casa, considerando,
specularmente, l’altra parte come ospite, e concedendole, semmai, la sola alternativa
di adeguarsi alle regole.
7
È necessario capire quanto il rispetto per le peculiarità etniche, a livello di marketing,
possa essere espresso nel settore più materiale dei consumi, demandando al consumo
culturale, e alle pratiche di marketing che lo sostengono, un certo grado di
coercizione.
1.1 La comunicazione di massa nella teoria sociologica
Per una spiegazione chiara e univoca di comunicazione di massa si deve fare
riferimento diretto alle moderne tecnologie della comunicazione, le quali se da un
lato hanno permesso lo sviluppo di una rete a nodi (in cui ogni utente può,
discrezionalmente, mettersi in contatto con qualsiasi altro utente inserito nella rete),
dall’altro hanno decretato la nascita di una potente rete a centri, nella quale esiste un
centro che si rivolge contemporaneamente a molti. Quest’ultima configura ciò che
noi chiamiamo comunemente comunicazione di massa
2
.
Anche se si possono rintracciare forme embrionali di questa forma comunicativa
nella rivoluzione chirografica (IV millennio a.C. circa) e in quella gutemberghiana
(1448, invenzione della scrittura a caratteri mobili), il vero boom è legato alla
rivoluzione elettronica e più precisamente alla creazione e diffusione di cinema,
radio e televisione.
1.1.2 I paradigmi classici
Nonostante la lunga, difficile e certamente non lineare, gestazione della
comunicazione di massa, un primo nucleo di teorie organiche sull’argomento è da
addebitare alle critiche relative alla società di massa, che a partire dagli anni ’30, fino
agli anni ’60, dominarono la riflessione sociologica in chiave fortemente oppositiva.
L’imporsi a livello quasi globale di una schiacciante ideologia capitalista e del piano
razionale della ragione
3
, i totalitarismi del XX secolo e il diffondersi del sistema
consumistico, corollario del capitalismo, resero indispensabile una considerazione
critica di quegli elementi che stavano profondamente incidendo sul sé, sui
comportamenti e sulle relazioni degli individui; in nome di una lotta contro uno
strumento occulto dal potenziale fino ad allora ignoto.
2
Gili G., I percorsi della ricerca sociologica sulle comunicazioni di massa, in Bonazzi F. (a cura di),
Itinerari di sociologia della comunicazione, Franco Angeli, Milano, 1998, p. 113
3
Di Nallo E., Razionalità, simulazione e consumo, in Sociologia della comunicazione, 6, 1984
8
Piuttosto che riportare le elaborazioni dei singoli studiosi che hanno contribuito al
successo di questo approccio – il quale non si configurò come una presa di posizione
nei confronti dei media, ma come un’analisi della società contemporanea, in cui il
ruolo dei mass media risultò fondamentale nel modificare i rapporti sociali – è utile
ricapitolare i punti fondamentali che accomunarono le opinioni degli autori che a
questa tradizione di pensiero si associano:
1) la dominante volontà della mentalità capitalistica di ridurre tutto al mero
calcolo razionale
4
e l’accentramento di potere da parte delle istituzioni
centrali della società e delle grandi organizzazioni;
2) il potere proprio dei mezzi di comunicazione, considerati essi stessi come
un’istituzione, è concentrato nelle mani di èlites, capaci dunque di influenzare
l’opinione pubblica;
3) le nuove esigenze di individualismo, le modificazioni del sé, portato della
nuova vita metropolitana, rendono il tessuto sociale meno coeso, lasciando i
soggetti in balia del potere centrale, privi di forti legami di gruppo;
4) i mass media operano in un contesto in cui gli individui sono profondamente
vulnerabili alla loro influenza e, tramite questo potere, contribuiscono
ulteriormente a sgretolare il tessuto sociale
5
.
Affine a questa visione della società, e in contrapposizione con la ricerca
amministrativa, risulta essere il paradigma critico, proprio della Scuola di
Francoforte, che svolse una riflessione di forte impatto negativo sul sistema dei mass
media all’interno del più esteso ambito della società capitalista. Sinteticamente, gli
esponenti di questa scuola sottolinearono l’analogia tra meccanismi e logiche propri
dell’industria capitalistica e quelli che presiedono alla produzione e alla distribuzione
della cultura, considerando il parallelo sviluppo dei differenti settori di questo tipo di
industria (in cui è compresa l’industria culturale, la quale, attraverso l’apologia della
società e la somministrazione di divertimento elide gli aspetti più contraddittori della
società stessa, svolgendo un ruolo ideologico di grande rilievo), in cui le regole di
concorrenza contribuiscono alla formazione di oligopoli. L’asservimento
4
Moranti E., La disputa sul metodo (Methodenstreit) della seconda metà del Novecento: la “Teoria
Critica” della scuola di Francoforte e il “Falsificazionismo” di K. Popper, in Monti E. (a cura di),
Sentieri del conoscere. Dibattiti metodologici in sociologia, Franco Angeli, Milano, 1997, p. 216
5
Gili G., ibidem, p. 114
9
dell’industria culturale alla mentalità capitalistica si esprime, in ultima istanza,
nell’affermazione di un mondo unidimensionale in cui l’amministrazione della vita
da parte dei poteri forti si estende alla sfera del consumo e della cultura
6
.
La necessità di non arroccarsi in posizioni di critica incondizionata, l’evolversi dei
media verso prospettive inattese, che si riassumono nell’avvento dell’era informatica,
ma anche la maggiore consapevolezza dei consumatori e il formarsi di nuove forme
di socialità, o il riemergere delle vecchie, hanno suggerito ai sociologi nuove teorie
maggiormente rispondenti alle mutate condizioni.
Gli studi sui media si caratterizzano per due filoni di ricerca, entrambi sviluppatisi
nell’ambito della communication research (quindi a partire dagli anni ’30) e nella
prospettiva della ricezione dei prodotti mediali: la tipologizzazione del pubblico e
l’influenza dei media sui destinatari. Le due elaborazioni che maggiormente
polarizzarono le opinioni degli studiosi in proposito furono la teoria ipodermica (la
quale enfatizzava la capacità dei media nel manipolare gli individui, considerati
come avulsi da un più ampio sistema relazionale)
7
e quelle che si concentrano
intorno al concetto di fattori intermediari (che, invece, rivalutano influenze sociali e
psicologiche nel consumo dei media, frapponendo tra il potere assoluto dei media e
gli individui il processo di selettività e l’“influenza personale” esercitata da canali
sociali complessi)
8
.
Un ruolo di mediazione tra questi due poli opposti è stato svolto dal lavoro di
Lasswell, che introdusse la tecnica della content analysis (analisi dei contenuti palesi
dei messaggi, funzionale allo studio dei messaggi, con particolare riferimento a quelli
politici) e un modello che definisce la comunicazione a partire dalla possibilità di
rispondere a cinque quesiti fondamentali
9
. Il contributo di Lasswell si estese anche in
chiave struttural – funzionalista dal momento che indicò tre funzioni del sistema
mediatico: la sorveglianza dell’ambiente, la correlazione delle varie parti della
6
Gili G., ivi, p. 122
7
Riva C., Spazi di comunicazione e identità immigrata, Franco Angeli, Milano, 2005, pp. 73,74
8
Gili G., ibidem, p. 114
9
“ Chi dice? Che cosa? Attraverso quale canale? A chi? Con quale effetto?”. Una formulazione dei
principali quesiti comunicativi che prefigura la comunicazione come asimmetrica, determinata da uno
scopo a cui deve seguire di conseguenza un effetto, e isola i ruoli del comunicatore e del destinatario,
avulsi dal contesto sociale e culturale, lasciando insoluta la questione del feedback, assimilabile alla
nozione di “effetto”. Sorice M., Le comunicazioni di massa. Storia, teorie, tecniche, Editori Riuniti,
Roma, 2000, pp. 25, 26
10
società e la trasmissione del bagaglio culturale
10
. Altresì Lazarsfeld e Merton
proposero un elenco di funzioni dei mezzi di comunicazione, sempre articolato su tre
punti: conferimento di status (i media occupandosi di determinati agenti sociali li
legittimano come “importanti”), rafforzamento delle norme sociali (attraverso la
stigmatizzazione dei valori condivisi a livello sociale si promuovono questi stessi
valori) e, in fine, la cosiddetta “disfunzione narcotizzante”: una sorta di apatia e
indifferenza di massa nei riguardi di tematiche trattate con superficialità
11
.
L’opera di Lazarsfeld risulta cruciale dal momento che si deve a lui l’elaborazione
della teoria del flusso a due fasi della comunicazione (nota anche come paradigma
degli effetti limitati), secondo cui la comunicazione di massa costituisce solo un
fattore cooperante nel processo di formazione e cambiamento delle opinioni, poiché
il ruolo primario è svolto dalle relazioni interpersonali faccia a faccia: non esiste,
infatti, un flusso unitario di informazioni che si muova dalla fonte ai destinatari, ma
un flusso articolato su due fasi: la prima muove l’informazione dai media ai leader
d’opinione, la seconda dalla mediazione operata dai leader al gruppo sociale di
riferimento. Con l’introduzione del gruppo sociale e del leader d’opinione,
Lazarsfeld connota in senso relazionale la fruizione mediale, togliendo gli individui
dal loro isolamento
12
.
In seno agli studi sulle comunicazioni di massa, non possono essere trascurati i
cultural studies che costituiscono il filone di ricerca made in Britain e formulano in
una sintesi originale vari apporti filosofici
13
. Possiamo esporre in modo molto
sommario i punti principali su cui si fonda il pensiero degli studiosi di Birmingham
(referenti per quanto riguarda questa branca degli studi sui mass media), pur senza
entrare nel merito della diatriba tra strutturalisti e culturalisti:
10
Gili G., ibidem, p. 117
11
A queste due principali alternative si possono aggiungere quelle proposte da Wright e McQuail:
mentre il primo si limitò a completare il modello di Lasswell con le due funzioni di intrattenimento e
allentamento dei conflitti, il secondo rese manifesta la capacità dei media di mobilitare la popolazione
in campagne su determinati obbiettivi. Gili G., ibidem, p. 118
12
Sorice M., ibidem, p. 28
13
Semplificando i concetti che confluiscono nei cultural studies, possiamo indicarne quattro:
- il concetto di ideologia, nel senso ad esso attribuito da Althusser;
- il concetto di egemonia, secondo l’elaborazione gramsciana, correlata al concetto di
“cultura generale”;
- il concetto di autonomia della cultura e dell’ideologia;
- il concetto di genere, utilizzato nell’analisi delle modalità di fruizione dei media.
In tale prospettiva di studi furono fecondamene approfonditi i concetti di encoding/deconding e
audience. Sorice M., ibidem, p. 62
11
1) innanzitutto i media costruiscono la conoscenza della società, riflettendo la
pluralità delle classificazioni sociali, e convalidano le relazioni che attraverso
questa costruzione hanno attivato;
2) la cultura popolare è frutto di scambi comunicativi con la cultura dominante,
quindi deriva da negoziazioni, fenomeni di resistenza e processi di
assimilazione (questa considerazione libera la cultura popolare da due pesanti
pregiudizi che la inficiavano: il fatto di essere una forma culturale degradata e
quello di essere un movimento autonomo e oppositivo proveniente dal basso),
ergo se la costruzione sociale è determinata dai media il consenso riguardo ad
essa è tutt’altro che scontato e si articola in modo autonomo
14
.
1.1.2 Sviluppi del paradigma critico e del paradigma dominante
Al di là del loro impatto immediato, e della correttezza delle loro visioni, il
paradigma critico e quello dominante fornirono una forte base teorica a cui si
ispirarono altri sociologi nelle loro elaborazioni. Brevemente possiamo considerarne
alcune, interessanti soprattutto per quanto riguarda la costruzione di una visione della
società da parte degli individui attraverso i media.
Citerei in primo luogo la teoria della coltivazione elaborata da Gerbner negli anni
’70 partendo dal presupposto che la televisione, e in particolare la fiction, giochino
un ruolo fondamentale nel determinare la nostra immagine del reale, ma che tra
questa e il reale stesso esista una forte discrasia: nel mondo televisivo risulterebbe,
infatti, una sottorappresentazione delle minoranze e, all’opposto, un’eccessiva
rappresentazione della violenza. Le critiche che furono mosse a questa teoria
derivano soprattutto dalla sua scarsa esportabilità al di fuori del contesto statunitense
e dal suo porre al centro del processo di socializzazione il mezzo televisivo
trascurando altre agenzie
15
.
In secondo luogo è da tener presente, ai fini del discorso che qui si vuole svolgere, la
teoria della spirale del silenzio la cui formulazione è legata al nome di Noelle –
Neumann e si fonda sull’assunto secondo cui la società tende ad isolare i
comportamenti “devianti”, per cui gli individui cercano di appiattirsi su quella che
risulta essere l’opinione dominante, veicolata naturalmente dalla comunicazione
14
Sorice M., ivi, pp. 64, 65
15
Gili G., ibidem, p. 124
12
mass mediatica: dal punto di vista dei soggetti questo comporta la doppia reazione di
dissimulare la propria reale posizione e di affermarla una volta questa risulti
vincente; mentre dal punto di vista del sociale nel suo complesso le idee dominanti si
diffondono con un effetto “a spirale” riducendo le altre all’oblio
16
.
In terzo luogo la tesi portata avanti dalla teoria della dipendenza asserisce
l’importanza del ruolo dei media nel raccogliere, elaborare e distribuire
l’informazione, fondamentale risorsa per individui e organizzazione nel soddisfare il
loro bisogno di conoscenza e comprensione della società e di sé, di orientamento e di
svago. Questa teoria pone in rilievo l’eterogeneità e il ruolo attivo del pubblico
nell’organizzare combinazioni personali di media, realizzando, quindi, un’originale
combinazione di più paradigmi (quello dominante, quello critico e degli usi e
gratificazioni, che sarà esposto più sotto), tentando di fare le giuste proporzioni tra il
potere mediatico e le capacità di selezione del pubblico, il quale ne subirà gli effetti
in relazione alla specifica necessità di assolvere ai propri bisogni attraverso la
fruizione dei media stessi
17
.
Se le precedenti teorie sono nate nella prospettiva propria del paradigma critico,
quello dominante aveva già trovato un interessante sviluppo nell’analisi
dell’audience a partire dagli anni ’60 ribaltando la prospettiva: si passò dal chiedersi
cosa i media facessero agli individui all’interrogarsi su cosa gli individui facessero
dei media, in un’ottica di fruizione attiva. Il cosiddetto approccio degli usi e
gratificazioni si occupò dei compiti che i media assolvono per gli individui,
schematicamente riassumibili in cinque bisogni:
1) bisogni cognitivi (relativamente all’acquisizione e al rafforzamento delle
conoscenze e della comprensione);
2) bisogni affettivi – estetici;
3) bisogni integrativi a livello della personalità (rassicurazione, stabilità emotiva,
certezza dell’io e del proprio status);
4) bisogni integrativi a livello sociale (rafforzamento delle relazioni interpersonali,
dei vincoli familiari o di gruppo);
16
Sorice M., ibidem, pp. 147,148
17
Gili G., ibidem, p. 126
13
5) bisogni di evasione (allentamento delle tensioni e dei conflitti)
18
.
Si può concludere questa panoramica sugli studi concernenti la comunicazione
facendo riferimento a quello che è uno dei concetti chiave dei cultural studies: lo
studio delle subculture. Questo fenomeno sociale si caratterizza per l’essere un
insieme di pratiche sociali contrapposte al contenuto dei media e che, dunque, sono
da essi provocate. Secondo l’opinione di Hebdige le subculture si riappropriano di
oggetti e valori, presenti nel sociale, attraverso un loro utilizzo originale. Nella stessa
prospettiva, De Certeau sottolinea la differenza tra l’interpretazione delle merci e il
loro uso, e asserisce che tra questi due momenti della fruizione avvenga la
produzione di senso nel quotidiano. È lo studioso francese a proporre la distinzione
tra strategia (costruzione razionale e dotata di un fine specifico, messa in atto da un
soggetto di potere capace di manipolare una parte dei rapporti di forza) e tattica
(azione effettuata da soggetti che non gestiscono il potere e che, non possedendo un
proprio spazio, si muovono all’interno dell’orizzonte dell’avversario)
19
.
Viene riconosciuta alla gente l’autonomia di movimento nel consumo, anche di
media. Tenendo presente che l’individuo viene raggiunto dal messaggio attraverso la
mediazione del gruppo, si evince l’importanza dell’appartenenza etnica nella
costruzione del messaggio, soprattutto nell’instaurare un rapporto coi nuovi venuti,
ancora fortemente legati alla lingua e alla cultura tradizionali. Per questo le ricerche
di marketing sulle minoranze etniche tengono ben presenti i peculiari comportamenti
comunicativi
20
in modo da scegliere gli strumenti più adeguati affinché
l’informazione raggiunga il destinatario.
18
Gili G., ibidem, p. 119. Questo approccio è stato riscoperto negli anni ’70, anche grazie ai cultural
studies britannici, e ne è stata riproposta una rivisitazione teorica spostando l’attenzione sulla
connessione tra le aspettative dei fruitori e le modalità di comportamento dei media. In questo campo
si segnalano soprattutto i contributi di Katz, Blumler, Gurevitch e McQuail. M. Sorice, ibidem, p. 140
19
Sorice M., ibidem, pp. 134 – 136
20
In particolare i media abitualmente selezionati, la comprensione delle comunicazioni pubblicitarie e
la costruzione del processo decisionale. Pires G. D. e Stanton P. J., Ethnic marketing. Accepting the
challenge of cultural diversity, Thomson, Australia, 2005, pp. 203 – 214
14
1.2 I problemi della comunicazione interculturale
L’appartenenza etnica è una costruzione che deriva dalla combinazione di tre
elementi:
1) l’origine etnica, l’identificazione naturale dell’individuo con il gruppo
all’interno del quale è nato. Un mero dato di fatto, immutabile;
2) l’identità etnica, che si manifesta come l’appartenenza al gruppo e alla
richiesta di riconoscimento da parte di questo. Un sentimento
multidimensionale che, contrariamente al primo, comporta anche un discreto
margine di variabilità, dal momento che presuppone l’adesione consapevole
dell’individuo ai valori del gruppo;
3) l’intensità etnica, ovvero il grado in cui l’individuo accetta i valori del gruppo
etnico di appartenenza e li combina a quelli di altri gruppi
21
.
Partire da questo assunto ci aiuta a comprendere quali risvolti culturali e psicologici
abbia avuto, fin dai primordi della storia umana e per qualunque civiltà,
l’improcrastinabile necessità di definire l’altro, sia nella pratica della definizione del
territorio attraverso la guerra sia a livello concettuale. Sotto questo secondo profilo
possiamo portare l’esempio dei barbaroi greci: categoria in cui venivano inclusi tutti
quei popoli che non sapevano parlare la lingua greca e che, dunque, “balbettavano”
in un altro idioma. La storia romana, così come quella islamica nel corso del Medio
Evo, è una storia di conquiste che si spingono molto oltre il fulcro dell’impero,
portando genti diverse al confronto.
La storia della nostra specie è costellata di conquiste, scontri, violenze, che portano
soprattutto popolazioni diverse a contrapporsi. Con questo certo non si vuole negare
che l’evoluzione dell’Occidente non sia stata scevra di guerre intestine, ma ciò che
preme sottolineare è la maggiore efferatezza della lotta nel momento in cui il nemico
è assolutamente diverso ed estraneo, sentimenti radicati nelle nostre coscienze,
esacerbati dalla creazione degli stati nazione e riproposti con rinnovato vigore a
partire dalla fatidica data del crollo delle Twin Towers di New York, che si
impongono nel rapporto con chiunque possieda una differente matrice culturale. Una
logica che, essendo attualmente lo straniero alla porta accanto, diventa essenziale
capire e sradicare, in nome di una pacifica convivenza in un pianeta che a tutti
21
Pires G. D. e Stanton P. J., ibidem, pp. 45, 46
15
appartiene in ugual modo, a prescindere dalla definizione dei confini; soprattutto
perché lo straniero che abita nelle nostre città si trova nell’ambivalente posizione di
chi è stato immerso per la maggior parte della propria vita in una cultura e ora deve
fare i conti con l’ambientamento in una società regolata da norme che gli sono aliene.
È il ritratto dello straniero che la tradizione sociologica ci restituisce: in Simmel,
Sombart, Park, Znaniecki, per limitare il riferimento ai classici, si descrive una figura
poco vincolata dalle norme della società in cui si insedia e per questo molto libera nel
suo movimento sociale, in qualche misura innovatrice, portatrice di un retaggio
culturale ignoto al gruppo in cui cerca di integrarsi e per questo poco stabile nella sua
stessa coscienza; una situazione liminare che gli consente di protendersi verso il
futuro, piuttosto che vivere nel passato di una patria lontana
22
.
Forse, alla luce della cronaca attuale, un’immagine di questo tipo risulta fin troppo
positiva e ottimista, mettendo in secondo piano le considerevoli difficoltà
nell’accoglienza e nell’adattamento. O, forse, il quadro si è complicato di recente: i
flussi migrativi provengono sempre più consistentemente da Paesi lontani dalla sfera
di influenza culturale di matrice occidentale, lo sguardo diretto agli stranieri è sempre
più inficiato dai fantasmi del terrorismo internazionale e dalle paure di crisi
dell’ordine sociale, i nuovi immigrati sono più consapevoli di detenere una cultura
paritaria rispetto a quella del paese che li ospita e sanno far valere questa parità nella
pratica quotidiana, nell’interazione con autoctoni che, in nome del politically correct,
risultano indecisi tra la possibilità di far valere usanze locali e la curiosità nei
riguardi di usi e costumi differenti.
Su questi temi sembra concentrarsi il dibattito a proposito dell’integrazione culturale,
che si snoda intorno agli approcci multiculturali e interculturali
23
, considerando
sempre più inadeguati i modelli assimilazionista, pluralista e di istituzionalizzazione
22
Cipollini R., Lineamenti per una sociologia dello straniero, in Cipollini R. (a cura di), Stranieri.
Percezione dello straniero e pregiudizio etnico, Franco Angeli, Milano, 2002, pp. 5 – 31
23
I due termini possono essere intesi come politiche finalizzate a organizzare la coesistenza di
comunità, gruppi o minoranze garantendo diritti culturali a ciascuno e promuovendone la libera
espressione pubblica (multiculturalismo) e come politiche indirizzate allo sviluppo di un dialogo tra
gli stessi elementi sociali (interculturalismo), risultando quest’ultimo modello come il più indicato se
si vuole perseguire il risultato di un’ibridazione culturale. Saez J. P., Interculturalismo e politiche
culturali, in Bodo S. e Cifarelli M. R. (a cura di), Quando la cultura fa la differenza. Patrimonio, arti
e media nella società multiculturale, Meltemi, Roma, 2006, p. 126
16
della precarietà
24
, considerati propri di chi detiene il potere, e desidera continuare a
detenerlo
25
, negando il legittimo riconoscimento delle diversità e delle specificità di
buona parte della popolazione. Dal canto proprio le minoranze sono ben consapevoli
dell’inutilità di perseguire l’adeguamento totale a stili di vita indigeni, quando si
verrà sempre riconosciuti, giustamente, come portatori di elementi stranieri
26
, senza
che a questi siano necessariamente connotati in modo negativo. La difficoltà nel
favorire processi che permettano la convivenza è insita nel pericolo di una
superficiale estetizzazione delle differenze
27
, che trascuri problemi di fondo ben più
concreti e di primo piano nell’agenda politica.
Il discorso culturale non è svincolato da quello politico, data l’importanza che si
riconosce all’appartenenza del singolo al gruppo sia nel processo di costruzione
dell’identità personale sia per la rilevanza pubblica dell’identificazione coi propri
rappresentanti politici. L’impatto di queste considerazioni si manifesta nella crisi del
sistema di pensiero occidentale, fondato sul concetto di uguaglianza, di cui vengono
messi in forse i contenuti nel sospetto che si tratti di un tentativo storicamente situato
ed interessato di definizione della normalità, in contrapposizione alle devianze, a
scapito delle diversità
28
. La richiesta di riconoscimento e tutela che segue a queste
considerazioni ha, come altra faccia della medaglia, il dubbio che si possa, in un
sistema liberale e democratico, consentire l’attribuzione di diritti collettivi che
permettano al singolo di muoversi in ottemperanza a questi, e alle credenze e
tradizioni che tutelano, ma che siano in contrasto, totalmente o solo in modo parziale,
24
I quali, rispettivamente, si caratterizzano per un’ideale di condivisione di valori e tradizioni comuni
a tutta la popolazione, per l’ammissione di una legittima quota di diversità culturale ed identitaria e
per la tutela accordata agli stranieri in modo da preservarne la diversità culturale per favorirne un
rimpatrio, dal momento che vengono considerati solo come ospiti temporanei. Colombo E., Le società
multiculturali, Carocci, Roma, 2002, pp. 46 - 51
25
Anche se a questo proposito si deve evidenziare un recente mutamento degli atteggiamenti,
soprattutto per quanto riguarda la politica nazionale di Paesi quali la Francia e gli Stati Uniti dove,
rispettivamente, si è insediato alla Presidenza della Repubblica il candidato di origine ungherese,
Nicolas Sarkozy, e concorre per la Casa Bianca il candidato democratico Barack Hussein Obama jr.,
nato ad Honululu, ma figlio di un ex pastore di capre keniota.
26
Colgo l’occasione per ricordare che il termine cool deriva, piuttosto che dal termine inglese cold,
dal concetto di ituto proprio delle civiltà Yoruba e Ibo dell’Africa Occidentale, il quale connotava un
atteggiamento di elegante distacco. Il concetto di ituto fu importato nelle piantagioni americane con
gli schiavi, i quali mantennero la propria dignità e opposero la loro resistenza ai costumi bianchi
proprio attraverso l’applicazione di questo modo di fare. Arvidsson A., Appunti per una sociologia del
marchio, in Di Nallo E. e Paltrinieri R., Cum sumo. Prospettive di analisi del consumo nella società
globale, Franco Angeli, Milano, 2006, p. 230
27
Bennett T., Cultura e diferenza: teorie e pratiche politiche, in Bodo S. e Cifarelli M.R., op. cit., p.
23
28
Colombo E., ibidem, p. 28
17
con quelli di cui è permeato il resto della società. Entriamo, così, nella prospettiva
del multiculturalismo critico, che invoca una pronta estensione della cittadinanza
culturale al di là della nozione classica di cittadinanza, tipica del pensiero liberale, in
modo da comprendere la possibilità di offrire diritti differenziati a gruppi diversi e il
riconoscimento di sistemi legislativi peculiari
29
.
Nell’esprimere una valutazione in proposito dobbiamo, inoltre, tener presente la
società come costituita da individui che hanno costruito la propria immagine in
relazione al confronto con l’altro e la distinzione tra le culture di cui sono portatori,
ciò determina una sorta di reificazione delle differenze che, in ultima istanza, si
traduce nella convinzione che la cultura sia sostanzialmente immutabile e da
mantenersi pura, pena la perdita di identità
30
; mentre la storia ci insegna tutt’altro: il
pensiero occidentale, che trova le sue origini nel mondo greco, non è privo di
ibridazioni con altre forme culturali intervenute nei secoli; così come è facile
riconoscere le evoluzioni che dal latino hanno portato, attraverso successive
contaminazioni, alle lingue volgari attualmente parlate nelle singole nazioni. Per
difendere la cultura, e quindi se stessi, in passato si uccideva, oggi l’eliminazione
della diversità passa attraverso la mortificazione delle esperienze culturali estranee,
che può equivalere alla morte.
Se questa è una prospettiva politica di lungo periodo, è nell’adozione di politiche
culturali relative alla situazione contingente che il dibattito si piega ad un
etichettamento superficiale, alle regole del mercato e, infine, alla mera acquisizione
estetica. Da un lato si promuove il valore della diversità e si cerca di potenziare il
sostegno, anche finanziario, agli artisti stranieri
31
, pur mantenendo un costante livello
di preoccupazione riguardo al pericolo di fornire, in questo modo, un’importante
contributo alla costituzione di enclaves culturali.
29
Bennett T., ibidem, p. 30
30
Colombo E., ibidem, p. 76
31
Nel saggio citato si fa riferimento diretto alle politiche intraprese in Gran Bretagna in favore delle
minoranze culturali di origine africana, caraibica e asiatica attraverso gli investimenti dell’Art
Council. Khan N., Lo spazio condiviso: opportunità e sfide per uno Stato multiculturale, in Bodo S. e
Cifarelli M.R. (a cura di), op. cit., p. 80