Capitolo 1
Estinzione del rapporto di lavoro. Il licenziamento individuale.
1.1 Le cause di estinzione del rapporto di lavoro.
Le circostanze che possono dar luogo alla cessazione del rapporto
di lavoro sono molteplici ed eterogenee, e ciò spiega il perché la dottrina
si sia impegnata ad elaborare criteri di classificazione e sistemazione
dogmatica delle ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro.
Una prima proposta classificatoria distingue tra cause di
estinzione e cause di risoluzione.
La prima ipotesi si realizzerebbe quando la causa del contratto si è
completamente realizzata e il contratto cessa per adempimento: caso
tipico è quello della scadenza del termine, nei contratti di lavoro a tempo
determinato, oppure, il compimento dell’opera o dei servizi specifici per
il quale il contratto è stato stipulato.
Di causa di risoluzione, invece, si dovrebbe parlare allorquando si
verifichino alcune anomalie nella esecuzione del contratto tali da
pregiudicare la realizzazione della causa del contratto stesso. Sarebbero
questi, i casi di risoluzione per eccessiva onerosità, impossibilità
sopravvenuta, risoluzione volontaria, recesso unilaterale, verificarsi della
clausola risolutiva o della condizione.
La distinzione tra fattispecie risolutive ed estintive è, tuttavia,
negata da una parte della dottrina, e il superamento di questa teoria ha
dato origine ad una classificazione basata sulla distinzione tra recesso
ordinario e recesso straordinario.
La prima ipotesi si realizzerebbe a fronte di una manifestazione di
volontà, idonea ad estinguere i contratti a tempo indeterminato per i quali
non sia verificata in un momento successivo alla stipulazione alcuna
disfunzione funzionale.
La seconda ipotesi si realizzerebbe in tutte le circostanze residue
che, in funzione all’evento risolutivo che le legittima, non paiono idonee
a essere configurate come modalità ordinaria di cessazione degli effetti
del contratto.
Anche quest’altra distinzione è stata largamente criticata da una
parte della dottrina, sia sotto il profilo concettuale che, soprattutto, sotto
quello degli effetti classificatori-sistematici che ne discendono.
Dando per scontato un certo margine di discrezionalità e
genericità nella classificazione delle ipotesi di cessazione del contratto
di lavoro, può essere sufficiente rilevare che l’estinzione del rapporto di
lavoro, possa aversi sicuramente nei casi di risoluzione consensuale,
risoluzione del contratto in seguito al verificarsi della clausola risolutiva
posta in condizione, cessazione ipso iure in presenza di circostanze
previste dalla legge, ovvero, nel caso di scadenza del termine nel
contratto a tempo determinato, e recesso unilaterale per volontà del
lavoratore o del datore di lavoro più comunemente definiti col termine di
“ dimissioni ” il primo e “ licenziamento ” il secondo.
Quest’ultima ipotesi di recesso costituisce un momento
particolarmente delicato per il lavoratore subordinato, poiché egli trae dal
rapporto lavorativo la fonte economica per il sostentamento proprio e
della propria famiglia.
Non può dirsi la stessa cosa per il datore di lavoro, poiché, per
quest’ultimo, la vicenda estintiva del singolo rapporto, non determina
particolari conseguenze negative, risolvendosi, spesso, nella mera
sostituzione del lavoratore venuto meno con un altro.
Proprio per tali motivi, e, considerato che il licenziamento
costituisce indubbiamente la causa di estinzione del rapporto
social m ente più significativa, si è sviluppata una articolata e
differenziata disciplina legislativa volta a proteggere l’interesse del
lavoratore alla stabilità del rapporto di lavoro.
1.2 Il recesso dal rapporto di lavoro nel sistema del codice
civile.
La disciplina del codice civile, all’ art. 2118 , asserisce che “
ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto a tempo
indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi
stabiliti dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità ”.
Tale ipotesi è del tutto residuale, e attribuisce ad entrambe le parti
la facoltà di recedere unilateralmente e liberamente dal con t ratto di
lavoro.
L’istituto del recesso è qualificato come atto di autonomia
privata, corrispondente ad un potere, eccezionalmente concesso a
ciascuna delle parti, di porre termine ad un rapporto contrattuale,
assolvendo alla funzione di evitare, nei contratti di durata privi di termine
finale, la perpetuità dei vincoli obbligatori 1
.
Si è affermato in dottrina, che non essendo accompagnato da
1
CARNELUTTI, Del licenziamento nella locazione d’opera a tempo indeterminato , 1911, I, 389,
Milano, 1985,pp. 13 ss.
motivazione 2
, l’atto di recesso è caratterizzato dall’astrattezza.
È, inoltre, un atto contraddistinto dall’unilateralità e
dall’irretroattività, poiché il potere di recesso si esercita attraverso una
dichiarazione recettizia unilaterale di uno dei contraenti, pienamente
libera nella forma e irretroattiva, visto che, trattandosi di rapporti di
durata, le prestazioni eseguite non possono essere ripetute.
In tale logica, il recesso unilaterale è inteso come mezzo per
garantire la possibilità di sciogliersi da un rapporto, altrimenti perpetuo,
e, in relazione a ciò, colloca le parti su un piano di parità 3
, senza
considerare il possibile diverso interesse di ciascuna alla conservazione
del vincolo. L’unica limitazione imposta a colui che si avvale della
facoltà di recedere, è prevista nel testo dell’ art. 2118 cod. civ ., ed è
costituita dall’obbligo di dare il preavviso alla controparte, con un
congruo anticipo, periodo durante il quale il rapporto prosegue 4
, a meno
che, la parte recedente non decida di corrispondere l’indennità di
mancato preavviso, cioè, una somma di denaro corrispondente alla
retribuzione dovuta per il tempo del preavviso non lavorato.
Dalla prosecuzione automatica del rapporto durante il preavviso,
discende il diritto, per la parte receduta, di ottenere eventuali
miglioramenti contrattuali collettivi sopravvenuti 5
, nonché, la
conservazione del diritto di recedere per giusta causa, qualora si verifichi
un fatto così di rilevante gravità, da impedire la prosecuzione anche
provvisoria del rapporto 6
.
Non essendo nulla previsto all’interno del codice civile, la fonte
2
PERA, Sindacabilità dei motivi in sede sindacale e in sede giurisdizionale , Milano 1967,pp.
184 e ss.
3
GABRIELLI , Vincolo contrattuale e recesso unilaterale , Milano, 1985,pp. 13 ss.
4
MANCINI, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro , Milano, 1965, pp.2 ss.
5
Cass. 29 aprile 1977, n. 165, in FI ,I,p.1427.
6
Cass., 7 settembre 1981, n.5054, in MGL ,1982,p.47.
principale che disciplina la durata del preavviso è il contratto collettivo,
e, si possono rilevare alcune differenziazioni tra i contratti collettivi dei
diversi settori di appartenenza. Infatti, quasi tutti i contratti collettivi
prevedono una durata del preavviso differenziata a seconda
dell’inquadramento professionale del lavoratore, essendo di durata
superiore per i livelli più alti. In molti altri casi, la differenziazione è
data anche dall’anzianità di servizio.
Quando la risoluzione del rapporto dipende da una giusta causa,
che impedisce la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto, l’obbligo
di dare il preavviso viene meno, e il rapporto si risolve immediatamente.
In tali circostanze, la parte recedente non è tenuta all’obbligo di dare il
preavviso o la corrispondente indennità sostitutiva ( c.d. recesso per
giusta causa : art. 2119 cod. civ . ).
Vale la pena precisare che, come confermato dalla più recente
giurisprudenza della Corte di Cassazione 7
, non si è in presenza di due
differenti tipologie di recesso, uno semplice e l’altro per giusta causa,
bensì di un unico tipo di negozio, rispetto al quale la giusta causa
costituisce solo un presupposto che esonera dal preavviso. Pertanto,
qualora si accerti che una siffatta causa non sussista in fatto, ferma
restando la validità ed efficacia del recesso intimato, il recedente
dovrà erogare un’indennità corrispondente all’importo della retribuzione,
che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.
La disciplina della libera recedibilità, come sopra descritta, è stata
largamente ridimensionata, ed è oggi applicabile solo ad alcuni casi
residuali, nonché per le dimissioni del lavoratore.
Per quanto riguarda il licenziamento, invece, con l’andare del
tempo, si è venuta sovrapponendo alla disciplina codicistica una
7
Cass. S.U. 18 m aggio 1994, nn. 4844 e 4846, in FI , 1994, I-II, p.2706.
normativa speciale, che ha sottratto il licenziamento all’area della libera
recedibilità, espressione del favor dell’ordinamento verso il lavoratore
quale soggetto socialmente sottoprotetto.
Questo processo di sovrapposizione è avvenuto per gradi, e ha
tratto origine dalla pronuncia del 9 settembre 1965, n. 45
8
della Corte
Costituzionale , la quale, investita della questione di costituzionalità
dell’ art. 2118 cod. civ. , la dichiarò infondata sull’assunto che l’ art. 4
Cost . non garantisce ai cittadini né il diritto al conseguimento
dell’occupazione, né quello alla sua conservazione.
In tale pronuncia, la Corte precisa, inoltre, che già in altra
occasione 9
si è rilevato che il potere illimitato del datore di lavoro di
recedere dal rapporto a tempo indeterminato, non costituisce più un
principio generale del nostro ordinamento, poichè l’art. 2118 del codice
civile é stato progressivamente ristretto nella sua sfera di efficacia, sia
da provvedimenti legislativi, i quali, a tutela di particolari interessi dei
lavoratori, hanno limitato o temporaneamente precluso il potere di
recesso del datore di lavoro 10
, sia, soprattutto, da accordi sindacali.
Pertanto, sul presupposto dell’impossibilità di desumere dalle norme
8
Corte Cost., 9 giugno 1965, n. 45, FI ,1965,I,p.1118: “ dal complessivo contesto del 1°comma dell’art. 4 Cost. si ricava “che il di r itto del lavoro, riconosciuto ad ogni
cittadino, è da considerare quale fondamentale diritto di libertà della persona umana, che si
estrinseca nella scelta e nel modo di esercizio dell’attività lavor a tiva. A questa situazione
giuridica del cittadino fa riscontro, per quanto riguarda lo Stato, da una parte il divieto di
creare o di l a sci a r sussistere nell’ordinamento norme che pongono o consentono di porre
limiti discriminatori a tale libertà, dall’altra l’obbligo di indirizzare l’attività di tutti i pubblici
poteri e dello stesso legislatore alla creazione di condizioni economiche, sociali e giuridiche
c h e consentano l’impiego di tutti i cittadini idonei al lavoro. Da siffatta inter p retazione deriva
che l’art. 4 cost., come non garantisce a ciascun cittadino il diritto al conseguimento di una
occupazione, così non ga r an tisce il d iritto a lla c on serv a zi on e d el l a v o r o , ch e n el p rimo
do vre bb e tr o v a re il s u o l og ico e necessario presuppost o . Con ciò non si vuol dire che la
disci p lina dei licenziamenti si muova su un piano del tutto diverso da quello prop r io dell’art. 4
della Costituzione… ” .; Corte cost.,7 febbraio 2000, n. 46,FI,2000,I,699.
9
Corte Cost., 27 gennaio 1958, n.7, in L. ZOPPOLI, I rapporti di lavoro nel diritto vivente. Casi e
materiali , GIAPPICHELLI,2009, p. 276.
10
legge 9 gennaio 1963, n. 7
costituzionali la regola della giustificazione necessaria del licenziamento,
la Corte aveva evidenziato che la garanzia costituzionale del diritto del
lavoro imponesse al legislatore di approntare una disciplina idonea ad
assicurare la continuità del rapporto, contornando i casi in cui fosse
consentito dar corso al licenziamento 11
con un sistema di opportune
garanzie.
1.3 Limiti al potere di licenziare: L. n.604, principio di
giustificazione e regola del recesso vincolato.
Con l’avvento della Costituzione si diffuse sempre più la
concezione che, seppur in via interpretativa, attraverso la valorizzazione
dell’ art. 4 e 41 comma 2 Cost. e art. 1345 cod. civ. sul motivo illecito,
si affermasse un generale divieto dei licenziamenti immotivati.
L’apposizione di limiti al potere di licenziare, come garanzia per i
lavoratori, presupponeva il superamento del principio liberale della parità
formale delle parti del contratto di lavoro, e, contestualmente, il
riconoscimento della necessità di introdurre correttivi al funzionamento
di un rapporto di potere diseguale.
Il passaggio dalla libertà di licenziamento alla logica del
licenziamento vincolato, inizierà a concretizzarsi nel nostro ordinamento
soltanto verso la metà degli anni ’60 del secolo scorso, nonostante
l’opposizione oltre che da parte datoriale, anche ad opera della CISL,
sempre ostile nei confronti di interventi legislativi in materia, ritenute di
competenza dell’autonomia collettiva.
Una specifica legge sui licenziamenti individuali fu, tuttavia,
varata il 15 luglio 1966 : la legge n. 604 ; mentre, rimase intatta la libertà
11
E. COSTA, Perc o rsi g i u ris p r ud e n zi a li n el d iritto d el l a v o r o , Torino, 2001, pp.134-135.
di dimissioni, cui continuava ad applicarsi la disciplina codicistica.
Bisogna far presente che taluni limiti al potere di licenziamento
ad nutum, erano stati già introdotti dalla contrattazione collettiva 12
,
ancora prima della legge n. 604
13
, e la legge del 1966 riprende i
contenuti della disciplina stabilita in sede sindacale.
Tale legge, viene definita “ Legge sulla giusta causa ”, ma si tratta
di una definizione impropria, poichè la giusta causa era già prevista dal
codice civile allo scopo di esonerare la parte recedente dall’obbligo del
preavviso; nel nuovo sistema, la giusta causa continua ad assolvere la
medesima funzione, ma diviene anche una delle ragioni che possono
essere addotte per giustificare la legittimità del licenziamento.
La vera innovazione sta nella variazione del potere di
licenziamento, da atto di autonomia privata totalmente insindacabile, a
negozio giuridico, la cui legittimità presuppone non soltanto il rispetto di
specifici requisiti di forma, ma, soprattutto, l’esistenza di obiettive
ragioni giustificatrici individuabili nel concetto di giusta causa ai sensi
dell’ art. 2119 cod. civ. o giustificato motivo. Da ciò discende che, alla
regola del recesso ad nutum , fa seguito quella per cui il
licenziamento è valido ed efficace soltanto se è assistito da un
giustificato motivo, che, occorre poi, provare in giudizio ad onere del
datore di lavoro.
12
accordi interconfederali del 1950 e del 1965, applicabili nel solo settore industriale; in
base a tali accordi, il potere di recesso del datore di lavoro era sottoposto, oltre che a
vincoli for m ali ( co m unicazione scritta ), al li m ite sostanziale del giustificato m o tivo o della
giusta causa; in caso di licenzia m ento ingiustificato, il dat o re di lavoro era obbli g ato alla
riassunzione o, in m ancanza, al paga m ento di una penale a titolo di risarci m ento del danno
( c.d. tutela obbligatoria ). La dis c iplina collettiva aveva p e rò un’efficacia alquanto ridotta:
gli accordi interconfederali, oltre ad essere vincolanti soltanto per i soggetti iscritti alle
associazioni si nd acali sti pu la n ti, era n o a pp lica b ili s o lo ai d at o ri d i la vo ro c o n p iù d i 3 5
d i p e nd e n ti, e de m andavano l’accerta m ento della g i ustificazione del licenzia m ento alla
valutazione equitativa di un apposito collegio di c onciliazione ed arbitrato.
13
ROCCELLA, Manuale di diritto del lavoro , seconda edizione, Torino, 2001, pp. 390-391.
Inoltre, mentre nel regime del codice civile, l’esistenza o meno di
una giusta causa rilevava solo ai fini della concessione del preavviso, in
presenza della disciplina vincolistica dei licenziamenti individuali,
l’assenza di giusta causa, comporta la illegittimità del licenziamento.
L’ art. 2119 cod. civ . autorizza ciascuna della parti a recedere per
giusta causa dal contratto, qualora si verifichi una causa che non
consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto, e, in tale
ipotesi, la parte recedente per la particolare gravità, non è tenuta a dare il
preavviso.
Parte della dottrina e della giurisprudenza ricomprende nella
giusta causa, non solo un gravissimo inadempimento degli obblighi
contrattuali, ma anche una qualsiasi circostanza o situazione anche
esterna al rapporto di lavoro, idonea a ledere il vincolo, e, perciò, ad
impedire la prosecuzione del rapporto.
Altra parte, invece, ha una concezione della giusta causa meno
ampia, identificandola solo con un vistoso inadempimento degli obblighi
contrattuali, imputabile a dolo o colpa grave, a nulla rilevando eventuali
comportamenti che rientrano nella vita privata e fatti esterni al rapporto
lavorativo.
In realtà, una corretta identificazione della giusta causa,
scaturirebbe da un esame complessivo dei vari inadempimenti, valutando
caso per caso, se siano talmente gravi da non consentire la prosecuzione
del rapporto.
14
Si è sostenuto che il licenziamento per giusta causa richiede un
comportamento intenzionale del lavoratore, che incide immediatamente
sull’elemento fiduciario del rapporto di lavoro, in modo da porlo
radicalmente in discussione.
14
Cass., 24 luglio 1968, n. 2688, FI , 1968, I,p. 2733.