6
INTRODUZIONE
La detenzione femminile, con tutte le sue criticità, è un fenomeno ancora poco
indagato e ciò è principalmente dovuto alla scarsa presenza delle donne in carcere,
la quale si attesta intorno al 4-5% dell’intera platea delle persone in vinculis.
Ne deriva pertanto una condizione di marginalità che ha reso e renderebbe
quantomai opportuna l’adozione di un approccio culturale in grado di cogliere e
valorizzare le differenze di genere e le specificità di cui si fanno portatrici le
detenute, al fine di eliminare quella “scala gerarchica” interna al sistema
penitenziario che le relega inesorabilmente in una posizione subordinata rispetto
alla componente carceraria maschile.
A confrontarsi con la sistematica marginalità ed invisibilità derivante dall’essere
inserita in un contesto in cui risulta difficile sviluppare soluzioni organizzative e
programmi trattamentali sensibili alle esigenze tipicamente femminili è poi la
condizione di colei che sia nel contempo madre di prole in tenera età.
La maternità “ristretta” rappresenta una complessa vicenda che invoca una
peculiare attenzione sulla base del rilievo per cui la pena di una madre assume una
portata “bilaterale”. Gli effetti dell’esecuzione penale non si riversano infatti
esclusivamente sul soggetto condannato bensì colpiscono indirettamente anche
persone terze, totalmente estranee alla vicenda giudiziale e particolarmente
bisognose di cure ed attenzioni: i figli minori, “vittime secondarie” la cui sfera
affettiva risulta inevitabilmente compressa per effetto della detenzione materna.
Trattasi dell’unico rapporto – quello che lega una madre alla prole – che non può
essere fisiologicamente interrotto neanche dalla carcerazione, dovendo pertanto
essere mantenuto anche nel rispetto dei principi costituzionalmente e
universalmente garantiti.
Una corretta comprensione dell’attualità del problema non può prescindere dalla
considerazione di una delle norme più discusse in assoluto della legge penitenziaria:
l’art. 14, comma 7, in forza del quale «alle madri è consentito tenere presso di sé i
figli fino all’età di tre anni», per la cura e l’assistenza dei quali «sono organizzati
appositi asili nido» interni agli istituti penitenziari.
7
In tal senso, non risulta difficile immaginare come l’endemico fenomeno del
sovraffollamento carcerario, le rigide regole che governano la vita in carcere ed il
contatto forzato con i soggetti esterni al nucleo familiare creino una situazione di
forte tensione che rende apparentemente inconciliabile il binomio protezione della
maternità/protezione dell’infanzia. E invero, se da un lato, tutelare il ruolo di madre
significa consentire alla stessa di accudire i propri figli nei primi anni della loro
vita, parallelamente, proteggere l’infanzia, impone la creazione di condizioni
ambientali idonee allo sviluppo dei minori.
A questo punto ci si domanda, da un lato, come un carcere possa consentire
questo corretto sviluppo e, dall’altro, cosa significhi consentire l’instaurarsi di un
legame molto stretto nelle prime fasi di vita di un bambino per poi infliggere il
dolore di una separazione traumatica dalla propria genitrice.
Il problema su cui da tempo si interroga il legislatore nazionale, e si sono espressi
gli organismi internazionali nonché le istituzioni europee è dunque quello di
calibrare la “intensità” dello ius puniendi, tenendo conto dei diversi bisogni che
emergono nei vari periodi dell’infanzia e del ruolo, che all’interno di questi, gioca
il rapporto con le figure genitoriali di riferimento.
Sotto questo profilo, molto si è fatto dalla nascita dell’ordinamento penitenziario
nell’ormai lontano 1975 (quella stessa legge che ha normato – e normalizzato – la
presenza dei bambini in carcere), proponendo soluzioni volte a salvaguardare
entrambi i principi, in ottemperanza ai ben noti presidi costituzionali di
umanizzazione della pena (art. 27, comma 3 Cost.) e di protezione della maternità
e dell’infanzia (art. 29, 30 e 31 Cost.).
La presente ricerca si propone di analizzare nel dettaglio il percorso normativo
intrapreso nell’arco del decennio 2001-2011 dal legislatore nazionale, il quale,
intervenendo sulla disciplina penale, processuale e penitenziaria, ha gradualmente
esteso la portata di istituti preesistenti, riconoscendo, ad esempio, la possibilità della
temporanea libertà della madre nonché introdotto ex novo misure alternative alla
restrizione intra moenia – tanto nella fase cautelare quanto in quella esecutiva –
accordando preferenza alla distrazione della diade madre-figlio dal circuito
penitenziario. Allo stesso tempo, considerando che esiste anche una maternità – per
così dire – vissuta a distanza, si dedicherà attenzione alla trattazione degli strumenti
8
e dei benefici penitenziari funzionali al mantenimento della relazione con la prole
che si trova all’esterno dell’istituto di pena.
Ampio spazio verrà altresì dedicato al prezioso contributo fornito dai copiosi
interventi della Corte costituzionale, della Corte di cassazione e dei giudici di
merito nel riconoscere progressiva primazia al “best interests of the child”;
principio, quest’ultimo, ancor prima ribadito dall’intensa produzione
giurisprudenziale della Corte europea dei diritti dell’uomo sull’art. 8 C.e.d.u. e
utilizzato dai giudici di Strasburgo nel valutare il bilanciamento tra interesse
individuale del minore e confliggenti pressing social needs.
Attraverso tale studio, sarà possibile verificare se e in quale misura i tentativi di
adeguamento del legislatore ordinario ai principi costituzionali e alle direttive
internazionali emanate in materia siano stati sufficienti a risolvere positivamente il
problema sociale e giuridico delle madri detenute e dell’annosa presenza dei
bambini dietro alle sbarre.
Verranno illustrati i punti di forza e le debolezze ancora insite nel sistema
penitenziario attuale, richiamando, all’occorrenza, le ulteriori proposte di legge
avanzate grazie all’impegno di alcune forze politiche e volte ad apportare modifiche
alla legislazione vigente, nell’ottica di contribuire alla definizione di un’esecuzione
penale che possa dirsi effettivamente permeata di una visione child-sensitive.
9
CAPITOLO I
IL FENOMENO DELLA DEVIANZA
FEMMINILE
Sommario: 1. La detenzione femminile: fotografia di una marginalità qualitativa e
quantitativa – 2. Le specificità della popolazione penitenziaria femminile: una
lettura alternativa – 3. Tra legislazione interna e direttive sovranazionali – 4. La
risposta del legislatore italiano – 4.1. L’ambizioso progetto degli Stati Generali:
Tavolo 3 “Donne e carcere” – 4.1.1. Allegato 1 “Responsabilizzazione” – 4.1.2.
Allegato 6 “Formazione ed istruzione” – 4.1.3. Allegato 4 “Salute delle donne in
carcere” – 4.2. Focus su bisogni e diritti delle detenute nell’Ordinamento
penitenziario riformato – 4.2.1. L’attuazione dell’art.1, comma 85, lett.t) Legge n.
103/2017 – 5. Il particolare caso delle detenute madri
1. La detenzione femminile: fotografia di una marginalità qualitativa e
quantitativa
1
La condizione delle detenute all’interno del sistema giuridico italiano è divenuta
oggetto di indagine e di studio da parte degli addetti ai lavori solo in tempi
relativamente recenti, acquisendo maggiore visibilità, in controtendenza con il
disinteresse di una certa cultura maschilista predominante nell’accademia e nella
società
2
.
1
In tali termini, M. MIRAVALLE, Quale genere di detenzione? Le donne in carcere in Italia e in
Europa, in G. MANTOVANI (a cura di), Donne ristrette, Ledizioni, Torino, 2018, cit. p. 29
2
M. L. FADDA, Differenza di genere e criminalità. Alcuni cenni in ordine ad un approccio storico,
sociologico e criminologico in Diritto Penale Contemporaneo, 2010, cit. p. 2; altresì M. SBRICCOLI,
Deterior est condicio foeminarum. La storia della giustizia penale alla prova dell’approccio di
genere in ID (a cura di) Storia del diritto penale e della giustizia, scritti editi e inediti (1972 – 2007),
Giuffrè, Milano, 2009, p.1251, il quale, accingendosi ad una ricerca retrospettiva sul trattamento
della criminalità femminile, afferma che storicamente, il ruolo della donna nel processo penale
risulta condizionato « da un sistema normativo costituito a ridosso di una concezione sociale e
culturale del genere dominato dal maschile che tenne fuori comportamenti femminili potenzialmente
10
L’accrescimento di tale attenzione è da ricondursi agli accadimenti storici degli
ultimi decenni del Novecento, in corrispondenza dei quali, l’affermarsi della
seconda ondata di femminismo
3
ha portato all’ordine del giorno del dibattito
pubblico il fattore genere. Le donne sono così divenute le protagoniste del
cambiamento sociale e culturale che ha investito il nostro Paese, risoltosi
nell’adozione di una serie di interventi legislativi a favore della libertà e
dell’emancipazione, con il conseguente riconoscimento di una parità che ne ha
progressivamente mutato i ruoli sociali.
In particolare, la portata rivoluzionaria delle Riforme degli anni ’70 e ’80
4
ha
avuto un forte impatto anche sull’organizzazione dell’universo carcerario
femminile, mettendo in discussione le modalità “moralizzanti” entro cui avveniva
la gestione della detenzione femminile
5
e rivendicando una diversa
lesivi, nella convinzione di poterli “addomesticare” col solo mezzo della vis viri, dentro il
rassicurante recinto della potestas paterna vel maritatis».
3
In tema, S. RONCONI, G. ZUFFA, Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere,
Ediesse, Roma, 2014, cit.p.19, le quali sottolineano come «la maggior parte della – non grande –
letteratura esistente sul carcere femminile sia costituita da studi storici e sociologici riconducibili
nell’arco temporale che va dagli anni Sessanta del secolo scorso ad oggi» coincidendo, pertanto,
«con l’emergere dei movimenti femministi di quegli anni» da cui provengono gran parte delle
studiose, sociologhe, storiche e criminologhe.
4
La rivoluzione culturale ha toccato diversi ambiti: in materia di famiglia è stata caratterizzata
dall’abrogazione del reato di adulterio ad opera della Corte costituzionale con sentenza 19 dicembre
1968, n.126 con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.599, cc. 1 e 2 C.p. in
quanto «concretizzanti una discriminazione non necessaria alla tutela dell’unità familiare protetta
dall’art.29 Cost.»; dall’introduzione dell’istituto del divorzio con Legge 1° dicembre 1970, n.898
“Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio” (c.d. Legge Fortuna – Baslini); dalla Riforma
del diritto di famiglia con Legge 19 maggio 1975, n. 151; dalla Legge 29 luglio 1975, n.405,
istitutiva dei Consultori familiari allo scopo di assicurare la somministrazione dei mezzi necessari
per garantire la procreazione controllata; dall’introduzione del diritto di aborto con Legge 22 maggio
1978, n.194 in materia di “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria
della gravidanza”; dall’abrogazione degli artt. 544, 587 e 592 C.p. con Legge 5 agosto 1981, n.442
“Abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore”. Altresì, in materia di lavoro, è stata
raggiunta l’uguaglianza formale, vietando qualsiasi forma di discriminazione attraverso la Legge 9
dicembre 1977, n.903 “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro” e sostanziale,
promuovendo la realizzazione di un «modello bidirezionale che garantisca al contempo pari
opportunità e tutela delle differenze» attraverso la Legge 10 aprile 1991, n.125 “Azioni positive per
la realizzazione della parità uomo – donna nel lavoro”.
5
S. ROSSETTI, La detenzione femminile tra uguaglianza e differenza, in “Studi sulla questione
criminale”, 3/2014, p. 127, la quale, riferendosi al significato della pena nella detenzione femminile,
osserva come questa, tradizionalmente concepita in una prospettiva moralizzante, affonda le sue
radici negli istituti correttivi religiosi, all’interno dei quali l’azione delle suore, che gestivano in toto
le condannate, mirava alla loro rieducazione secondo il modello madre – moglie – casalinga. In
questo senso, si è di fronte ad una gestione “morbida” della detenzione femminile in cui il carcere
ha rappresentato un surrogato del controllo attivo in famiglia, pronto ad intervenire laddove la
11
risocializzazione delle detenute, nell’ottica di finalizzarla ad un loro proficuo
inserimento nel mondo, alternativo ai ruoli secondari a cui il carcere – al pari della
famiglia – le destinava.
Una delle ragioni per cui nasce l’esigenza di pensare ad un regime custodiale
diverso rispetto al passato è dovuta anche al cambiamento delle caratteristiche che
tradizionalmente connotavano la criminalità femminile: in primo luogo, cambia la
composizione della popolazione detenuta femminile in quanto, tra le ree,
aumentano le giovani ed assumono un ruolo determinante le c.d. detenute
politiche
67
; in secondo luogo, il quadro della trasgressione diventa più complesso
poiché la devianza femminile passa dall’essere considerata solamente sotto il
profilo dell’amoralità
8
, all’essere analizzata anche sotto quello dell’illegalità,
registrandosi un progressivo aumento di reati contro il patrimonio, lo Stato,
l’amministrazione della giustizia e l’ordine pubblico ed una conseguente
diminuzione di quelli contro la famiglia e la morale pubblica
9
.
In tale contesto, sempre più impellente è la necessità di attuare un processo di
ammodernamento all’interno dell’organizzazione carceraria ed il momento centrale
disciplina famigliare falliva nella normalizzazione ai ruoli femminili tradizionali; altresì S.
RONCONI, G. ZUFFA, op. cit., 2014, cit.p.27.
6
Si tratta di coloro che sono ristrette in carcere per reati connessi ai movimenti antistituzionali e alle
lotte di fabbrica e di quartiere dei primi anni Settanta, così inquadrate da F. FACCIOLI, Le donne in
carcere: la composizione sociale, i reati e le pene in E. CAMPELLI, F. FACCIOLI, V. GIORDANO, T.
PITCH (a cura di) Donne e carcere. Ricerca sulla detenzione femminile in Italia, Feltrinelli, Milano,
1992, p. 28 – 29
7
Sull’affermazione dei collettivi di detenute politiche si veda F. FACCIOLI, Il carcere in Italia:
appunti su un dibattito in E. CAMPELLI, F. FACCIOLI, V. GIORDANO, T. PITCH (a cura di) Donne e
carcere. Ricerca sulla detenzione femminile in Italia, Feltrinelli, Milano, 1992, p.20 e ss., la quale
racconta come lo stato di persistente invisibilità della questione detentiva femminile abbia portato
le detenute a prendere parte ad alcuni movimenti di mobilitazione della popolazione penitenziaria
per la riforma del carcere e, in particolare, ne individua uno dei momenti più salienti nella prima
rivolta femminile avvenuta presso il Carcere di San Vittore nel 1976 (di un anno successiva alla
Riforma sull’Ordinamento penitenziario), guidata giustappunto dal neo gruppo delle detenute
politiche. Quest’ultime, attraverso i loro documenti, danno nuova visibilità alla detenzione
femminile, in particolare, descrivono le precarie condizioni di vita in carcere e denunciano
l’arretratezza degli istituti penitenziari femminili, ponendo particolare enfasi sulle problematiche
relative all’ambito sanitario e alla scarsità di spazi in cui svolgere attività culturali, ricreative e
sportive.
8
Come ben sottolineato da M.L. FADDA, op.cit. cit. p.2 «la donna delinquente, la donna colpevole,
è sempre stata considerata macchiata dalle stigmate di aver abiurato, commettendo il reato, alla
propria natura femminile tradizionalmente dedita alla cura della famiglia e dunque colpevole, non
solo di fronte alla legge scritta dagli uomini, ma anche verso quella imposta dal suo status naturae».
9
A. SALVATI, La detenzione femminile in Riv. Amministrazione in Cammino, 2010, cit. p.10 – 11
12
di tale mutamento è da ricondursi alla riforma penitenziaria avvenuta con legge 26
luglio 1975, n.354 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
misure privative e limitative della libertà”. Quest’ultima è intervenuta
sull’istituzione penitenziaria, ponendo fine al sistema di gestione differenziata e
portando i due modelli detentivi – femminile e maschile – ad un graduale
allineamento: da una parte, le congregazioni religiose femminili
10
che si
occupavano della custodia delle detenute vengono progressivamente sostituite dal
personale laico
11
; dall’altra parte, il regime “assistenziale” tradizionalmente
applicato nei confronti delle donne, viene esteso a tutta la popolazione
penitenziaria, privilegiando, in linea di principio, la rieducazione rispetto alla mera
finalità retributiva della pena.
Con la laicizzazione del personale addetto alla sorveglianza delle detenute
l’auspicio era quello di affermare una nuova visione della criminalità femminile e
della sua prevenzione, superando il modello “familiare o paternalistico -
riabilitativo”
12
e promuovendo nuovi modelli culturali di riferimento per le donne,
anche attraverso misure orientate alla formazione delle stesse, non solo in quanto
madri, mogli e figlie, ma anche come cittadine e lavoratrici attive, al pari dei
detenuti di sesso maschile.
Tuttavia, si evidenzia come – in concreto – la politica laicizzante che si muoveva
nell’ottica di promuovere una rivoluzione del sistema penitenziario femminile, non
si sia di fatto accompagnata ad una reale maggiore attenzione verso la problematica
questione delle donne in carcere, al contrario, registrandosi una costante e annosa
carenza di interesse da parte degli studiosi e, a maggior ragione, da parte delle
istituzioni
13
.
In questo senso, la vicenda della detenzione vissuta dalle donne non ha visto
mutare la propria condizione residuale, continuando a definirsi tutt’oggi
10
Rispetto alle quali si pone criticamente F. FACCIOLI, op.cit., 1992, p.20, attribuendo alla gestione
da queste ultime promossa la colpa di aver causato una condizione di generale arretratezza e minori
diritti delle detenute.
11
Alle suore si sono sostituite dapprima le vigilatrici e poi le agenti di Polizia Penitenziaria con
l’istituzione dell’omonimo Corpo con Legge 15 dicembre 1990, n.395 “Ordinamento del Corpo di
Polizia penitenziaria”, consultabile al sito www.normattiva.it
12
In merito, si veda nota 5.
13
Come evidenziato da S. RONCONI, S. ZUFFA, op. cit., 2014, cit. p. 29.
13
“satellitare” rispetto all’universo penitenziario maschile, secondo una pluralità di
accezioni.
Anzitutto, dal punto di vista strettamente quantitativo, la carcerazione femminile
appare marginale a partire dal dato numerico che la restituisce come statisticamente
di molto inferiore a quella maschile
14
: la percentuale di donne recluse non ha infatti
mai raggiunto la soglia del 6% sul totale della popolazione detenuta, attestandosi –
pressoché costantemente – su una media del 4%
15
, grossomodo in linea con il valore
del dato statistico europeo
16
.
Questa sottorappresentazione numerica è strettamente correlata alla tipologia e
alla gravità dei reati maggiormente commessi dalle donne: anzitutto, alla luce dei
dati forniti dal DAP, si può certamente affermare che in Italia, l’incidenza delle
donne arrestate e denunciate si conferma nettamente inferiore a quella maschile,
specie con riferimento a tipologie di reati contraddistinti dall’uso della violenza, i
quali risultano tendenzialmente appannaggio degli uomini. Si tratta di un dato che
è rimasto pressoché invariato con il trascorrere degli anni e che, molto
probabilmente, ha contribuito ad enfatizzare la marginalità delle donne, suscitando
14
Secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, aggiornati al
31.07.2022 e rinvenibili al sito www.giustizia.it , sono circa 54.979 le persone detenute negli istituti
di pena, di cui 2.307 sono donne, pari al 4,2% del totale della popolazione detenuta. In questo senso,
si può statisticamente parlare di una vera e propria sottorappresentazione dal momento che, mentre
i dati ISTAT dimostrano che la popolazione libera è equamente divisa tra uomini e donne (le quali
rappresentano circa il 51% della popolazione totale); diversamente, la popolazione detenuta è
formata quasi esclusivamente da uomini (i quali rappresentano, con 51.109 unità, il 95, 8% della
popolazione detenuta generale).
15
Osservando l’andamento del dato percentuale negli ultimi trent’anni, variazioni significative si
sono registrate nel corso degli anni ’90, con un massimo storico che ha raggiunto il 5,43% nel 1992
ed un minimo storico sceso al 3,83% nel 1998. In numeri assoluti, non si sono mai superate le tremila
unità e non si è mai andato al di sotto delle millecinquecento, ad eccezione del 2010, anno in cui è
stato raggiunto il record assoluto di presenza femminile di 3.003 detenute, le quali rappresentarono
però il 4,4% dell’intera popolazione reclusa, dato il momento storico di massimo sovraffollamento
del sistema penitenziario italiano V. I numeri della detenzione femminile, in AA.VV. “Il carcere
secondo la Costituzione”, XV Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, 2019, p.1; per
un aggiornamento più recente altresì V. Donne e bambini, in AA.VV. “Il carcere visto da dentro”,
XVIII Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, 2022, p.30, entrambi consultabili al sito
www.antigone.it
16
Secondo gli ultimi dati disponibili relativi al 31 gennaio 2021, il valore mediano dei paesi del
Consiglio d’Europa si attesta intorno al 4. 7%, per cui la percentuale italiana risulta di poco inferiore,
V. La calda estate delle carceri, Rapporto di metà anno sulle condizioni di detenzione in Italia in
www.antigone.it, 28 luglio 2022, p. 8.
14
nei confronti del fenomeno carcerario femminile una scarsa e inadeguata attenzione
da parte delle istituzioni competenti
17
.
Se l’incidenza della criminalità femminile non è particolarmente cambiata
rispetto al passato, vanno tuttavia evidenziati due elementi – da leggersi
congiuntamente al dato numerico – che hanno reso ulteriormente peculiare la
detenzione femminile: la composizione della popolazione carceraria e la tipologia
di reati commessi dalle donne.
Con riferimento ai soggetti coinvolti nel sistema penale italiano, la popolazione
femminile oggi si caratterizza per una diversificata provenienza geografica delle
detenute: con il passare degli anni, infatti, si è registrato un aumento esponenziale
delle recluse straniere, le quali rappresentano circa il 40% delle detenute totali
18
e,
più che aggiungersi alle già presenti carcerate italiane, sembrano piuttosto
progressivamente sostituirsi ad esse
19
. Tale fenomeno trae origine dal sempre più
ampio coinvolgimento femminile nelle grandi migrazioni, determinate
dall’avanzare della globalizzazione e da fenomeni ormai consolidati come la
radicale trasformazione sociale e politica dei paesi dell’Est Europa negli anni
Novanta, fino ai massicci flussi di migrazione provenienti dall’Africa negli anni
17
M.V. VALENTINO, Diritto alla salute e carcere dall’ottica della detenzione femminile, in Riv.
Antigone, n.1/2 – 2016, cit. p.98.
18
Al 30 giugno 2022, le detenute straniere erano 710 (circa il 30,7 % della popolazione reclusa
femminile totale e il 4, 1% della popolazione detenuta straniera), di cui provenienti in prevalenza
dalla Romania (24, 2%) e dalla Nigeria (16, 8%), seguite da Bosnia ed Erzegovina (6,2%), V. La
calda estate delle carceri, Rapporto di metà anno sulle condizioni di detenzione in Italia, 28 luglio
2022, in www.Antigone.it.; Cfr. M. MIRAVALLE, Quale genere di detenzione? Le donne in carcere
in Italia e in Europa, in G. MANTOVANI (a cura di) Donne ristrette, Ledizioni, Torino, 2018, p.37
precisa che la consistente presenza di detenute straniere in Italia è frutto di una sovra-
rappresentazione in quanto le percentuali penitenziarie mostrano numeri di gran lunga maggiori,
ricomprendendo sia la popolazione straniera “regolare” sia quella “irregolare” sul territorio
nazionale, a differenza dei Dati Istat che riguardano solamente gli stranieri “regolari”.
19
M. V. VALENTINO, Diritto alla salute e carcere dall’ottica della detenzione femminile, in Riv.
Antigone, n. 1 /2, La tutela della salute in carcere tra diritto vigente e diritto vivente, Napoli, 2016,
cit. p. 98; a tal proposito, M. GRAZIOSI, Salute della donna e detenzione, in Tavolo 3 Stati Generali
sull’Esecuzione penale, Allegato 4, 2016, p.1, osserva come l’incremento della presenza di detenute
straniere a partire dagli anni ’80 del Novecento e la loro sovra-rappresentazione rispetto alle recluse
italiane, rappresenta «un fenomeno complesso, analogo a quanto sta accadendo negli Stati Uniti,
dove le donne di origine ispanica e asiatica stanno rimpiazzando progressivamente in carcere le
donne di origine anglosassone, affiancandosi alla ormai dominante popolazione afroamericana».
15
duemila
20
. Le nazioni maggiormente rappresentative sono, in ambito comunitario,
la Romania e in ambito extra-comunitario la Nigeria, la Bosnia ed Erzegovina
21
.
Quanto alla disamina delle diverse fattispecie che connotano la criminalità
femminile, emerge dalle statistiche come la maggior parte dei reati ascritti alle
donne riguardi gli illeciti contro il patrimonio, di cui il furto
22
appare il reato
maggiormente compiuto, seguito dall’area di delitti caratterizzati dal ricorso ad una
certa attività di progettazione ed organizzazione, quali, ad esempio, truffe e frodi
informatiche
23
. Questa tipologia di attività illecite è divenuta nel tempo
preponderante anche rispetto ai reati derivanti dalla violazione del T.U. in materia
di disciplina sugli stupefacenti
24
, rispetto ai quali, buona parte delle destinatarie di
condanne è rappresentata da donne straniere, le quali, pur svolgendo un ruolo
marginale, spesso sono utilizzate come “manovalanza” da parte delle
organizzazioni criminali dedite al traffico internazionale di stupefacenti
25
. Il
coinvolgimento delle straniere in attività illecite emerge anche con riferimento ai
reati legati al fenomeno della tratta di esseri umani e delle organizzazioni che
20
Cfr. M. MIRAVALLE, op. cit., 2018, cit. p. 37.
21
Ivi, p.38, rispetto alla popolazione straniera maschile, composta in prevalenza da detenuti
provenienti dai paesi del Nord Africa e dunque Marocco, al primo posto, seguito da Algeria, Tunisia
ed Egitto; le detenute straniere provenienti da queste aree geografiche sono in percentuale
nettamente inferiore.
22
La conferma arriva da uno studio effettuato dalla Criminalpol del Dipartimento della Pubblica
Sicurezza ed è quanto emerge altresì dal report “Donne e criminalità. Analisi dei reati commessi
dalle donne e della detenzione femminile negli istituti penitenziari”, p.26, grafico 7 (rinvenibile al
sito www.interno.gov.it), redatto dalla Direzione centrale della Polizia criminale, sotto la guida del
prefetto Vittorio Rizzi e sulla base dei dati statistici rilevati dall’Amministrazione Penitenziaria tra
il 2019 e il 2020. Dall’analisi dei dati emerge infatti che le donne denunciate e arrestate per furto
sono 23.339 nel 2019 e 17.429 nel 2020, registrando un decremento del 25,32%, probabilmente
legato alla situazione emergenziale Covid-19, che ha evidentemente determinato profondi
cambiamenti nella quotidianità e – verosimilmente – anche nell’incidenza delle attività delittuose.
23
V. Donne e criminalità. Analisi dei reati commessi dalle donne e della detenzione femminile negli
istituti penitenziari”, www.internogov.it , con riferimento ai reati di truffa e frode informatica, le
donne denunciate o arrestate sono pari al 24,2% del totale dei soggetti denunciati e arrestati nel 2019,
stabilizzandosi, invece, il dato intorno al 24,7% nel 2020
24
D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti
e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”, da
ultimo aggiornato con le modifiche apportate dal D.M. 23 febbraio 2022 (Ministero della Salute) e
dal D.M. 29 luglio 2022.
25
I. BARHOLINI, Donne autrici o vittime di reato? Un’indagine sull’efficacia delle misure alternative
nei percorsi di recupero delle detenute nel contesto agrigentino, in Rivista di Criminologia,
Vittimologia e Sicurezza – Vol. IX – n. 2, 2015, p. 34; ancor prima osservato da F. FACCIOLI, Le
donne in carcere: la composizione sociale, i reati, le pene in E. CAMPELLI, F. FACCIOLI, V.
GIORDANO, T. PITCH (a cura di), Donne in carcere. Ricerca sulla detenzione femminile in Italia,
Feltrinelli, Milano, 1992, p. 46.
16
gestiscono la prostituzione, nell’ambito delle quali queste ultime sono talvolta
vittime, talaltra protagoniste, spesso condannate per favoreggiamento.
Per quanto riguarda i reati contro la persona, quali il tentato omicidio, l’omicidio
volontario ed altri crimini connessi, dalla constatazione delle varie fattispecie
criminose, risulta una bassa incidenza della donna quale autrice principale di tali
reati. Tuttavia, in relazione ai reati di cui all’art.416-bis c.p., il coinvolgimento
femminile è paragonabile a quello maschile: infatti, le donne, da un ruolo di mere
gregarie all’interno dell’organizzazione criminale mafiosa, spesso hanno assunto
ruoli di vertice, in particolare, in sostituzione dei propri congiunti, tratti in carcere
o latitanti.
Aldilà di queste ultime ipotesi connotate da particolare efferatezza, è evidente la
minore evasività della delinquenza femminile, nonché la mancanza, nelle diverse
tipologie di reati “rosa”, di elementi quali la violenza e la pericolosità sociale.
Alla minore gravità delle condotte femminili si lega la durata della pena inflitta:
tra le detenute destinatarie di una condanna definitiva, la maggior parte deve
scontare una pena inferiore ai 5 anni, con la conseguenza che le permanenze in
carcere delle donne sono tendenzialmente più brevi rispetto a quelle degli uomini.
La conferma di questo dato si ritrova nel numero di ingressi femminili in carcere
26
,
i quali si presentano in percentuale superiore rispetto a quella statica delle presenze.
Inoltre, sul totale delle persone in carico al sistema dell’esecuzione penale
esterna, tra coloro che beneficiano di una misura alternativa (quale la detenzione
domiciliare, l’affidamento in prova al servizio sociale e la semilibertà), le donne
ricoprono percentuali significative, più alte rispetto a quelle delle presenze in
carcere; questo dato si spiega – nuovamente – per la tipologia dei reati commessi e
la conseguente breve durata delle pene inflitte ma anche con la maggiore fiducia
che il sistema giudiziario tendenzialmente è disposto ad accordare alle detenute. Da
questo punto di vista, è evidente come il ridotto lasso temporale che le donne si
trovano a trascorrere in carcere può rappresentare un elemento di vantaggio rispetto
alla popolazione maschile. Tuttavia, se si cambia angolo di visuale, la bassa
permanenza delle donne in carcere può dar adito ad un cortocircuito che da tempo
26
V. Donne e bambini, in AA.VV. “Il carcere visto da dentro”, XVIII Rapporto di Antigone sulle
condizioni di detenzione, 2022, p.3, www.antigone.it , secondo cui nel 2021 gli ingressi in carcere
da parte delle donne sono stati il 6, 9% di quelli complessivi, il cui maggior numero si è riscontrato
in Lombardia (401), seguito dal Lazio (385), Campania (241), Piemonte (240) e Puglia (182),
17
affligge il sistema penitenziario italiano: il fenomeno del carcere “a porte
girevoli”
27
, il quale si sostanzia in una continua sequenza di uscite ed entrate.
Questo è in parte dovuto al fatto che la tipologia di reati commessi dalle donne, per
quanto sia meno grave e dunque comporti una maggiore contrazione dei periodi di
reclusione, solitamente è il risultato di un percorso di marginalità sociale e familiare
che va ad incidere sulla reiterazione delle condotte antigiuridiche
28
, spalancando le
porte del carcere per brevi e ripetute permanenze
29
, che, in quanto tali, non
permettono la predisposizione di un percorso compiuto di riabilitazione,
determinando, al contrario, un circolo vizioso in cui si registra un vertiginoso
aumento della recidiva.
Se alla luce del quadro delineato, emblematiche sono le differenze – in termini
statistici - tra detenzione femminile e maschile, è altrettanto importante sottolineare
come vi siano degli elementi che permettono di operare anche dei parallelismi.
In primo luogo, guardando l’andamento nel lungo periodo delle presenze in
carcere è stato osservato come gli eventi deflattivi degli ultimi vent’anni abbiano
interessato la popolazione penitenziaria nella sua interezza, portando dunque ad un
livellamento delle riduzioni percentuali tra uomini e donne
30
. A tal proposito, nella
recente storia penitenziaria, due sono stati i momenti di contrazione più
significativi: il primo da ricondursi al periodo tra il 2005 e il 2006, anno in cui fu
approvato l’indulto, in occasione del quale si assistette ad un calo della presenza di
uomini e donne
31
; il secondo a cavallo tra il 2013 e il 2014, in corrispondenza della
27
In tema, cfr. P. MASSARO, Il carcere delle donne: un’istituzione maschile? in A. CIVITA, P.
MASSARO (a cura di), Devianza e diseguaglianza di genere, Milano, 2011, p.237, afferma che
l’esiguità delle presenze nelle sezioni femminili, associata al costante ricambio conseguente alla
brevità delle pene irrogate (c.d. fenomeno del carcere come “porta girevole”) consente di
comprendere anche la difficoltà nella realizzazione di progetti e, in generale, di attività e programmi
trattamentali.
28
In tal senso, A. LORENZETTI, Genere e detenzione. Le aporie costituzionali di fronte ad una
“doppia reclusione” in Rivista di BioDiritto 1/2021, p. 150 sottolinea come il tema della devianza
femminile sia stato confinato all’invisibilità e all’insignificanza da parte degli studiosi di diritto
penale e di criminologia, pertanto, dal momento che le analisi dimostrano che la criminalità
femminile appare prevalentemente orientata verso reati riconducibili a situazioni di marginalità
piuttosto che di allarme sociale, più che nella dimensione penale e criminologica, tali studi
potrebbero trovare piuttosto una risposta efficace nella dimensione sociale del fenomeno,
intercettando situazioni di disagio come preludio alla commissione di reati.
29
G. MAROTTA, Donne, criminalità e carcere, 1989, Roma
30
M. MIRAVALLE, op. cit., p.35
31
Ibidem, per quanto riguarda i tassi di carcerazione maschile, si passò da 56.719 unità nel 2005 a
“sole” 37.335 nel 2006. Più rilevante fu il calo registrato sulla popolazione femminile, la quale,
18
nota condanna inflitta all’Italia per violazione dell’art.3 della Convenzione Europea
dei diritti umani, da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo con sentenza
“Torregiani” 8 gennaio 2013
32
, a seguito della quale il calo si attestò ugualmente
per entrambi i sessi al 14%
33
.
Quest’ultimo dato mette in luce un ulteriore elemento di forte analogia tra la
popolazione detenuta femminile e maschile, rappresentato da uno dei problemi che
da tempo affliggono maggiormente l’Italia penitenziaria, ossia l’eccessivo ricorso
alla custodia cautelare in carcere, che, stando alla lettera della norma, dovrebbe
essere l’extrema ratio in virtù dei principi costituzionali di presunzione di non
colpevolezza ed inviolabilità della libertà personale.
Infatti, per quanto si sia registrata una graduale contrazione dell’uso cronico di
tale misura (nel rispetto degli impegni assunti con l’Unione Europea), in Italia, i
detenuti in attesa di una sentenza definitiva continuano a rappresentare circa il 30%
della popolazione penitenziaria totale, percentuale che, nel contesto europeo,
rimane una delle più alte. In questo solco, si inserisce il dato femminile che, con
aritmetica precisione, segue l’andamento della popolazione detenuta generale,
attestandosi anch’esso intorno ai medesimi valori, tuttavia con una preoccupante
puntualizzazione: il numero delle detenute in attesa di giudizio, se rapportato a
quello delle detenute definitive
34
, risulta drammaticamente alto; questa appare una
differenza significativa rispetto alla popolazione maschile, composta per la
maggioranza da detenuti definitivi.
essendo la maggiore beneficiaria del provvedimento clemenziale passò da 2.805 unità nel 2005 a
1.670 nel 2006, per cui, in un solo anno, circa il 40% delle detenute uscì dal sistema penitenziario.
32
Corte Europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, Causa Torregiani e altri c. Italia, sentenza 8 gennaio
2013 (Ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10),
consultabile al sito www.giustizia.it.
33
Rispetto agli effetti deflattivi dell’indulto, la contrazione avvenuta nel 2013 fu più lenta e
contenuta, in quanto principalmente dovuta alle modifiche legislative apportate dal “Decreto
Carceri” 1° luglio 2013, n. 78, convertito in legge 9 agosto 2013, n. 94, finalizzate a risolvere il
problema del sovraffollamento carcerario attraverso la riduzione dell’uso della custodia cautelare,
da una parte e l’estensione dei termini per usufruire della liberazione anticipata, dall’altra.
34
M.L. FADDA, La detenzione femminile: questioni e prospettive, in www.Ristrettiorizzonti.it, 2010,
p.4, secondo la quale, una spiegazione dell’ampio ricorso alla custodia cautelare per le detenute
potrebbe rinvenirsi esaminando la tipologia di reati femminili, prevalentemente contro il patrimonio
e legati alla violazione del T.U. in materia di stupefacenti (D.P.R. 309 del 1990), in ordine ai quali
la custodia cautelare, più che sanzionare la gravità del reato, svolgerebbe una funzione dissuasiva al
fine di arginare il rischio di perdurante recidiva, talvolta causata dalla condizione di marginalità che
le donne soffrono, in quanto spesso deficitarie di riferimenti esterni che consentano la concessione
di misure alternative alla detenzione, quali gli arresti domiciliari.
19
L’analisi multifattoriale della delittuosità femminile finora svolta descrive
evidentemente una comunità numericamente esigua e pone indubbiamente di fronte
ad un interrogativo: perché le donne delinquono meno degli uomini?
35
A tale quesito, tuttavia, sembra impossibile rispondere adeguatamente mediante
un unico sistema interpretativo che propone una lettura delle percentuali in termini
meramente statistici, poiché il rischio è quello di elevare la condizione maschile a
parametro di confronto, così riproducendo un ordine simbolico e fisico entro cui la
donna non può essere altro che seconda
36
, assimilandola ad una generalità che non
è generale. Infatti, per molto tempo, la differenza tra i diversi tassi di delinquenza
si è misurata, non tanto in una dialettica sullo stesso piano tra uomini e donne,
quanto piuttosto nella distanza tra queste ultime e la preponderante componente
maschile, autodefinitasi e riconosciutasi come norma
37
.
È dunque evidente come la domanda sul motivo dei bassi tassi di devianza
femminile sia mal posta in quanto risente chiaramente di una lettura che prende le
mosse da un’ottica prettamente maschile, propria di un sistema culturale che per
anni ha negato una propria soggettività alla donna nella vita sociale e, a maggior
ragione, nella vita criminale.
Come già evidenziato, storicamente, la donna deviante che contravveniva alle
regole che la società maschile si era data, non è mai stata considerata come
portatrice cosciente di ribellione in quanto, a causa della sua asserita inferiorità
biologica e psichica, non era culturalmente ammissibile che quest’ultima potesse
decidere e praticare consapevolmente l’uscita dal perimetro delle regole.
Tale approccio ha avuto un forte riflesso anche sugli studi criminologici,
nell’ambito dei quali il fenomeno della devianza femminile è stato studiato per
35
M.L. FADDA, Differenza di genere e criminalità. Alcuni cenni in ordine ad un approccio storico,
sociologico e criminologico, in Dir.pen, cont., 20 settembre 2012, p. 1 e ss. cui si rimanda per
un’esaustiva rassegna delle diverse teorie scontratesi nell’ambito del dibattito sociologico intorno
alla questione della criminalità femminile e a quello che è stato definito il “problema della
proporzionalità”, ossia le ragioni del basso tasso di devianza delle donne; V. altresì S. POLO, La
trasformazione del concetto di donna delinquente da Lombroso ai giorni d’oggi, in
www.progettofahrenheit.it, 2008, p. 4 e ss.; M. BUTTARINI, M. VANTAGGIATO, “Donne criminali”,
Forlì, 2008, p.1 e ss.; T. PITCH, Sesso e genere del e nel diritto: il femminismo giuridico, in E.
SANTORO (a cura di), Diritto come questione sociale, Giappichelli, Torino, 2010, p.116; S.
CIUFFOLETTI, op.cit. 2014, p. 47.
36
L. BRAMBILLA, Essere donne adulte, in M. CORNACCHIA, S. TRAMMA (a cura di), Vulnerabilità
in età adulta. Uno sguardo pedagogico, Roma, 2019, cit. p. 170.
37
Ibidem
20
lungo tempo attraverso la lente del rapporto superiorità/inferiorità della donna
rispetto all’uomo e proprio la constatazione del basso numero assoluto e percentuale
delle donne che delinquono – messo in luce finora – ha rappresentato il criterio cui
ancorare tale concetto di inferiorità, confinando la popolazione detenuta femminile
all’invisibilità.
Al contrario, occorrerebbe, mediante un’operazione di controcampo,
domandarsi quali siano invece le ragioni che spingono gli uomini a commettere
reati in quantità nettamente superiore rispetto alle donne
38
, con l’obiettivo, non solo
di offrire una diversa modalità di interpellare i dati a disposizione
39
, ma anche di
scardinare un sistema sociale e culturale che per lungo tempo ha considerato la
condizione femminile come qualcosa di altro e diverso rispetto all’universo
maschile
40
, riducendola ad una mera eccezione, secondo il noto “paradigma della
residualità”
41
.
La stima dei dati comparati e la conseguente enfasi sulla marginalità del
fenomeno detentivo femminile rispetto al penitenziario maschile non possono
dunque esaurire il campo di indagine. Sussiste pertanto l’esigenza di operare un
diverso apprezzamento, lontano da una lettura riduttiva e miope, posto che la
ricaduta sociale di una percentuale così apparentemente contenuta, in realtà,
determina conseguenze di ampia portata sulla vita che si trovano ad affrontare le
donne una volta entrate a far parte delle dinamiche interne al sistema
penitenziario
42
.
38
A tale proposito T. PITCH, Sesso e genere del e nel diritto: il femminismo giuridico, in E. SANTORO
(a cura di) Diritto come questione sociale, Giappichelli, Torino, 2010, cit. p. 116 ricorda che «solo
recentemente ci si è posti la questione inversa, ossia perché siano i maschi ad essere maggiormente
coinvolti nella giustizia penale».
39
M.L. FADDA, La detenzione femminile: questioni e prospettive, 2010, p. 3 prospetta una possibile
soluzione, raccomandando un maggiore approfondimento, in campo criminologico e sociologico,
della particolarità per cui le donne commettono raramente reati, intendendola come un segno della
diversità femminile non tanto in rapporto agli uomini, quanto piuttosto in rapporto alla norma e alla
percezione della sua cogenza.
40
La tendenza a considerare – con segno di disvalore – il femminile come “altro” rispetto al maschile
trovava una sua corrispondenza diretta nella società libera ed è stato oggetto del profondo dibattito
avviato dai movimenti femministi negli anni ’70, cfr., supra, p.1
41
In questi termini S. CIUFFOLETTI, The female brain: la prospettiva biologicamente orientata nella
tutela dei diritti delle donne detenute in C. BOTRUGNO, G. CAPUTO (a cura di) Vulnerabilità, carcere
e nuove tecnologie. Prospettive di ricerca sul diritto alla salute, Phasar Edizioni, Firenze, 2020, cit.
p. 129.
42
In particolare, M.L. FADDA, op.cit., 2010, p. 3, evidenzia come la ricaduta sociale
dell’incarcerazione femminile potrebbe avere un impatto potenzialmente negativo sui soggetti liberi