Il nome Microsoft e quello del suo fondatore e proprietario Bill
Gates oramai riecheggiano nelle nostre case da oltre 10 anni.
I nostri computer (pc) ci permettono di lavorare, di studiare, di
comunicare con persone poste a distanze notevolissime, il tutto col
minimo sforzo ed impegno. Essi sono diventati parte integrante della
nostra vita. Non sembra quindi azzardato riconoscere almeno due
grandi meriti alla società di Redmond, città statunitense sede della
Microsoft.
Il primo scaturisce da un’analisi della storia evolutiva del pc, che
da esclusivo strumento professionale di lavoro, accessibile a pochi, è
diventato anche un familiare e democratico “elettrodomestico”.
Il secondo merito riguarda la simbiosi Microsoft-Internet. Essa si è
fatta promotrice di progresso agevolando gli interscambi culturali della
comunità mondiale e contribuendo in maniera significativa alla
costituzione del “villaggio globale”. È una simbiosi innegabilmente
significativa di sviluppo e benessere. La Microsoft ha fatto la storia
dell’informatica e, attraverso questa, ha contribuito da protagonista a
costruire quella del nostro costume. In breve, la Microsoft ci ha
traghettato verso la nuova era digitale.
Se è vero che non si può parlare di storia dell’informatica senza
fare accenno al notevole contributo ad essa apportato dall’azienda di Bill
Gates, è anche legittimo chiedersi se il fenomeno Microsoft è solo frutto
di capacità informatica ed abilità imprenditoriale o se c’è dell’altro,
ovvero spregiudicate strategie aziendali che hanno impedito l’emergere
di imprese concorrenti, controparti nelle vicende giudiziarie che hanno
coinvolto la Microsoft.
Scopo del presente lavoro è quello di condurre, congiuntamente
ad un’analisi imparziale di tali vicende, un approfondimento teso a
verificare la legittimità e la fondatezza dell’impianto accusatorio in capo
alla società di Redmond. Per esigenze di chiarezza l’intero argomento è
articolato in cinque capitoli.
Il primo capitolo - “Il diritto antitrust negli Stati Uniti” - è
idealmente suddivisibile in due parti: nella prima vengono analizzate le
radici storiche e le ragioni economico-politiche, sociali e morali che
hanno ispirato la nascita della normativa antitrust e hanno visto
impegnato il governo americano sul fronte della lotta ai monopoli
privati, ai trusts e alla loro crescente pressione sull’assetto politico; nella
seconda parte vengono esaminati i provvedimenti antimonopolio che
nell’arco di un centennio, ovvero dallo Sherman Act (1890) ad oggi, si
sono succeduti stratificandosi e corroborando la normativa antitrust
attualmente vigente.
Nel secondo capitolo - “Le premesse ideologiche, istituzionali e
giuridiche del caso Microsoft” - viene approfondito il rapporto
intercorrente tra la tutela della concorrenza e il contesto nel quale si è
maturata la vicenda giudiziaria riguardante la società di Gates. Più
specificatamente è stata affrontata la problematica relativa
all’interpretazione ed ai limiti applicativi inerenti al principale
provvedimento legislativo fondante della normativa antitrust ovvero lo
Sherman Act.
Il terzo capitolo - “Le premesse del caso Microsoft” - affronta
tematiche e prerogative tipiche del mercato del software sia sotto li
profilo economico sia sotto quello strutturale che, fortemente
condizionato dalle network externalities, sembra assecondare la naturale
ed immanente propensione di tale settore verso l’adozione di standard
tecnici prevalenti. Un ulteriore approfondimento svolto in questo
capitolo è rappresentato dalla pianificazione e successiva monopolization
del mercato dell’Internet software da parte della Microsoft.
Il quarto capitolo - “United States of America vs. Microsoft
Corporation” -, partendo da un esame delle tappe, che progressivamente
hanno scandito il concretizzarsi del miracolo economico-aziendale
Microsoft, e dai successi commerciali, che hanno accompagnato
l’evoluzione e la crescita della società di Redmond, analizza istante per
istante le varie fasi giudiziarie durante le quali hanno preso forma e
consistenza le altalenanti sentenze relative a tale vicenda processuale: da
quella di condanna in primo grado, seguita dall’adozione di misure
correttive, a quella del sorprendete ribaltamento in appello fino
all’epilogo che ha sostanzialmente segnato il ridimensionamento
dell’antitrust policy nel mercato del software.
Nell’ultimo capitolo - “Conclusioni sul futuro dell’antitrust” -
oltre a ribadire da un lato la manifesta inadeguatezza palesata dalla
politica antitrust in mercati fortemente innovativi come quello del
software, e più in generale in quelli appartenenti alla new economy, e a
ravvisare dall’altro nel fenomeno di globalizzazione un crescente
pericolo nella tenuta e permeabilità del diritto antitrust, viene
approfondito il percorso evolutivo che la disciplina antimonopolio
americana sembra aver intrapreso in campo transnazionale.
CAPITOLO 1
“Il diritto antitrust negli Stati Uniti”
1.1. Le ragioni storiche della nascita dell’antitrust in America. 1.2. Principi
antitrust nei paesi della “common law”. 1.3. La normativa antitrust
americana. 1.4. La “rule of reason”. 1.5. L’organizzazione antitrust negli
USA. 1.6. Procedure, misure correttive e sanzioni.
1.1. “Le ragioni storiche della nascita dell’antitrust in America”
La scaturigine della legislazione antitrust affonda le sue radici
storico-politiche primariamente nell’esigenza comune a tutti i sistemi
economici moderni, fondati sui principi liberistici, di porre un freno agli
effetti distorsivi e alle aberranti storture cui è soggetta, per sua natura,
un’economia libera ed aperta.
Alla fine del XIX secolo si riconobbe che il “libero mercato”
1
non
era in grado di equilibrarsi in maniera autonoma, come erroneamente si
era sostenuto fino a quel momento.
1
Esatto contrario dell’economia pianificata (dove è lo Stato ad assumere tutte le
decisioni relative alla produzione e al consumo, provvedendo all’allocazione delle
risorse: lavoro, terra, materie prime, macchinari ecc.), le economie di libero mercato
presuppongo un ingerenza pubblica minima. Lo Stato non interviene nell’allocazione
delle risorse e le scelte in merito alla loro distribuzione dipendono da un numero
imprecisato di decisioni individuali di produttori (imprese) e consumatori (famiglie)
che interagiscono sui mercati. Si è ritenuto, sin dalle origini, che tale modello
economico, accompagnato al “capitalismo industriale” e presupposta una condizione di
“libera iniziativa economica”, fosse foriero di progresso economico. Perché ciò si
avveri, il libero mercato non può prescindere dalla sua componente essenziale: la
concorrenza. Questa, oltre a rappresentare la “molla” che spinge produttori e
rivenditori (i protagonisti del processo economico) verso scelte sempre nuove al fine di
ottenere un costante miglioramento della qualità dei prodotti, presenta innegabili
benefici fisiologici:
• innesca la “corsa al ribasso” dei prezzi verso quello di costo,
Si prese, invece, coscienza del fatto che l’operare delle forze
economiche, se affidato a se stesso e non sottoposto ad alcuna forma di
controllo, non assicurava la conservazione del pluralismo economico,
espressione di un sano e corretto funzionamento del mercato, ma creava
pericolosi squilibri dell’assetto concorrenziale costantemente minacciato
da concentrazioni monopolistiche ed oligopoli
2
.
• elimina i sopraprofitti dell'imprenditore,
• promuove la crescita qualitativa dei prodotti,
• esclude dal mercato le unità produttive inefficienti liberando risorse e
rendendole disponibili per impieghi più redditizi,
• promuove la crescita quantitativa dei prodotti poiché l’incentivo alla
differenziazione produttiva moltiplica le alternative di scelta dei consumatori,
• diventa essa stessa garante della libertà del mercato in quanto dotata di
un immanente (ma non infallibile) potenziale di autoregolazione che impedisce
stabili concentrazioni di potere economico o collusioni, favorendo l’accesso al
mercato e l’affermazione degli operatori più capaci.
La concorrenza, in tal modo, diventa strumento di giustizia sociale oltreché sua
espressione.
2
Il monopolio è una forma di mercato in cui l’offerta è concentrata nelle mani un’unica
impresa ed in cui il bene prodotto non ha sostituti stretti. I fattori che possono
consentire ad un’impresa di esercitare una posizione di monopolio sono: controllo
esclusivo di risorse essenziali (es. materie prime e brevetti), restrizioni governative
all’ingresso di nuove imprese (assegnazione esclusiva della produzione allo Stato o a
taluni enti, monopolio legale) ed infine minimizzazione dei costi di produzione (il
monopolio sorge in questi casi perché rappresenta il modo meno costoso per produrre
una quantità data di un bene, monopolio naturale). Il monopolista prima di fissare il
prezzo di vendita del bene prodotto deve individuarne il livello ottimale di produzione
ossia la quantità che intende offrire al mercato. Essa corrisponde alla equivalenza tra
ricavo marginale (l’incremento del ricavo totale all’aumentare di una unità del
prodotto) e costo marginale (l’incremento del costo totale al variare di una unità della
quantità di prodotto) individuata dal punto di incontro tra le due rispettive curve.
Individuato il livello ottimale di produzione, risulterà definito anche il prezzo ottimale
di vendita. Rispetto alla concorrenza perfetta, il monopolio comporta dei “costi sociali”
elevati per la comunità: il prezzo, ottimo per il monopolista, non può dirsi altrettanto
per la collettività. Infatti il monopolista, non trovando concorrenza da parte di altri
produttori, offre una quantità di beni inferiore alla domanda e lo fa anche ad un prezzo
superiore (a tutto vantaggio dell’imprenditore titolare dell’azienda che ai comuni
profitti vede sommarsi gli extraprofitti o rendita del monopolista dati dalla differenza
tra prezzo e costo medio).L’oligopolio è un forma di mercato in cui l’offerta è
concentrata nelle mani di un numero limitato di grandi imprese. È una struttura
industriale assai frequente nei paesi occidentali dato che molti settori richiedono
significative economie di scala e ingenti investimenti tecnologici.
Siffatte preoccupazioni generarono l’esigenza di attuare una
politica di regolamentazione
3
che ammettesse sulle imprese forme di
controllo ed intervento pubblico attraverso l’emanazione di norme
predisposte a tutela della concorrenza.
Queste norme dovevano operare eliminando abusi monopolistici
e anticoncorrenziali in due modi: o vietando che le imprese adottassero
comportamenti lesivi del “gioco della concorrenza”, o che
approfittassero del loro potere economico. La disciplina, sorta quindi
dalle ceneri del fallimento del mercato e delle regole che fino a quel
momento si era ritenuto lo governassero, fu posta in essere al solo scopo
di avvicinarsi il più possibile all'ideale modello di ”concorrenza
perfetta”
4
poiché ritenuta positiva per l’economia nel suo complesso e
3
In generale, non sempre tutti i settori economici sono sottoposti al controllo
dell’autorità antitrust. Per quelli caratterizzati da preminenti interessi di natura
pubblica e per questo disciplinati da regole amministrative di settore, è possibile
imbattersi in ipotesi o di assoluta latitanza della normativa antimonopolistica o di una
parziale applicazione o di completo assoggettamento alle norme antitrust, come
avviene per le cosiddette regulated industries (si pensi ad esempio agli enti che si
occupano di trasporti e agli enti creditizi). E’ possibile, infatti, per gli enti adibiti alla
regolamentazione delle imprese che rientrano in questi settori, controllare l’entrata sul
mercato o eliminare la concorrenza già presente sullo stesso. Inoltre, per quanto
concerne le concentrazioni e le fusioni, la normativa antitrust generale prevede, poi, che
queste vengano preventivamente notificate a tali organi (negli USA sono Department of
Justice e Federal Trade Commission), in attesa di un loro nullaosta. C’è da segnalare che
tale ultima previsione opera per le fusioni, anche solo potenzialmente incidenti sulla
concorrenza di questi settori ed a prescindere dall’area geografica o dal ramo
commerciale di appartenenza delle imprese coinvolte in tali operazioni finanziarie.
4
Una forma di mercato perfettamente concorrenziale è difficilmente realizzabile nella
realtà: al contrario, la naturale evoluzione dello stesso sembra tendere verso modelli
aggregativi d’impresa contraddistinti da concentrazioni di potere economico sempre
più ampie, tipiche dell’economie di scala, fino a giungere alle multinazionali.
Le condizioni che contraddistinguono un mercato in “concorrenza perfetta” sono:
• atomicità: nel mercato sono presenti numerosi soggetti economici
(consumatori e imprese), ognuno dei quali domanda ed offre beni di consumo
che costituiscono una piccolissima percentuale della merce complessivamente
presente nel mercato; in questo modo nessun singolo operatore,
foriera di un’allocazione efficiente
5
e senza sprechi delle risorse.
Le istituzioni politiche che per prime avvertirono l’esigenza di un
ordinamento antimonopolistico e si adoperarono per attuarlo, furono
quelle americane.
Ragion per cui, per comprendere al meglio il fenomeno della
nascita del diritto antitrust ed il clima in cui le sue leggi maturarono,
occorre riportarsi al quadro storico, economico e politico, che precedette
l’emanazione dello Sherman Act (1890) del Clayton Act e del Federal Trade
Commission Act (1914).
individualmente considerato, è in grado di influenzare con il suo
atteggiamento la domanda e l’offerta del mercato e, conseguentemente, il
prezzo del bene,
• trasparenza: le informazioni sulle condizioni delle contrattazioni, sui
prezzi e le qualità delle merci sono note a tutti gli operatori,
• omogeneità: in ogni mercato i beni presentano analoghe caratteristiche o
sono identici presso un qualsiasi produttore e quindi sono sostituibili,
• libertà di ingresso o assenza di coalizione: ciascun operatore è libero di
acquistare e vendere le quantità che desidera. Ogni soggetto economico, cioè,
deve esser in grado di entrare in qualsiasi momento nel mercato come
consumatore o produttore. Non devono, quindi, esistere barriere d’entrata né
tantomeno intese tra imprenditori volte ad ostacolare l’accesso nel mercato di
nuove imprese,
• fluidità: i produttori e i consumatori al prezzo di mercato riescono a
vendere e ad acquistare tutta la merce che desiderano.
In tale modello ciascuna impresa deve decidere soltanto quanto produrre essendo il
prezzo di vendita definito dal mercato. L’imprenditore renderà massimo il profitto
totale (differenza tra ricavi e costi totali) quando espanderà la produzione fino al punto
in cui il costo marginale eguaglia il ricavo marginale.
5
L’allocazione efficiente delle risorse, secondo l’economista italiano Pareto, si ottiene
quando nessuno può migliorare le proprie condizioni senza che peggiorino quelle di
qualcun’altro.
Gli Stati Uniti sono dunque la patria del diritto antitrust che sorge
come reazione verso i monopoli privati e i trusts
6
(forma contrattuale da
cui deriva il termine universalmente utilizzato per individuare le norme
strumentali alla tutela della concorrenza). Solo dopo oltre mezzo secolo
la politica antimonopolio sbarcò ed attecchì anche nel vecchio
continente
7
, riconoscendo nell’esperienza americana un imprescindibile
6
Forma di concentrazione industriale che comporta l’integrazione di una pluralità di
imprese sotto una unica direzione, al fine di ridurre i costi di produzione lasciando
inalterati i prezzi di vendita, di limitare la concorrenza e controllare il mercato. La
concentrazione può formarsi fra imprese producenti lo stesso bene (concentrazione
orizzontale) ovvero fra imprese che producono beni intermedi e finali dello stesso ciclo
(concentrazione verticale).
7
Infatti, il Trattato di Roma del 1957 istitutivo della CEE (poi ridenominata CE nel
Trattato di Maastricht del 1992, istitutivo della UE), all’articolo 85 (oggi, articolo 81 del
Trattato istitutivo della Comunità europea a seguito della nuova numerazione
introdotta dal Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997) sembra prevedere un divieto
assoluto nei confronti di tutti gli accordi (intese) e le pratiche concordate “che possano
pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire,
restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune”. In sostanza,
vieta gli accordi tra imprese, restrittivi della concorrenza. Le intese, prese in
considerazione dall’art. 85 CEE, non necessitano di un accordo scritto sottostante, non è
rilevante che si possa attribuire a tale genere di accordo una negozialità formale, né che
l’accordo abbia ad oggetto i singoli dettagli o sia, invece, solo di massima; non è
nemmeno necessaria, infine, una volontarietà degli effetti restrittivi della concorrenza.
Quest’ultimo aspetto volontaristico (questo elemento caratterizzante le pratiche
concordate avvicina tale istituto europeo alla ”conspiracy” ed alla “combination”
statunitensi) è, invece, richiesto perché si verifichi una pratica concordata a danno del
mercato. In questo caso non è necessario un accordo, potendosi ravvisare una pratica
concordata in ogni genere di coordinamento tra concorrenti, allo scopo di ridurre o
eliminare i rischi competitivi. Dunque, la pratica concordata si distingue, in ultima
analisi, dall’accordo, per l’esistenza di un elemento negoziale che caratterizza la prima
e non il secondo. Fondamentale è anche notare la differenza di perseguibilità tra le due
fattispecie: l’intesa è vietata già prima che realizzi il suo effetto, sul solo presupposto
del pregiudizio che ne potrebbe derivare al mercato. Per impedire, invece, una pratica
concordata è necessario valutarne gli effetti dopo che questi si siano prodotti in
concreto. Perché l’art. 85 venga applicato è necessario che si verifichino due condizioni
contemporanee: la prima è una restrizione della concorrenza, che può essere anche solo
potenziale e può costituire alternativamente l’oggetto o l’effetto del comportamento
vietato. La seconda condizione è il verificarsi di un pregiudizio nel commercio
comunitario, che deve essere sensibile, sebbene anche soltanto potenziale. Va poi notato
un chiaro parallelismo con la legislazione antitrust statunitense nel principio secondo
cui vengono sottoposte all’art. 85 le intese tra imprese extracomunitarie che hanno
effetti negativi sul mercato comunitario. L’art. 85 CEE non si applica alle intese rilevanti
solo all’esterno del mercato comunitario, sebbene intercorrenti tra imprese comunitarie.
Altra notevole distinzione tra le intese e le pratiche concordate sta nella esistenza di
eccezioni alla legalità delle prime, contro il divieto assoluto insormontabile delle
seconde. E’ infatti possibile non assoggettare un’intesa all’art. 85 quando i soggetti che
la pongono in essere sono considerati irrilevanti nel mercato di cui si tratta (cosiddetti
accordi di importanza minore), ossia sono di dimensioni trascurabili dal punto di vista
del fatturato e della zona geografica di azione, nonché del genere di prodotto. Alla
presenza di tale irrilevanza si ritiene impossibile che l’accordo/intesa possa
pregiudicare il gioco della concorrenza nel mercato comune. Al paragrafo 3 dell’art.85
esiste un’altra eccezione che rende esenti le intese dal divieto al paragrafo 1 ovvero
sarebbero ammessi gli accordi che, sebbene contrari alla stessa norma, creano dei
vantaggi per il mercato, quali miglioramenti nella produzione o distribuzione dei
prodotti o promozione del progresso tecnico o economico. In questo caso e qualora
ricorrano queste circostanze, i divieti antitrust segnalati nell’art. 85 CEE, possono essere
disapplicati, mediante esenzioni individuali o per categorie di accordi. Il potere di
rilasciare esenzioni è subordinato in via esclusiva al placet della Commissione (o della
Corte di Giustizia se a seguito di un parere negativo espresso dalla Commissione, la
parte soccombente propone ricorso) presso la quale le imprese sono obbligate a
notificare preventivamente tali accordi o intese. Naturalmente, ogni intesa presa in
disaccordo con l’art. 85 par. 1 che non ricade nella scriminante ex par. 3 o in quella dell’
”importanza minore” sarà punita con la nullità, così come avviene, in ogni caso,
laddove sia verificata una pratica concordata (per la quale fattispecie, ricordiamo, non
sono ammesse eccezioni). Infine, gli accordi in violazione dell’art. 85 CEE possono
essere distinti in verticali ed orizzontali, a seconda che vengano posti in essere da
imprese operanti a livelli diversi del processo produttivo e distributivo, oppure a
medesimi livelli. I riferimenti normativi sopra indicati non possono esser analizzati
isolatamente ma necessitano di un maggiore approfondimento che consenta una
valutazione d’insieme della politica comunitaria in materia di concorrenza. I trattati
europei (CECA e CEE poi divenuta CE), in tale materia, hanno come obiettivo primario
la realizzazione della libera circolazione delle merci e dei fattori produttivi attraverso
l’eliminazione delle barriere tariffarie e contingentarie tra gli Stati membri. Ciò è teso
alla costruzione in questo grande mercato di una sana concorrenza tra le imprese in
esso operanti. La politica della Comunità, oltre ad eliminare gli ostacoli alle frontiere,
ha contribuito alla realizzazione del mercato comune a vantaggio delle imprese e dei
consumatori senza tralasciare di adottare una serie di strumenti legislativi tesi a
impedire o che si venissero a formare artificiose barriere economiche con accordi di
cartello e pratiche anticoncorrenziali o che talune imprese potessero sfruttare
abusivamente la loro posizione dominante sul mercato. Quindi al fine di raggiungere
gli obiettivi sopra citati (l’art. 3 CE prevede che l’azione della Comunità comporti “la
creazione di un regime volto a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato comune”)
il Trattato CE ha previsto alcune norme volte ad impedire tutte quelle pratiche lesive
del principio della sana concorrenza. Esse sono:
• le sopra menzionate intese e pratiche concordate tra imprese art.81, ex 85
• lo sfruttamento abusivo della posizione dominante da parte di una o più
imprese art.82, ex 86
modello ispiratore.
Le esigenze che hanno innescato il processo formativo del diritto
antitrust, così come gli scopi da esso perseguiti
8
, sono diversi in America
rispetto all’Europa, poiché molto differenti sono le strade percorse dalle
economie di questi due continenti.
Negli Stati Uniti d’America le ragioni che condussero alla libera
impresa (free enterprise policy) furono il riflesso di una economia per sua
natura aperta, vuoi a causa della vastità degli spazi, vuoi per la mentalità
dei coloni che giungevano dall’Europa nella speranza di fare fortuna.
Dopo la Guerra Civile, le ferrovie avevano collegato le varie zone del
paese e i rispettivi mercati statali fino a quel momento cresciuti e
consolidatisi in modo pressoché autonomo ed isolato. All’epoca, il potere
centrale era troppo debole per imporre delle restrizioni e controllarne il
rispetto. Infatti, tale ordine di cose produsse, a discapito del governo
centrale, il fiorire di una pluralità di poteri locali che andarono col
passare del tempo rafforzandosi, però, in una mutata dimensione di
mercato oramai proiettata al superamento delle barriere geografiche. In
risposta alla improvvisa espansione degli scambi e per limitare la
produzione, vennero create imprese di dimensioni maggiori con fusioni
tra concorrenti.
La grande impresa (corporation) che progressivamente si era
andata sostituendo alla piccola e media impresa individuale, se
• l’emanazione o il mantenimento, nei confronti delle imprese pubbliche, di
misure nazionali contrarie al principio di non discriminazione ed alle regole di
concorrenza (art. 86, ex 90)
• gli aiuti concessi dagli Stati alle imprese nazionali (artt. 87-89, ex92-94).
8
Se negli USA le priorità sono il consumer welfare e la efficienza allocativa, in ambito
comunitario valore fondamentale hanno l’opera di integrazione dei mercati e di
agevolazioni degli scambi, antitetiche rispetto ad ogni sorta di protezionismo.
determinò da un lato un’imponente crescita economica, fu dall’altro
causa di fenomeni aggregativi negativamente percepiti sul piano politico
e sociale: secondo un’opinione pubblica sempre più insofferente alle
grandi dimensioni il ricorso a forme di concentrazione industriale e
finanziaria realizzava, attraverso il perseguimento dei grandi interessi
economici, la prevaricazione sociale.
Infatti, l’impotenza di fronte ai nascenti colossi economici fu
percepita sempre più oppressiva e responsabile di avere soppresso
quegli “ideali di uguaglianza e pari opportunità” profondamente
radicati nella coscienza collettiva americana come diritti fondamentali
valevoli anche per la realtà imprenditoriale.
Le grandi concentrazioni di potere economico con i mezzi
predatori più vari (trusts, cartels, pools) erano per la comunità un
invalicabile ostacolo alla libera impresa individuale. La naturale
conseguenza di quest’ordine di idee fu quella di guardare con sospetto
tutte quelle forme di accordi e pratiche contrattuali, poste in essere dagli
imprenditori, miranti a restringere o limitare la concorrenza.
Al delinearsi dell’attività economica su larga scala, fece
contemporaneamente da contraltare l’esigenza di proteggere il mercato
(soprattutto le categorie più deboli ed esposte, come piccoli imprenditori
ed agricoltori) da preoccupanti forme di monopolio attraverso la
predisposizione di norme ad hoc.
Questo quadro economico e sociale divenne, pertanto, terreno
fertile per l’intervento dello Stato che, legittimato da tali premesse,
cominciò ad esercitare un’attività di regolamentazione economica non
allo scopo di sottrarre determinati campi commerciali od industriali alla
libera iniziativa dei cittadini, ma al fine di preservare la concorrenza a
vantaggio e nell’interesse della società e del mercato nel suo complesso.
Un’ondata riformista chiedeva allo Stato interventi normativi per
ripristinare condizioni più favorevoli all’inserimento di nuove imprese
sul mercato e porre argini allo strapotere dei cartelli che agli occhi di
molti finivano per colludere col mondo politico in un’alleanza ostile ad
ogni principio democratico. È quindi una problematica non solo
economica ma anche morale: la plutocrazia è vista come un nemico della
libertà, della giustizia ed il monopolio un male da estirpare perché
tiranno degli individui e dello Stato. Alle origini della normativa
statunitense in campo monopolistico soggiacciono dunque motivazioni
economiche e sociali.
Dall’altra parte dell’oceano, in Europa, la libertà di impresa sorse
in seguito alla reazione ad un soffocante sistema di barriere commerciali
tipico dell’economia medievale ed ai vincoli e monopoli corporativi
caratteristici dell’organizzazione di questo periodo.
La classe emergente della borghesia legata ad attività commerciali
ed industriali riuscì a demolire il complesso di controlli doganali interni,
ma non le barriere esterne tra Stato e Stato, che continuarono per lungo
tempo a persistere quale espressione di un radicato spirito di autonomia
e distinzione politica ed economica.
Ciò rallentò il processo di sviluppo, tra le nazioni europee, della
libertà di iniziativa commerciale ed imprenditoriale.
All’interno dei singoli stati, invece, si assistette al fenomeno
contrario proprio grazie all’abbattimento delle obsolete restrizioni al
libero mercato e al rafforzamento delle compagini nazionali, che
trovavano sempre più un’unità di vedute, di interessi e di pensiero. La
libertà di iniziativa privata e di concorrenza nasce e si mantiene, in
Europa, come alternativa e rifiuto di ogni tipo di intervento statale
nell’economia, che veniva avvertito come esasperante e non più
tollerabile. Gli economisti, che rivendicavano i benefici della libera
concorrenza di fronte al sistema dei controlli statali, basavano le loro
argomentazioni sulla convinzione che, a fronte di fattori restrittivi o
distorsivi, le stesse forze di mercato avrebbero provveduto a correggere
tali fattori
9
.
1.2. “Principi antitrust nei paesi della common law”
I principi normativi riguardanti la concorrenza, prima di esser
trasfusi in una vera e propria legislazione in materia, vennero elaborati
nei paesi della common law secondo un modello di massima adottato per
catalogare gli accordi in base al genere di restrizione cui davano luogo.
Questa teoria, chiamata della ”restraint of trade”, distingueva tra
“ancillary restraints” e “non ancillary restraints”: le prime, inserite come
clausole all’interno dei contratti, erano costituite da accordi attraverso i
quali una parte si obbligava a non esercitare una qualsivoglia attività
professionale, commerciale o industriale; le seconde, prescindendo da un
contratto principale, consistevano in accordi finalizzati ad eliminare o
restringere la concorrenza. Mentre le “non ancillary restraints” erano
sempre non valide, le “ancillary restraints” potevano essere considerate
valide in base al principio della ragionevolezza (reasonableness). Questo
principio, utile mezzo per stemperare la eccessiva rigidità che rischia
9
G. Bernini, 1991, “Un secolo di filosofia antitrust”, Clueb.
sempre di caratterizzare la legislazione sulla concorrenza, accompagnerà
la normazione antitrust per tutta la sua storia sino ad oggi.
1.3. ”La normativa antitrust americana”
Le origini dell'antitrust trovarono le prime formulazioni nel XIX
secolo con la Interstate Commerce Commission (ICC), prima agenzia
indipendente degli Stati Uniti. La ICC venne creata nel 1887 all'interno
del Department of Interior per imporre a livello federale una regolazione
alle attività del settore ferroviario e impedire gli abusi di talune
compagnie, allo scopo di consentire una integrazione dei mercati statali.
La norma base del diritto antitrust americano, nonché la prima
legge federale
10
americana in materia di tutela della concorrenza e
controllo del monopolio, fu lo Sherman Act, approvato dal Congresso
degli Stati Uniti nel 1890. Esso rappresentò la matrice storica di tutte le
successive leggi in materia. Non fu il frutto tanto della capacità degli
economisti di convincere il Congresso dei costi sociali del monopolio, ma
degli aspetti negativi e dei mutamenti che si erano verificati
nell’economia degli Stati Uniti.
Con lo Sherman Act il legislatore si limitò a prevedere divieti
generali. Infatti, i due articoli principali sono vaghi.
L’articolo 1 vieta ”ogni contratto, associazione…o collusione che limiti
il commercio”.
10
In relazione al rapporto tra normative statali e regole federali la State Action doctrine,
dispone che i singoli Stati possano disapplicare i precetti dello Sherman Act adottando
una politica di concorrenza alternativa, purché essa sia sottoposta all’attiva
supervisione svolta direttamente dallo Stato. I soggetti privati possono tuttavia ottenere
il rispetto dello Sherman Act, quando i suoi principi gli siano maggiormente favorevoli.