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Capitolo primo
IL KNOW-HOW E IL SEGRETO INDUSTRIALE. I PRINCIPI COSTITUZIONALI E LA DISCIPLINA
COMUNITARIA
1.1 Cenni storici sulle origini dell’istituto
Il fenomeno del segreto industriale e commerciale, inserito nel complesso sistema
economico e produttivo del mondo contemporaneo, presenta una molteplicità di aspetti
problematici, dalla individuazione di una definizione certa ed esaustiva alla questione
sulla natura giuridica del bene in esame, per finire con la ricostruzione sistematica della
tutela legale riconosciuta dell’ordinamento in base alla normativa civiIistica e al regime
sanzionatorio previsto dai precetti penali.
La trattazione dell’istituto, d’altra parte, non può prescindere da un’indagine storica sui
motivi economici e sociali della nascita dell’esigenza di protezione legale di un bene che,
all’epoca della rivoluzione industriale, era definito “segreto di fabbrica”. Una ricostruzione
storica, alla luce delle scelte legislative operate nei maggiori ordinamenti del continente
europeo, ha il pregio di fornire un’ulteriore chiave di lettura dell’istituto nel contesto dei
tempi moderni, e delle ragioni giuridiche che hanno spinto i legislatori di tutto il mondo
ad approntarne una qualche forma di tutela, sulle linee guida dei condivisi principi di
libertà di iniziativa economica e concorrenza leale. La ricostruzione analizzerà, inoltre, le
motivazioni storiche e politiche all’origine della scelta legislativa di prevedere una tutela
del segreto in ambito civilistico piuttosto che attraverso un sistema di sanzioni penali.
5
L’esigenza di una tutela penale del segreto, infatti, non era presente nel sistema
economico basato sull’attività delle arti e delle corporazioni, ma nasce successivamente
alla rivoluzione francese con la costruzione del modello di società borghese (
1
). Il primo
riscontro normativo è costituito dall’art. 418 del codice penale napoleonico del 1810.
Nell’economia cittadina del periodo comunale le norme a tutela della concorrenza erano
finalizzate a una libera competizione tra i privati ma assumevano altresì una dimensione
pubblicistica in ragione del particolare ruolo pubblico assegnato all’ente corporativo (
2
).
Nel periodo corporativo, dunque, i rigorosi divieti sull’allettamento dei clienti, lo storno
dei dipendenti e i ribassi a scopo concorrenziale avevano un fondamento diverso rispetto
ai moderni divieti in materia di concorrenza sleale, in quanto posti “in funzione di una
tutela assoluta della porzione di attività che la corporazione riserva ai suoi membri,
mirando a preservare, fra di essi, condizioni di eguaglianza anche sostanziale” (
3
).
Pertanto mentre all’epoca delle corporazioni era consentita solamente una fissa
ripartizione della clientela e della forza lavoro al fine del benessere economico cittadino,
nel sistema capitalistico moderno è ammessa una libera competizione allo scopo di
conquistare l’altrui clientela nonché l’altrui forza lavoro. In un contesto di organizzazione
gerarchica del lavoro non può assumere rilevanza una forma di concorrenza sleale volta
alla sottrazione dei segreti aziendali altrui in prospettiva di una successiva utilizzazione.
Non esistevano, del resto, particolari tecniche o metodi di produzione segreti in un
(
1
) Sull’argomento dell’evoluzione storica del segreto industriale cfr. N. MAZZACUVA, La tutela penale del
segreto industriale, 1979, 8 ss.
(
2
) In questi termini G. GHIDINI, La concorrenza sleale dalle corporazioni al corporativismo in Politica del
diritto, 1974, 63.
(
3
) Così G. GHIDINI, Slealtà della concorrenza e costituzione economica, 1978, 13.
6
mondo in cui dovevano ancora affermarsi fabbriche, macchinari e l’uso industriale di
materie prime, mezzi che avrebbero consentito un più ampio ventaglio di combinazioni di
fattori produttivi da parte dell’imprenditore. Inoltre le modalità tecniche di lavorazione
dei prodotti di artigianato erano imposte dalle corporazioni, di fatto escludendo qualsiasi
possibilità di innovazione nei processi produttivi.
Un’organizzazione del lavoro strutturata in questo modo non necessitava di sanzioni
particolari a tutela del segreto industriale. Non sussistendo nel sistema corporativo la
separazione tra proprietario dei mezzi di produzione e lavoratore subordinato, veniva a
mancare una delle principali modalità di rivelazione all’esterno dei segreti che regolavano
la produzione. Non era previsto, d’altronde, neanche il riconoscimento del diritto
dell’inventore poiché ogni nuovo processo di produzione o miglioramento tecnico
introdotto dai membri della corporazione costituiva un profitto per la corporazione in sé
anziché per il singolo inventore. Solo dal momento in cui le invenzioni cominciano ad
assumere un’importanza determinante per lo sviluppo dell’economia cittadina, sovrani e
principi, al fine di assicurarsi il vantaggio derivante da nuove invenzioni, tentarono di
assicurarsi gli inventori delle altre città offendo loro in cambio condizioni economiche
vantaggiose, ovvero la concessione di uno sfruttamento esclusivo della scoperta per un
dato periodo di tempo. Lo strumento tecnico utilizzato era il privilegio, il quale, però,
veniva conferito dall’autorità pubblica mediante un atto discrezionale senza peraltro che
fosse necessaria la novità dell’invenzione. L’inventore, pertanto, non era titolare di un
vero e proprio diritto né veniva riconosciuta una generale tutela giuridica alle conoscenze
segrete sui processi di fabbricazione.
7
Con la rivoluzione borghese del diciottesimo secolo il sistema corporativo viene
smantellato e diviene primaria l’esigenza di tutelare il diritto fondamentale di proprietà,
sia sui beni materiali che su quelli immateriali. Un editto francese del 24 settembre 1962
interviene al fine di regolamentare i privilegi concessi agli inventori a scopo di incentivo
per l’attività di ricerca e lo sviluppo dell’industria. Nella costituzione degli Stati Uniti
d’America del 17 settembre 1987 tra le attribuzioni del congresso era compresa quella di
favorire lo sviluppo scientifico garantendo per un determinato periodo di tempo agli
autori e agli inventori un diritto esclusivo sulle loro opere e scoperte. Il passo decisivo si
ha con la legge rivoluzionaria del 7 gennaio 1791, con cui si afferma che ogni nuova
scoperta o nuova invenzione che riguardi un settore qualsiasi dell’industria è proprietà
del suo autore (
4
). Il diritto dell’inventore acquista dunque un carattere assoluto, non è
più riconosciuto in forza di un atto discrezionale dell’autorità pubblica ma nasce per il solo
fatto dell’invenzione, e l’intervento dello stato ha mera natura dichiarativa. E’ imposto,
inoltre, il divieto generale di sfruttare l’invenzione senza l’autorizzazione del titolare. Il
diritto non ha però la connotazione atemporale del diritto di proprietà, ma la sua durata è
limitata nel tempo in ragione di un contratto ideale stipulato tra il cittadino inventore e lo
stato, in base al quale il primo ha garantito il monopolio nell’utilizzazione della creazione
per un certo periodo di tempo in cambio della successiva diffusione dell’invenzione a
vantaggio della collettività.
Con l’affermazione dei diritti di proprietà industriale nasce anche l’esigenza di colpire con
sanzioni civili e penali la violazione del segreto industriale consentendo all’imprenditore
(
4
) L’art. 1 della legge recita così: “Toute découverte on nuovelle invention, dan tous les genres d’industrie,
est la proprieté de son auter”.
8
un godimento potenzialmente perpetuo dei vantaggi derivanti dall’invenzione segreta. E’
evidente che la protezione della proprietà industriale in tal caso opera differentemente
dall’ipotesi di brevettazione. Nel primo caso, infatti, il titolare è esposto alla divulgazione
del segreto, lecita o meno, e la conseguente perdita dello sfruttamento esclusivo del
nuovo ritrovato; nel secondo, viceversa, l’attuazione esclusiva ma temporanea
dell’invenzione è garantita dal brevetto.
La tutela penale approntata dal codice napoleonico trova ragione anche nell’esigenza di
una rigorosa protezione dei segreti potenzialmente funzionali all’espansione sui mercati
internazionali. La sanzione maggiore prevista dall’art. 418 del codice, infatti, colpiva chi
rivelasse un segreto industriale ad uno straniero o ad un francese residente all’estero. Le
sanzioni penali operano pertanto su due piani: pena correzionale per chi lede il libero
gioco concorrenziale con un comportamento sleale nei confronti di un imprenditore
concorrente; pena di reclusione per chi arreca danno all’industria nazionale rispetto alla
concorrenza straniera.
Nel contesto dell’epoca la tutela garantita al titolare del segreto industriale sembra
assumere un carattere sussidiario rispetto alla tutela prevista per l’inventore brevettante.
Alcune innovazioni tecniche, infatti, pur determinando un miglioramento tecnico e
produttivo, non possedendo al tempo stesso un contenuto innovativo tale da modificare
sostanzialmente le condizioni di produzione di fabbrica, non erano considerate
brevettabili e quindi suscettibili di essere oggetto di un diritto di privativa. Le prassi e le
conoscenze che consentivano un utilizzo più proficuo di apparecchi brevettati o di sistemi
produttivi, garantendo all’imprenditore un vantaggio economico sui concorrenti,
9
venivano protette dai comportamenti sleali attraverso le sanzioni penali per il reato di
rivelazione di segreti industriali. La protezione del segreto industriale, inoltre, mira ad
evitare che l’invenzione sia oggetto di usurpazione e sfruttamento altrui nella fase di
sperimentazione, ovvero quando l’invenzione non è ancora perfezionata e dunque
brevettabile. Riguardo le invenzioni sui procedimenti di produzione, peraltro,
l’imprenditore sarà maggiormente indotto a tenere il segreto piuttosto che richiedere il
brevetto, a causa delle difficoltà connesse a verificare in questi casi la violazione della
privativa da parte di un concorrente.
L’art. 418 del codice napoleonico vieta di comunicare a terzi il segreto industriale (
5
), ma
né ne fornisce una nozione né chiarisce a quale scopo sia volta la condotta dell’agente. La
disposizione stabilisce che i soggetti attivi del reato sono le persone particolarmente
qualificate in ragione della posizione subordinata in cui si trovano nei confronti
dell’imprenditore. La violazione dell’obbligo di segretezza, dunque, assume rilevanza in
relazione alla funzione di lavoratore dipendente svolta dall’agente all’interno della
fabbrica in cui viene applicato il procedimento segreto, mentre non è colpita la figura
dell’imprenditore concorrente, ovvero il soggetto che ha l’interesse diretto alla
conoscenza dell’altrui segreto, salvo non compartecipi materialmente alla commissione
del delitto. Se il terzo viene a conoscenza del segreto a prescindere dalla rivelazione fatta
da un dipendente dell’impresa, per di più, l’art. 418 risulta inapplicabile, incoerentemente
con la finalità di proteggere l’economia nazionale dalla concorrenza straniera.
(
5
) Per l’esattezza viene definito il “secret de fabrique”.
10
La ratio della norma sembrerebbe quindi consistere nella volontà di reprimere l’abuso di
fiducia (
6
) da parte del dipendente. Invero non è l’imprenditore a rivelare il segreto al
proprio dipendente riponendogli la propria fiducia, bensì è la posizione del lavoratore
all’interno del sistema produttivo che gli consente di venire a conoscenza delle tecniche
mediante le quali l’imprenditore riesce ad ottenere un maggiore profitto. La tutela penale
del segreto sembra in questo senso avere lo scopo principale della conservazione del
patrimonio dell’imprenditore inventore, assimilando il delitto in esame alla sottrazione di
un qualsiasi altro bene patrimoniale altrui. Ma allo stesso tempo la violazione del segreto
può costituire una lesione degli interessi personali dell’imprenditore legati al nome e alla
reputazione dei propri prodotti e dunque essere riconducibile alla personalità stessa
dell’imprenditore.
In Germania il 27 maggio 1896 fu emanata una normativa organica (
7
) in tema di
concorrenza sleale. Il codice penale tedesco del 1871 non conteneva alcuna fattispecie
riguardante il reato di rivelazione di un segreto industriale o commerciale mentre le
industrie tedesche richiedevano un’innovazione legislativa in materia. La dottrina tedesca
riteneva preferibile che le responsabilità economicamente rilevanti, derivanti dalla
rivelazione del segreto industriale, fossero regolate da sanzioni civili. Viceversa le uniche
disposizioni del corpo legislativo dotate di sanzioni penali furono quelle relative alla
violazione del segreto industriale (
8
). Il par. 17 punisce chiunque riveli o utilizzi un segreto
(
6
) Il cosiddetto “abus de confiance”.
(
7
) Si tratta del “Gesetz gegen den unlauteren Wettbewerb” (1986).
(
8
) In particolare i parr. 9-10 della legge, che nella nuova stesura del 1909 divennero i parr. 17-18, e il par.
20.
11
di fabbricazione illegittimamente rivelatogli da un dipendente, ovvero di cui sia venuto a
conoscenza attraverso una condotta contraria alla legge e al buon costume. In questo
modo, a differenza del modello francese costituito dall’art. 418 del codice napoleonico, è
possibile colpire direttamente il terzo imprenditore responsabile dell’illecito
anticoncorrenziale. Nella fattispecie in esame si richiama espressamente il fine di
concorrenza sleale che deve muovere la condotta dell’agente. Intanto si possa
considerare lecita la concorrenza privata, in quanto si svolga secondo le modalità previste
dall’ordinamento. L’ultimo comma che sarà aggiunto alla disposizione, al contrario,
affermando che l’autore del fatto sarà punito anche quando il destinatario della
rivelazione sia già a conoscenza del segreto ovvero abbia il diritto di conoscerlo, sembra
sanzionare l’atteggiamento personale infedele del dipendente nei confronti del proprio
datore di lavoro piuttosto che il compimento di un atto di concorrenza sleale, in sintonia
con il modello normativo dell’art. 418 del codice napoleonico.
Il codice penale albertino del 1939 all’art. 403 e il codice penale sardo all’art. 391
puniscono in modo analogo chiunque manifesti i segreti di fabbricazione. L’esigenza di
una specifica norma a tutela del segreto industriale, invero, non era sentita da tutti i
legislatori dell’epoca (
9
). Nel primo progetto del codice Zanardelli del 1868, del resto, era
previsto all’art. 346 un unico e generico reato di illecita rivelazione di segreti (
10
), mentre
il successivo art. 400 stabilì il danno potenziale come condizione essenziale per la
(
9
) In territorio italiano, ad esempio, manca una specifica norma in tema di violazione del segreto nel codice
penale toscano del 1859.
(
10
) L’art. 346 prevedeva che il reato era commesso da “chiunque, avendo notizia, per ragione del suo stato,
ufficio o professione, di un segreto che concerne la buona fama di taluno, lo rivela, senza giusto motivo, ad
altro che all’Autorità avente il diritto di esigerne comunicazione”.
12
punibilità dell’illecito (
11
). Nel progetto Vigiani si mantiene inalterato il concetto di
potenzialità del danno, aggiungendo alla buona fama anche “l’interesse” del soggetto
passivo del reato come oggetto possibile dell’azione lesiva. Nel codice del 1887 la nuova
disposizione dell’art. 380 non assume un’autonoma rilevanza penalistica, bensì un
carattere sussidiario atto a reprimere genericamente le violazioni dei “segreti privati”. Nel
testo definitivo del codice, infine, scompare la disposizione a carattere generico e da essa
si ricava da un lato una norma specifica (
12
) relativa alla violazione del segreto
professionale, dall’altro alla disciplina della ipotesi particolare di rivelazione dei segreti
industriali (
13
). La disposizione è volta a punire in modo particolare chiunque (
14
) riveli
notizie concernenti “scoperte o invenzioni scientifiche o applicazioni industriali, delle
quali sia venuto a cognizione per ragione del suo stato o ufficio o della sua professione o
arte, e che dovevano rimanere segrete” (
15
), ovvero ricomprende una sfera di ipotesi più
ampia del solo segreto di fabbrica.
La collocazione dell’articolo tra i delitti contro la fede pubblica dimostra in modo singolare
come, il legislatore penale di fine ottocento, nonostante aderisca a concezioni ideologiche
liberali e individualistiche, al tempo stesso consideri, al contrario delle più autorevoli
(
11
) L’inciso “che concerne la buona fama di taluno” si modificò con: “che, palesato, può recar danno
all’altrui buona fama”
(
12
) Si tratta dell’art. 162 posizionato sotto il titolo concernente ‘’i diritti contro la libertà’’.
(
13
) L’art. 298 è collocato tra i “delitti contro la fede pubblica” sotto il capo relativo alle frodi nei commerci,
nelle industrie e negli incanti.
(
14
) Poiché nella descrizione dell’illecito non si fa riferimento alla persona del “concorrente sleale”, ovvero
dell’imprenditore interessato all’altrui segreto, questi potrà essere punito solo in presenza dei requisiti
necessari a configurare un concorso di persone nel reato.
(
15
) E’ prevista come circostanza aggravante l’ipotesi in cui la rivelazione sia fatta ad uno straniero non
residente nel regno ovvero ad un suo agente.
13
opinioni dottrinali, la fattispecie di rivelazione del segreto industriale come un fatto lesivo
di un interesse pubblico. Si tratta peraltro di un delitto che, nonostante offenda la fede
pubblica, è perseguibile soltanto in seguito alla presentazione di una querela,
constatazione che stride con la classificazione del legislatore dell’epoca, anche
sostenendo che il comportamento sleale e truffaldino del rivelatore del segreto sia volto
non solo a danneggiare gli interessi economici del proprio datore di lavoro quanto i più
generali interessi dell’intera economia nazionale.
Invero il legislatore di fine ottocento, prevedendo sanzioni più gravi rispetto a quelle
previste per la violazione degli altri segreti a contenuto meramente personale, intende
affermare per un verso l’esigenza collettiva del rispetto delle regole del gioco
concorrenziale, per altro verso la separazione dei ruoli all’interno dell’impresa
capitalistica in base alla quale il lavoratore deve rimanere estraneo ai segreti aziendali e
alle scelte organizzative dell’imprenditore, e qualora ne venga a conoscenza non possa
rivelarli all’esterno senza incorrere nella sanzione penale. Con l’attribuzione di un
carattere pubblicistico alla lesione di quello che è evidentemente un diritto individuale
sembra conferirsi al segreto industriale il rango di bene in senso giuridico.
Nella società di fine ottocento strumenti normativi diversi e più deterrenti della sanzione
penale operarono al fine di garantire il regime di segreto all’interno di fabbrica. La norma
penale assunse prevalentemente la funzione di riconoscere la validità del regime di
segreto piuttosto che quella di garantirne l’osservanza.
14
1.2 Concetto di know-how: oggetto e requisiti. Il carattere di segretezza
Uno dei nodi problematici nella trattazione concerne l’aspetto definitorio dell’istituto del
segreto aziendale. Mancando a livello legislativo interno una definizione normativa
onnicomprensiva del complesso fenomeno know-how (
16
) è opportuno ricostruire, in
primo luogo, in base alle indicazioni della dottrina e alle pronunce giurisprudenziale, una
nozione che abbracci le molteplici forme in cui può manifestarsi, nella prassi
commerciale, il bene in esame, anche in considerazione dei rapidi mutamenti del
contesto economico e industriale nel quale si innesta.
In un secondo momento sarà affrontata la problematica dei requisiti indispensabili
affinché si possa affermare l’esistenza giuridica del bene e la meritevolezza di un interesse
sottostante tutelabile dall’ordinamento, con particolare attenzione rivolta al carattere
della segretezza, che costituisce l’oggetto principale di questo studio.
Nello specifico, infine, sarà analizzato l’aspetto della segretezza esaminando la differenza
tra concettuale tra il “segreto assoluto” e il “segreto relativo”, anche in una prospettiva
prettamente economica, e gli effetti che la distinzione comporta ai fini pratici della
tipologia di tutela legale applicabile al fenomeno oggetto di trattazione.
L’espressione “know-how” trae origine dalla cultura giuridica statunitense e non trova
una traduzione sintetica negli ordinamenti europei. La mancanza di una definizione
legislativa nel nostro ordinamento ha consentito, pertanto, alla dottrina e alla
(
16
) Almeno fino alla Legge 6 maggio 2004, n.129 che alla’art. 1 riproduce una delle definizioni di know-how
fornite dai Regolamenti Comunitari: “un patrimonio di conoscenze pratiche non brevettato derivanti da
esperienze o da prove eseguite dall’affiliante, patrimonio che è segreto, sostanziale ed individuato”.
15
giurisprudenza di creare giuridicamente il know-how per un verso chiarendone l’oggetto e
i requisiti, per altro verso improntando una disciplina che prevedesse una tutela in ambito
penale e civile. Nelle definizioni più risalenti (
17
) l’oggetto del know-how non
comprendeva l’intero ambito dei segreti industriali non brevettati ma soltanto le migliorie
tecniche che accompagnavano a carattere accessorio un procedimento brevettato,
escludendo peraltro dal cerchio concettuale il know-how commerciale, termine con cui si
indicano un insieme di conoscenze, esperienze e regole di condotta relative alla gestione
commerciale, organizzativa e finanziaria dell’impresa.
Il processo di evoluzione che il concetto di know-how ha subito negli ultimi decenni è
stato accelerato dalla prassi contrattuale e dall’importanza crescente dell’attività di
ricerca, che si concreta generalmente nell’affinamento di tecniche consolidate, nel
perfezionamento di un sistema produttivo, e in sintesi di qualsiasi miglioramento che
comporti un vantaggio competitivo all’impresa. La dottrina e l’elaborazione
giurisprudenziale hanno quindi ricondotto nell’ambito del know-how qualsiasi segreto
industriale non brevettato, ovvero un patrimonio di informazioni e tecniche aventi un
valore economico ma che non godano della protezione erga omnes prevista dalle norme
sulla proprietà industriale. Nel significato in senso lato di know-how, infatti, vengono
ricomprese anche le esperienze, capacità e abilità personali non separabili dal soggetto,
vale a dire comportamenti suscettibili di imitazione piuttosto che di comunicazione.
In seguito all’ampliamento della nozione la discriminante tra ciò che rientra nella sfera
concettuale di know-how e ciò che non vi rientra è costituita dall’elemento della
(
17
) Vedi sul punto B. FRANCHINI STUFLER, Il know-how in Il diritto fallimentare e delle società commerciali,
2002, 134
16
funzionalità per l’impresa, ovvero l’idoneità dell’entità immateriale ad attribuire alla
stessa una posizione privilegiata rispetto alle concorrenti operanti nel medesimo settore.
Tale requisito emerge anche dall’analisi degli economisti (
18
), che considerano suscettibile
di valutazione economica e di protezione giuridica qualsiasi bagaglio di conoscenze che
dia a chi lo possiede un vantaggio sui concorrenti. Le conoscenze di cui si tratta sono il
frutto di attività umane, studi scientifici, ricerche, applicazioni, prove sperimentali nonché
esperienze e relazioni lavorative tra individui. Che siano sviluppate all’interno
dell’impresa come creazioni o che siano acquisite da altre imprese per diffusione
l’elaborazione del know-how richiede un investimento finanziario da parte dell’azienda
che ha come incentivo un ritorno in termini di redditività e competitività rispetto alla
concorrenza.
La Cassazione (
19
) ha fornito una definizione di know-how in termini ampi affermando che
“le conoscenze che, nell’ambito della tecnica industriale, sono richieste per produrre un
bene, per attuare un processo produttivo o per il corretto impiego di una tecnologia, e
altresì le regole di condotta che, nel campo della tecnica mercantile, vengono desunte da
studi ed esperienze di gestione imprenditoriale, attinenti al settore organizzativo e a
quello strettamente commerciale quando presentino, quale connotato essenziale, i
caratteri della novità e segretezza, sono qualificabili come know-how in senso stretto e
costituiscono un bene economico che assume rilievo come autonomo elemento
patrimoniale suscettibile di valutazione economica anche se derivi da invenzioni non
(
18
) Sul punto si è espresso A. FRIGNANI, Segreti d’impresa in Digesto delle discipline privatistiche sez.
commerciale, 1996, 334.
(
19
) Sentenza della Cassazione, 20 gennaio 1992, n .659.
17
brevettabili che il titolare non intenda brevettare o preferisca sfruttare in regime di
segreto o da ideazioni minori non costituenti vere e proprie invenzioni brevettabili”. La
sentenza mette in luce i due requisiti fondamentali del know-how. Intanto esiste
l’elemento della novità, in quanto “le conoscenze comportino un vantaggio di ordine
tecnologico o competitivo sul piano della produzione o del marketing”. Si tratta di
attribuire all’informazione un valore economico dato dal quid pluris rispetto alle
conoscenze di base necessarie allo svolgimento dell’attività d’impresa, che si aggiunge ad
esse consentendo all’impresa di ottenere una posizione di privilegio sulle concorrenti che
operano nel medesimo ramo produttivo. In secondo luogo intanto sussiste l’elemento
della segretezza, in quanto “le conoscenze non siano di dominio comune, non siano
divulgate, ovvero la loro divulgazione presupponga un atto di concessione del divulgatore
ed i terzi possano acquisirle soltanto mediante la predetta concessione oppure
creandosele in via autonoma”. Una parte della dottrina (
20
) ha criticato l’impostazione
che fa leva sui due criteri nel disegnare i confini del know-how in senso ampio, ritenendo
più corretta l’interpretazione, fornita dalla stessa Corte qualche anno prima, secondo la
quale il criterio distintivo è rappresentato dalla differenza concettuale tra conoscenze ed
esperienze. La stessa Cassazione in questa pronuncia (
21
), infatti, precisa che il significato
di know-how può prevedere un’accezione più ampia qualora si comprendano “le
(
20
) L’opinione è stata espressa da K. PITTER, Sulla individuazione del know-how e sulla sua tutela, in Nuova
giurisprudenza civile e commerciale, 1993, 182.
(
21
) La Cassazione nella sentenza del 27 febbraio 1985 n. 1699 distingue tra know-how in senso stretto,
costituito da un insieme di conoscenze razionali e trasmissibili, e know-how in senso ampio costituito da
mere esperienze connesse a capacità o abilità personali non traducibili in nozioni razionali e definite
suscettibili di comunicazione ad altri soggetti.
18
esperienze strettamente connesse a capacità o abilità personali, le quali non si traducono
in nozioni razionali e definite, suscettibili di comunicazione ad altri soggetti, non danno
luogo ad un bene economico trasmissibile”. Quando risulta, come in questo caso, un
legame inscindibile tra know-how e persona fisica che lo possiede si pongono due ordini
di problemi (
22
). L’uno è relativo alla tutela nei confronti dell’accipiens, essendo in tal caso
più difficoltoso porre divieti di utilizzo a proprio profitto a livello legislativo, restando salvi
eventuali vincoli assunti a sul piano contrattuale; l’altro riguardante la trasmissibilità di
quel tipo di conoscenze, essendo per caratteristiche trasferibili soltanto mediante l’opera
personale del detentore nelle ipotesi del socio d’opera o del contratto di formazione (
23
).
Perché il know-how costituisca un valore aggiunto all’impresa è necessario che il bagaglio
di conoscenze oggetto di valutazione non sia di pubblico dominio. E’ stato sottolineato
(
24
) come la distinzione che pone la Cassazione tra il carattere della novità e quello di
segretezza non pare corretto, essendo preferibile considerare il primo requisito assorbito
dal secondo in una connotazione unitaria piuttosto che dotato di una propria autonomia.
La novità del know-how, infatti, non può essere intesa alla stessa stregua dei brevetti,
essendo racchiusa altresì nel concetto di segreto relativo. Non è indispensabile né nella
maggior parte dei casi possibile, peraltro, che il segreto sia inteso in modo assoluto come
patrimonio a disposizione di una singola impresa o addirittura di un imprenditore persona
fisica. La segretezza va intesa in senso relativo come difficoltà di accesso all’informazione
(
22
) Si confronti con A. FRIGNANI, Know-how: La Cassazione fa propri molti argomenti della dottrina, in
Giurisprudenza italiana, 1993, 120
(
23
) Nel senso qui prospettato v. Cassazione, 29 luglio 1987, n. 6548 che ha ritenuto oggetto di know-how
trasferibile anche l’addestramento delle maestranze per un certo periodo.
(
24
) Si veda sul punto M. FELSANI, Contributo all’analisi del know-how, 1997, 22 ss.