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Introduzione
Quando il 15 giugno 1977 i cittadini spagnoli si recano alle urne per eleggere i
propri rappresentanti presso le Cortes, è la prima volta che molti di essi sono coinvolti in
una competizione elettorale. Le ultime elezioni si erano svolte nel 1936 durante la Seconda
repubblica e da allora erano passati più di quarant’anni. Erano poi venuti tre anni di Guerra
Civile a cui aveva posto fine il generale Francisco Franco imponendo un regime autoritario
con l’appoggio dell’esercito e decretando il trionfo dei settori politici ed economici
conservatori e reazionari.
Ad avvertire più di tutti le conseguenze della Guerra Civile era stata sicuramente la
società civile: la Spagna all’indomani della Seconda Guerra Mondiale fu infatti costretta a
vivere in una situazione di totale isolamento a livello internazionale. Anche se a partire
dagli anni Cinquanta si assistette all’inizio di un’importante trasformazione economica e
sociale, la dittatura però impedì l’esercizio delle libertà e dei diritti democratici e rimosse
quelle istituzioni politiche ed economiche che si trovano generalmente in tutti i paesi
democratici. La società civile spagnola era tenuta sotto stretto controllo attraverso la
limitazione dei diritti civili e politici, talvolta ricorrendo anche alla repressione violenta,
mentre i detentori del potere, eliminando qualsiasi forma di elezione, potevano non
rispondere ai cittadini del proprio operato. Le famiglie istituzionalizzate (esercito, Falange
e Chiesa cattolica) e le famiglie politiche (franchisti integrali, monarchici, tecnocrati e
professionisti) che sostenevano il regime, trovavano la loro forza nella compattezza,
ovvero nella comune intesa sui problemi esistenti e sulla loro soluzione. Nonostante esse
non fossero in grado di elaborare una vera e propria giustificazione ideologica del regime,
erano portatrici di un insieme di atteggiamenti e di valori
1
su cui si trovavano in totale
accordo (patria, nazione, gerarchia, ordine) e nei quali avrebbero voluto che l’intera società
civile si riconoscesse.
La transizione spagnola alla democrazia, avviata dopo la morte del caudillo nel
1975, insieme alla Guerra di Indipendenza, alla rivoluzione liberale (1804-1814) e alla
1
J. J. Linz definisce questo insieme di valori in grado di legittimare i regimi autoritari e di orientare l’azione
e le scelte dei suoi capi con l’espressione “mentalità caratteristiche” (cfr. J. J. Linz, Sistemi totalitari e regimi
autoritari: un’analisi storico-comparativa, Rubbettino Editore, Soveria Manelli 2006).
5
Guerra Civile (1936-1939), rappresenta uno di quegli avvenimenti storici eccezionali le cui
conseguenze sono emerse in maniera evidente sia nella mentalità dei cittadini sia nelle
dinamiche del sistema politico del Paese. Il processo di transizione ha infatti consentito alla
Spagna di fare il suo ingresso sulla scena internazionale e di affrontare alcuni dei conflitti
strutturali che ne hanno contrassegnato la storia nella contemporaneità.
Dopo le due brevi e traumatiche esperienze democratiche (dal 1873 al 1874 e dal 1931 al
1936), il passaggio dall’autoritarismo alla democrazia mette fine a un lungo periodo di
conflitti politici e ai comportamenti autoritari assunti dalla Corona. In questo periodo si
affrontano questioni di ordine diverso che, schematicamente, si possono riassumere così: il
problema regionale, con l’istituzione dello Stato delle Autonomie, che consente alla
maggior parte delle nazionalità spagnole di confrontarsi finalmente con il gioco politico;
l’abbandono dei “deliri autarchici”, favorendo lo sviluppo del sistema economico e
l’ingresso della Spagna nella Comunità Economica Europea; il completarsi del processo di
modernizzazione della società civile, con la sua secolarizzazione in un contesto di
profondo rispetto verso la libertà religiosa e di indipendenza dal potere della Chiesa; la fine
dell’“interventismo” militare, basato sulla difesa degli interessi corporativi, sulla visione
reazionaria della società e sul continuo tentativo da parte delle Forze Armate di sostituirsi
alla società civile; la centralità del movimento operaio, che fa propri i valori democratici
collaborando attivamente all’instaurazione della democrazia.
Sotto vari punti di vista il paese iberico richiama attenzione e ammirazione,
soprattutto per il fatto di aver superato alla fine degli anni Settanta la delicata fase del
passaggio alla democrazia in modo non traumatico, al contrario di quanto il suo recente
passato poteva far pensare. Quella transizione e il connesso avvio della vita democratica
sono caratterizzate entrambe dalla collaborazione tra le élite politiche e sociali e sono
presentate come un esempio da seguire per realizzare un cambiamento politico verso la
democrazia. La capacità dimostrata dai suoi governanti - di cooperare e giungere a
compromessi (pactar) sui temi ritenuti essenziali per il paese - rimane una costante forte
del sistema spagnolo, anche se destinata ad assumere una rilevanza maggiore o minore a
seconda delle diverse fasi politiche. Un altro dato impressionante di quel periodo è la
mobilitazione di milioni di cittadini spagnoli a difesa della democrazia, come dimostrano
le manifestazioni, estese e composte, contro il tentato colpo di Stato del generale Tejero e
contro il terrorismo.
A partire da queste considerazioni, il mio lavoro si è concentro sull’analisi del
sistema politico spagnolo per spiegare come esso ha affrontato le sfide della fine degli anni
6
Settanta. Nel ricostruire queste vicende ho cercato di sottolineare l’insieme di vincoli e di
opportunità con cui le élite politiche e la società civile si sono trovate a fare i conti.
In particolare, è stata evidenziata la capacità dei cittadini spagnoli, prima, e dei
dirigenti politici, poi, di apprendere dal passato. La transizione deve molto alla memoria
storica della Guerra Civile e del franchismo e le istituzioni vengono disegnate guardando al
futuro in modo da non riprodurre le fragilità della Seconda repubblica: lo Stato delle
Autonomie accoglie parte delle domande brutalmente respinte dal regime di Franco e i
partiti si rinnovano cercando di imparare dai propri errori e perfino da quelli degli
avversari politici. Questa capacità di servirsi dell’esperienza del passato per costruire il
presente è uno degli aspetti salienti del modo in cui il sistema politico spagnolo si è
trasformato negli ultimi trent’anni.
La storia della transizione spagnola può dunque essere riassunta nei termini di un
cambiamento istituzionale verificatosi in continuità con il passato. Un cambiamento in cui
la legittimazione del nuovo sistema non equivale a delegittimare del tutto il precedente
regime poiché è proprio durante l’epilogo di quest’ultimo – e con spinte che provengono
dal suo interno – che si pongono le basi del cambiamento, traducendo gli umori di una
società civile pronta a chiudere con l’esperienza franchista per accogliere le regole e i
valori della democrazia. Tale continuità formale con il passato – durante la prima fase della
transizione – viene rivendicata dalla classe politica al potere come un valore positivo, ed è
accettata e considerata come la migliore possibilità in campo anche dai comunisti e dai
socialisti, i due principali partiti dell’opposizione antifranchista. Essa permette anche di
rendere massimo il consenso nei confronti del nuovo sistema politico, riducendo a frange
estremiste la critica del processo in atto.
Con la transizione democratica emerge anche una nuova classe politica, un insieme
di attori disparati provenienti in parte dagli ambienti franchisti (re compreso) e in parte
dall’opposizione antifranchista. Durante il processo verso la democrazia, le formazioni
politiche spagnole maturano gradualmente e in alcune occasioni aspirano alla guida del
paese, obiettivo per raggiungere il quale sono anche disposte a modificare il proprio
carattere originario fino a renderlo pressoché irriconoscibile.
Queste trasformazioni accomunano tutti i partiti democratici spagnoli, ma si riscontrano in
maniera assai evidente nella storia più recente del primo partito moderno di Spagna, il
Partido Socialista Obrero Español (Psoe), che nel giro di quattro anni, per accedere al
potere, cambia radicalmente la propria ideologia allontanandosi dal marxismo e si
7
reinventa quale “normale” partito socialdemocratico dell’Europa occidentale, pronto a
governare il capitalismo e ad essere un partner affidabile dell’Alleanza atlantica.
La storia spagnola dal 1975 al 1982 è una storia di “transizioni”: dall’autoritarismo
alla democrazia; dalla tradizione alla modernità; dall’isolamento all’ingresso in Europa;
dalla Guerra Civile all’emergere di una società civile; dalle acute divisioni della “guerra
fratricida” alla volontà di non ripetere più l’esperienza vissuta. Tutti questi processi si
avvantaggiano della collaborazione tra le principali forze politiche, e tra esse e la società
civile, al fine di costruire quel capitale di fiducia e di legittimazione del nuovo sistema
democratico, indispensabile presupposto per il suo successivo consolidamento.
Una storiografia per lo più unanime, almeno fino alla prima metà degli anni
Novanta, ha descritto la transizione spagnola alla democrazia come la storia di un
successo: alcuni studiosi sul versante politologico parlano di “laboratorio spagnolo” e
studiano le ipotesi di esportabilità del modello in tutto il mondo (nell’Europa dell’Est, in
America Latina e in Asia); altri, riflettendo sulle ripercussioni interne del processo,
evidenziano i vantaggi derivati da un sistema che è stato in grado di utilizzare tanto gli
apparati istituzionali quanto parte della classe dirigente del precedente regime al fine di
costituirne uno nuovo.
I primi studi analitici sul processo democratico spagnolo realizzati all’inizio degli
anni Ottanta sottolineano con decisione da un canto la mancanza di un progetto politico, di
un’agenda di interventi o di un programma per tappe stabilite a priori e dall’altro la
condivisione da parte delle principali forze politiche a concentrarsi sulla risoluzione dei
problemi di politica interna cui sono subordinate tutte le questioni di natura economica e di
politica estera. Accanto al proliferare di interpretazioni di stampo politologico e di
sociologia elettorale, il cui principale scopo è illustrare il sistema politico sorto dalle prime
elezioni democratiche nel giugno 1977, la storiografia individua nei mutamenti che hanno
caratterizzato il franchismo a partire dagli anni Cinquanta il momento storico in cui hanno
cominciato a materializzarsi quei fattori di lungo periodo che hanno favorito il successo
della transizione democratica spagnola. La crescita economico-sociale degli anni Sessanta
e la conseguente volontà di cogliere le opportunità offerte dalla modernizzazione sono
identificati come motori del cambiamento.
Si può constatare, tuttavia, un certo dualismo tra la storiografia sviluppatasi all’estero e
quella spagnola: se la prima è più attenta al risultato complessivo e all’analisi del caso
concreto nell’ottica dell’ipotetica esportabilità del modello, facendo passare quasi in
secondo piano il peso della forti ondate di scioperi e di manifestazioni che hanno
8
attraversato il paese in questa stagione, la seconda sottolinea l’alto livello di mobilitazione
e di violenza che fa da sfondo alla transizione.
Se fino alla metà degli anni Ottanta il giudizio sul processo democratico spagnolo è
tendenzialmente positivo, a partire da quel momento incominciano a circolare le prime
voci discordanti sia sulla riuscita della transizione sia sul carattere pacifico della stessa.
Dalla metà degli anni Novanta e ancor più a partire dall’inizio del nuovo millennio
cominciano a diffondersi una serie di riflessioni sul carattere debole della democrazia
spagnola che mettono in dubbio la rappresentazione di una transizione modélica nella
quale la lotta popolare per la democrazia rimane mero sfondo.
La posizione di questa corrente storiografica è esplicita: gli anni della transizione sarebbero
dominati dall’occultamento del ricordo della lotta antifranchista, quale antecedente
necessario al processo di trasformazione democratica, processo che, al contrario, si
fonderebbe sul ricordo collettivo della metamorfosi del Movimiento Nacional in Monarchia
parlamentare. Pur riconoscendo l’importanza della sovrastruttura politica, ad essere
enfatizzata è, tuttavia, la centralità del cambio por abajo e in particolare il ruolo delle
organizzazioni sindacali, degli organismi sociali di base e delle associazioni antifranchiste.
L’obiettivo evidente è quello di recuperare il ricordo dell’azione della società civile per la
democratizzazione delle istituzioni politiche.
A partire dal dibattito storiografico aperto dai critici della transizione, tra la fine del XX
secolo e gli inizi del nuovo millennio è esplosa a livello sociale e politico l’esigenza di fare
i conti con la Guerra Civile, con la repressione postbellica e con la dittatura franchista per
dotare la memoria istituzionale delle fondamenta di cui ha bisogno per superare quel
processo di “amnesia generale” che fino a quel momento non aveva consentito ai cittadini
spagnoli di confrontarsi con il proprio passato per poter voltare pagina in maniera
definitiva.
Se a livello sociale e politico quanto detto è ampiamente condiviso, esiste tuttavia
un gruppo consistente di studiosi che teme che il dibattito pubblico possa avere risvolti
negativi sul racconto della transizione democratica. Molti storici ancora oggi continuano a
difendere gli esiti ottenuti in quel torno di tempo e sono convinti che il modo in cui il
processo si è sviluppato sia stato il migliore possibile dal momento che l’eredità lasciata
dalla dittatura poteva far presagire una nuova fase conflittuale per il Paese.
Alla luce della produzione storiografica che si è occupata del tema, ho deciso di
sviluppare il mio lavoro con l’obiettivo di dimostrare come la transizione democratica
spagnola non sia un processo lineare e semplice come è stato presentato a ridosso della sua
9
conclusione, ma allo stesso tempo come la Spagna nel giro di pochi anni sia riuscita a
costruire un involucro costituzionale e legale da democrazia avanzata dando vita ad un
sistema politico maturo a cui è seguita una vita democratica intensa e ordinata.
Dopo aver consultato i professori Gabriele Ranzato e Alfonso Botti, ho deciso di
rivolgere la mia attenzione anche sulle vicende interne del Psoe - che durante gli anni
Settanta aveva realizzato “una vera transizione all’interno della transizione” -, sui conflitti
tra la sua anima socialdemocratica rappresentata da Felipe González (che poi prevarrà) e
quella marxista (che ha anche un punto di riferimento esterno nel Psp di Tierno Galván).
Nel farlo non mi sono affidato unicamente alla bibliografia che si è occupata
dell’argomento, ma ho anche analizzato le notizie riportate dal principale organo di stampa
del Psoe, El socialista, nel periodo intercorso tra il 1976 e il 1982 e i diversi documenti
prodotti dal partito, in particolare gli atti presentati e approvati nei congressi dell’epoca (il
XIII in esilio, il XXVII, il XXVIII, un Congresso Straordinario e il XXIX).
Ho trovato questi materiali presso gli archivi di due fondazioni culturali madrilene: la
Fundación Pablo Iglesias e la Fundación Francisco Largo Caballero. Entrambe create su
iniziativa di alcuni membri dell’Unión General de los Trabajadore (Ugt), queste due
fondazioni sono collegate all’attività del Psoe e si dedicano alla conservazione e alla
divulgazione del pensiero socialista.
Nello specifico, la Fundación Pablo Iglesias (a cui mi ha indirizzato il professor Ranzato),
presso la quale ho potuto consultare le pagine de El Socialista, concentra il suo lavoro in
attività culturali (conferenze, corsi ed esposizioni), nell’organizzazione di conferenze nei
paesi ispano parlanti, nella pubblicazione di riviste di contenuto politico, economico e
storico. Nel suo archivio si trovano più di due milioni documenti sulla storia del Psoe,
dell’Ugt, delle Joventudes Socialistas de España, di altre organizzazioni di sinistra (come
l’Unión Sindical Obrera, le Comisiones Obreras, le Joventudes Socialistas Unificadas e
la Liga Comunista Revolucionaria) e di vari dirigenti storici della sinistra spagnola come
Indalecio Prieto, Largo Caballero, Luis Araquistáin, Tomás Meabe e lo stesso Pablo
Iglesias.
La Fundación Francisco Largo Caballero (che mi è stata indicata dalla professoressa
Daniela Adorni), invece, ha mantenuto negli anni la sua vocazione politica e sindacale:
essa, infatti, si dedica principalmente alla “conservazione della memoria storica dell’Ugt e
del movimento operaio” promuovendo sia studi sociologici incentrati sulle condizioni dei
lavoratori, sia la cooperazione con le facoltà universitarie umanistiche e la collaborazione
con progetti internazionali per lo sviluppo dei paesi più svantaggiati. Tra le attività più
10
importanti realizzate da questa fondazione si segnala il recupero di tutti i documenti
prodotti dall’Ugt in esilio – la maggioranza dei quali era conservata nella città francese di
Tolosa – che sono rientrati in patria solo nel giugno del 1980.
Negli archivi di entrambe le fondazioni madrilene si possono consultare i
documenti prodotti dal Psoe alla fine degli anni Settanta, ma con una differenza sostanziale
ai fini della ricerca storica: se presso la Fundación Pablo Iglesias si possono trovare solo le
risoluzioni dei congressi e i programmi presentati dalle diverse federazioni, la Fundación
Francisco Largo Caballero conserva anche alcuni dei discorsi pronunciati dai leader
socialisti durante i lavori congressuali e alcuni documenti prodotti dalle diverse correnti
che hanno animato la storia del partito socialista almeno fino al settembre del 1979.
Devo ammettere però che, nonostante la disponibilità dimostrata dai due centri nel
mettermi a disposizione tutta la documentazione di cui avevo bisogno, il materiale
archivistico è conservato in maniera disordinata e disorganica e non per tutti i congressi si
può trovare la stessa varietà di informazioni. L’origine di tale difetto di conservazione
sarebbe da attribuire allo stesso Psoe che, se fino alla fine degli anni Novanta conservava
presso la sua sede di Madrid le carte e gli atti approvati durante i suoi congressi, negli
ultimi anni ha trasferito tutti i suoi documenti ufficiali alla Fundación Pablo Iglesias, ma
allo stesso tempo ha distribuito parecchio materiale tra diverse fondazioni culturali e
biblioteche dislocate per tutto il paese. Questa strategia dimostra purtroppo la scarsa
attitudine del Psoe a conservare la propria memoria storica e permette di constatare che
molti partiti politici europei sono accomunati dalla triste vicenda di chi non è in grado di
preservare il ricordo del proprio passato.
11
1. La Transizione alla democrazia
1.1 Processi di democratizzazione
Democrazia: Forma di governo che si basa sulla sovranità popolare e garantisce a ogni
cittadino la partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico.
2
Che cosa si intende per democrazia? Quale strada bisogna percorrere per
raggiungerla? Quando possiamo affermare che in un paese esiste un regime democratico?
Quante volte abbiamo sentito pronunciare queste domande negli ambienti accademici e
politici? Questioni che hanno dato luogo a risposte disparate a seconda delle differenti
esperienze nazionali, delle variabili utilizzate e del peso assegnato a ciascuna di esse.
Al primo quesito sollevato, ovvero, che cosa intendiamo per democrazia, si possono
fornire risposte molteplici, ma occorre non farsi condizionare eccessivamente dalla
tendenza di reinterpretare il passato in funzione dell’esperienza del presente, secondo il
celebre precetto di Benedetto Croce: “Tutta la storia è storia contemporanea”. Questo è un
rischio da evitare dal momento che l’esistenza di regimi democratici nel corso della storia
non deve essere confusa con l’attuale democrazia di massa.
Nel mondo contemporaneo il movimento democratico parte dalla concezione rousseauiana
secondo cui per natura tutti gli uomini sono uguali e le differenze non sono altro che una
convenzione sociale. Gli uomini, unendosi grazie al contratto sociale e sottomettendosi
all’autorità generale del popolo in quanto entità unitaria, evitano di diventare subordinati
alla volontà di altri individui e obbediscono alle leggi di cui sono essi stessi autori
collettivi. Carl Schmitt afferma che l’uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini derivava
dall’appartenenza ad una società determinata e solo come conseguenza di questa relazione
si stabiliscono altre uguaglianze, come è il caso dell’uguaglianza di fronte alla legge, il
voto uguale, il suffragio universale o l’uguaglianza per l’accesso agli incarichi pubblici. Da
questo punto di vista, democrazia significa identità di dominatori e dominati, di governanti
e governati, di coloro che comandando e coloro che obbediscono. La democrazia non può
2
Per la definizione di democrazia: http://www.treccani.it/enciclopedia/democrazia/
12
nascere dunque dalla disuguaglianza, da una supposta superiorità dei governanti, ma
esclusivamente dalla volontà, dal mandato e dalla fiducia nei confronti di costoro da parte
dei governati che, in questo modo, si trasformano in realtà nei governanti di sé stessi.
3
Joseph A. Schumpeter nel 1942 definisce la democrazia partendo dai concetti di fonte e
obiettivo incarnati reciprocamente dalla “volontà del popolo” e dal “bene comune” e
afferma che “il metodo democratico è quell’assetto istituzionale per arrivare a decisioni
politiche nel quale alcune persone acquistano il potere di decidere mediante una lotta
competitiva per il voto popolare”
4
. Sebbene questa definizione sia stata criticata per aver
fornito un’interpretazione élitistico-competitiva della democrazia in cui la partecipazione
della popolazione è limitata alla mera sfera elettorale, Schumpeter, evidenziando le
dimensione della competitività elettorale e della partecipazione, presenta l’estensione del
suffragio e il tipo di mandato concesso ai rappresentanti come una condizione necessaria,
sebbene non l’unica, per potere definire un sistema democratico.
Alla competitività schumpeteriana può essere contrapposta la teorizzazione fornita da
Hans Kelsen di una democrazia partitica, parlamentare e rappresentativa nella quale i
cittadini sono considerati politicamente attivi e coinvolti nel prendere parte al processo di
produzione delle decisioni politiche. Se si tiene conto, inoltre, della sostanza delle
decisioni e di come nascono le democrazie, il contributo di Adam Przeworski fornisce
un’interpretazione della democrazia intesa come un insieme di norme e procedure che
scaturiscono da accordi-compromessi tra i diversi attori che partecipano alla decisione
pubblica.
5
Per concludere questa rassegna sulle definizioni delle caratteristiche di base di un sistema
democratico, mi soffermerei sulla concezione di democrazia elaborata dal politologo
statunitense Robert Dahl. Lo studioso americano, inserito nella corrente del pluralismo, che
parte da una concezione atomista della società, impiegando come unità di analisi essenziale
l’individuo o gruppi di individui con interessi comuni, difende l’idea secondo cui nelle
società occidentali il potere non può essere cumulativo in quanto risulta essere disperso,
frammentato e quindi in uno stato di competizione continua. In questa situazione ognuno
dispone del potere e nessun gruppo di interesse può da solo dominare lo Stato dal momento
che, in qualunque momento critico del processo decisionale, qualsiasi gruppo attivo e
legittimo della popolazione può far sentire le proprie rivendicazioni. A coloro che
3
À. Soto, La transición a la democrazia. España, 1975-1982, Alianza Editorial, Madrid 1998, pp. 13-14.
4
J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, ETAS, Milano 2001, p. 269.
5
M. Morini, Il ”regime ibrido”: un caso di gerrymandering concettuale, relazione presentata al
CONVEGNO ANNUALE DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI SCIENZA POLITICA (S.I.S.P.,) 8/10 settembre
2011, Palermo, rilevabile al sito: http://www.sisp.it/files/papers/2011/mara-morini-1104.pdf
13
rimproverano che in tale situazione non si può sviluppare una democrazia in senso
popolare, Dahl, convinto della non attuazione totale dell’esperienza democratica, ribatte
che si realizza almeno una poliarchia (o pluralismo), caratterizzata da alcuni requisiti
fondamentali relativi all’opportunità di formulare ed esprimere preferenze che sono
valutate in modo eguale dai governanti.
6
La poliarchia, quindi, identifica e stabilisce i
prerequisiti che definiscono il grado in cui un regime politico si approssima all’ideale di
democrazia: pluralismo, multipartitismo e garanzia effettiva dei diritti e libertà individuali
e collettive.
7
Sostanzialmente una definizione minima di democrazia, condivisa nella letteratura
politologica, prevede le seguenti caratteristiche: 1) autorità pubbliche elette; 2) elezioni
libere e competitive, ricorrenti e corrette; 3) suffragio universale, maschile e femminile; 4)
diritto a competere per l’assegnazione di incarichi pubblici; 5) libertà di espressione; 6)
pluripartitismo e libertà di associazione; 7) pluralismo delle fonti di informazione.
Tornando al secondo dei tre quesiti che mi sono posto ad inizio capitolo, ovvero, se
è possibile identificare dei criteri che garantiscono e facilitano l’ingresso alla democrazia,
tale questione ha dato luogo ad un ampio dibattito i cui aspetti principali emergono in
maniera estremamente interessante. Una prima risposta sostiene che non è possibile
riconoscere dei prerequisiti o delle predisposizioni alla democrazia e, pertanto, è
impraticabile la strada verso l’elaborazione di un solo “modello” da seguire. Come
sostenuto da Karl e Schmitter, non si può pretendere di ricercare delle condizioni uniche e
identiche attraverso un’analisi comparata per gruppi di paesi, in un periodo concreto, in
una medesima situazione internazionale e in una simile situazione economica, ma occorre
concentrare i propri sforzi in una comprensione basata sulla varietà delle circostanze in cui
i regimi democratici possono sorgere.
Fenomeno politico assai complesso, la democrazia ha costituito l’oggetto di analisi di
diverse discipline – filosofia, sociologia, storia, diritto e scienza politica - che hanno
elaborato sia teorie sia studi empirici, volti a spiegare le fasi di nascita, di sviluppo e
declino e le dinamiche endogene del suo mantenimento, funzionamento, trasformazione e
diffusione, intercorse nel tempo.
La democrazia che noi oggi conosciamo è una forma di governo piuttosto recente che
comincia ad affermarsi nel XIX secolo e alcune delle sue caratteristiche fondamentali,
come il suffragio universale maschile e femminile, si consolidano solo dopo la Seconda
6
À. Soto, La transición a la democrazia, cit., p. 15.
7
C. Sastre García, Transición y desmovilización politica en España (1975-1978), Valladolid: Secretariado de
Publicaciones e Intercambio Cientifico, Universidad de Valladolid 1997, p. 23.
14
Guerra Mondiale. Secondo un approccio di tipo neoistituzionalista, la modernizzazione
politica, e pertanto la democratizzazione, è vista come un processo basato sulla
razionalizzazione dell’autorità, sulla differenziazione strutturale e sull’espansione della
partecipazione. Risultano quindi necessari, per la nascita di un sistema democratico, lo
sviluppo e l’istituzionalizzazione di organizzazioni e procedimenti politici in grado di
rispondere alle nuove domande e alle forze sociali prodotte da un cambiamento avvenuto
su scala globale.
8
Allo stesso tempo si tenderebbe a fare coincidere la democrazia con lo sviluppo del
capitalismo e, seguendo questa tesi, non sembrerebbe rischioso sostenere, nonostante la
presenza di paesi capitalistici non democratici, l’esistenza di una certa relazione, almeno
nella misura di una trasferimento della competitività scaturita dall’economica di mercato al
campo politico, in cui competono i partiti e i cittadini eleggendo l’opzione politica che pare
soddisfare maggiormente le proprie esigenze.
Sarebbe però un errore stabilire deterministicamente un nesso tra sviluppo economico e
democrazia. Seyour Martin Lipset è l’autore che apre la strada a questo tipo di soluzione,
condivisa da una lista interminata di studiosi. Il sociologo statunitense difende l’esistenza
di una relazione diretta tra il livello di sviluppo socioeconomico di una società e la
presenza di un sistema democratico. L’ipotesi avanzata da Lipset solleva però numerosi
problemi, soprattutto al momento di comprovarla empiricamente, infatti nei paesi del Sud
America e nei paesi dell’Est la sua ipotesi non si è avverata. Al contrario, secondo José
Antonio Maravall i processi di democratizzazione iniziano solitamente quando le economie
entrano in crisi. Bisogna considerare anche l’esistenza della democrazia in paesi
sottosviluppati, l’inesistenza della stessa in nazioni sviluppate, l’emergenza del fascismo
in società relativamente avanzate e il fallimento della democrazia nei paesi più
industrializzati dell’America Latina. Alla luce di queste considerazioni risulta azzardato
sostenere un unico e necessario nesso tra democrazia ed economia.
Un altro approccio a questo tema, che nasce dalla tradizione degli studi macrosociali, è
quello di Barrington Moore che nel suo studio su Le origini sociali della dittatura e della
democrazia insiste nello spiegare che l’“assenza della rivoluzione borghese” contribuisce
alla persistenza dell’autoritarismo e alla debolezza della democrazia. In questa tesi non si
prende però in considerazione la classe operaia industriale, il cui rafforzamento in Europa a
partire dalla metà del XIX secolo, l’ha convertita nell’attore decisivo cui bisogna far
riferimento perché esista un ordine politico legittimo. L’approccio di Moore, inoltre, risulta
8
C. Sastre García, Transición y desmovilización politica en España (1975-1978), cit., p. 18.
15
erroneo se applicato al caso spagnolo, quello di un paese in cui a metà ‘800 si era realizzata
e consolidata la rivoluzione borghese, ma in cui dal 1923 fino al 1975, escludendo la breve
esperienza della Seconda Repubblica, è esistito un sistema politico autoritario.
9
Il problema sta dunque nella debolezza degli attori politici e sociali e nell’assenza negli
stessi di una cultura civica. È stato considerato da Almond e Verna che la stabilità politica
e la democrazia dipendono dai valori, atteggiamenti e motivazioni di una società, ovvero
dalla sua cultura civica, caratterizzata da una partecipazione politica che non mette in
pericolo l’autorità politica, da un compromesso civile moderato e dall’esistenza di profondi
dissensi nella società.
10
La cultura, nel senso ampio del termine, è uno dei concetti più utilizzati al momento di
stabilire se un paese è pronto per ospitare istituzioni democratiche ed è intesa come un
insieme di valori che contribuiscono a credere nella libertà, nella partecipazione, nel
dissenso, nella negoziazione, nel compromesso, nella tolleranza e nel rispetto delle leggi.
In definitiva si può constatare che esistono delle condizioni perché un regime politico
democratico possa trionfare; nello specifico è essenziale che sia sviluppata una certa
cultura civica nel seno della società civile ed esistano delle regole economiche che
favoriscono la competitività, convivendo con un’economia di mercato d’integrazione che
unisce lo sviluppo economico e il benessere sociale.
Samuel P. Huntington, descrivendo i processi politici che conducono alla democrazia,
riconosce che negli ultimi due secoli hanno avuto luogo tre ondate di democratizzazione.
Un’ondata di democratizzazione è definita come un insieme di transizioni da un regime
non democratico ad un altro democratico e, durante la stessa, si possono produrre anche dei
processi di liberalizzazione o di democratizzazione parziale in quei sistemi politici che non
sono propriamente democratici. La prima ondata ha le sue radici nelle rivoluzioni
nordamericana e francese e ha avuto luogo alla fine del XIX secolo; la seconda dopo la
vittoria alleata nel 1945, in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, e l’inizio del processo
di decolonizzazione; la terza, soprannominata da Huntington global democratic revolution,
a partire dal 25 aprile del 1974 con la Rivoluzione dei garofani in Portogallo, cui segue la
democratizzazione di trenta paesi tra Europa, Asia e Africa. Questa terza ondata dà
impulso ad una nuova fase di democratizzazione, chiamata da alcuni autori quarta ondata,
alla fine degli anni ’80, a seguito del crollo dell’Unione Sovietica, che interessa i paesi che
si trovavano sotto la sua orbita e che ha ripercussioni anche nel continente africano.
9
À. Soto, La transición a la democrazia, cit., pp. 16-17.
10
C. Sastre García, Transición y desmovilización politica en España (1975-1978), cit., p. 18.
16
Sebbene si possa correre il pericolo di semplificazione, banalizzazione e distorsione della
realtà, è possibile stabilire alcuni elementi comuni tra i diversi processi di transizione alla
democrazia: l’esistenza di un contesto internazionale basato sulla distensione e
comunicazione fluida tra i paesi; un periodo anteriore di deterioramento della dittatura, con
la conseguente diminuzione della sua legittimità e l’emergere di settori democratici che
acquisiscono sempre più influenza sull’opinione pubblica; l’aumento del protagonismo
politico dei gruppi di centro-destra, considerati riformisti in seno alla dittatura, che
dall’essere emarginati da questa conseguono prestigio di fronte alla società civile e sono
chiamati ad occupare il potere nei delicati momenti della transizione politica.
Questa approssimazione deve essere però completata da altri elementi di indubbia
trascendenza: l’esistenza di movimenti tra i cittadini, per la maggior parte delle volte
capitanati dalla sinistra, che creano le basi per la nascita di una vera opposizione politica
nel senso democratico del termine; e la presenza di una sinistra capace di negoziare il
processo di transizione alla democrazia. Il contributo principale apportato dalla terza
ondata di democratizzazione consiste nella ricerca di risoluzioni dei conflitti non basate
sullo scontro frontale, a differenza di quanto avvenuto negli anni trenta, ma sulle regole del
gioco democratico, propiziando una nuova fase della storia in cui, sebbene esista un
conflitto strutturale all’interno della società, questo tende a disciplinarsi sulla base di una
maggiore articolazione e protagonismo degli attori sociali.
11
1.2 Durata e dinamiche di una transizione
Transizione: Intervallo che si estende tra un regime politico ed un altro, caratterizzato dal
fatto che nel suo trascorso le regole non erano state definite.
12
Le transizioni politiche da un regime autoritario costituiscono uno dei temi che ha
destato grande interesse nella sociologia politica, non solo per il significativo progresso
che la democrazia registra di fronte all’autoritarismo durante gli ultimi tre decenni, ma per
il modello di gestione della transizione che rende possibile la democrazia. A partire dalla
nascita del paradigma delle democratizzazioni ad opera di O’Donnell, Schmitter e
11
À. Soto, La transición a la democrazia, cit., p. 20.
12
G. O’Donnell, P. C. Schmitter, Transiciones desde un Gobierno Autoritario, Paido Ediciones, Buenos
Aires 1988, p. 19
17
Whithead, il concetto di transizione definisce un intervallo tra l’autoritarismo e un altro
regime politico che può essere la democrazia, la restaurazione di un nuovo regime
autoritario, lo scontro civile o l’instaurazione di un regime rivoluzionario democratico.
L’esperienza dimostra che il fallimento di un regime autoritario non necessariamente
condurrà alla democrazia, da qui l’importanza di studiare come si sviluppa e gestisce
questo intervallo tra regimi, chiamato appunto transizione.
13
Mentre storicamente le transizioni alla democrazia hanno adottato forme diverse
basate principalmente sulla rottura con il regime anteriore per mezzo di rivoluzioni interne,
invasioni esterne o colpi di Stato, nelle transizioni inseribili nella terza ondata di
democratizzazione, predomina un modello di riforma o trasformazione del regime
autoritario, in cui i detentori del potere sono investiti del ruolo di attori decisivi per la
conversione di quest’ultimo in un sistema democratico. Sedici dei trentacinque paesi che si
democratizzano tra il 1974 e il 1990 seguono la via della trasformazione per transitare
dall’autoritarismo alla democrazia. Da questo punto di vista, la formula basata sul
consenso con cui la Spagna passa, nel giro di pochi anni, dalla dittatura alla democrazia si
converte presto in un modello paradigmatico da imitare. La transizione spagnola alla
democrazia negli anni Ottanta, basata sulla collaborazione tra élite politiche e sociali, viene
raccontata come la storia di un grande successo ispirando altre transizioni democratiche in
tutto il mondo (nell’Europa dell’Est, in America Latina e in Asia).
14
A partire da queste considerazioni si sviluppa un acceso dibattito scientifico attorno alla
ricerca ed elaborazione di un modello teorico di transizione che possa essere applicato al
caso spagnolo e trasferito ad altre esperienze nazionali. L’interpretazione dominante della
letteratura politologa parla di un percorso esemplare, elevato al rango di esempio da
seguire, per intraprendere un cambiamento politico verso un sistema democratico. In
Spagna, all’origine del fallimento della coalizione autoritaria ci sarebbe il disaccordo tra
distinte fazioni di fronte alla risposta da dare alle domande politiche suscitate dai
cambiamenti economici avvenuti negli anni ’60, a seguito del processo di
industrializzazione che ha interessato il paese, e che hanno raggiunto dimensioni critiche
già prima della morte di Franco nel 1975. In seguito, il patto tra gli elementi riformisti del
franchismo e le forze di opposizione renderebbe possibile la democrazia. La transizione è
13
C. Sastre García, Transición y desmovilización politica en España (1975-1978), cit., p.11.
14
V. Pérez-Díaz, La lezione spagnola. Società civile, politica e legalità, Il Mulino, Bologna 2003, p. 110.