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livello di produttività e la rigidità del sistema economico, ma se ne
possono individuare molti altri come lo sviluppo eccessivo del settore
dell’industria pesante (quella degli armamenti in primis) a danno degli
altri settori industriali e del settore dei servizi considerato improduttivo,
l’eccesso di domanda di forza lavoro e l’assenza di progressi
tecnologici. Tra i motivi della bassa produttività della forza lavoro
bisogna inoltre citare il basso morale dei lavoratori dovuto all’assenza
di incentivi attribuiti per il merito o per il talento.
Dunque non c’è nulla di cui meravigliarsi se il crollo del blocco
sovietico provocò un’ondata di ottimismo tra quelle popolazioni che
avevano vissuto fino ad allora sotto il controllo dell’URRS, infatti la
rimozione dell’apparato di controllo politico sulle attività economiche
apriva la prospettiva di una futura prosperità. Questo sentimento
d’ottimismo attecchiva soprattutto tra i cittadini degli stati dell’Europa
centrale e orientale che, geograficamente limitrofi all’Europa
occidentale, avevano meglio constatato la distanza che esisteva fra il
tenore di vita delle popolazioni dei due blocchi e finalmente vedevano
concretizzarsi la possibilità di usufruire di un benessere che tanto
avevano sognato e invidiato.
Ovviamente, per arrivare a godere di questo benessere, la strada non è
semplice, il processo di transizione da un’economia centralizzata e
pianificata ad un’economia di mercato è, infatti, un cammino
complesso e irto di difficoltà che possono essere di svariato genere: ci
possono essere difficoltà legate alle condizioni di partenza del paese o
che nascono durante il percorso della transizione, il più delle volte si
presentano entrambi i generi.
Tuttavia i paesi dell’Europa centrale e orientale e gli ex paesi
dell’Unione sovietica erano ben preparati ad affrontare il processo di
transizione: erano industrializzati, erano in possesso di una forza lavoro
sufficientemente numerosa, con un notevole livello culturale e in buona
salute ed il tasso di crescita della popolazione era minimo. Esistevano
tutti i presupposti per una buona riuscita della transizione ed anche la
carenza nel campo tecnologico non era motivo di pessimismo in
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quanto, con la libera circolazione di informazioni e con l’assistenza
dell’Occidente, l’ostacolo sarebbe stato facilmente scavalcato.
Una difficoltà concreta è, invece, rappresentata dall’assenza di studi
precedenti sulle economie in transizione che possano essere prese a
modello dai paesi dell’Europa centrale e orientale e dai paesi dell’ex
Unione sovietica. I pochi studi condotti fino ad ora hanno per oggetto,
infatti, paesi (ad es. Cina e Vietnam) che, per le loro dimensioni, per le
situazioni di partenza o per le loro caratteristiche socio-politiche,
difficilmente possono fornire informazioni utili per agevolare la
transizione degli stati dell’ex blocco sovietico. Non è facile quindi
prevedere i risultati di questa o quella politica economica, l’esatta
sequenza in cui queste debbano essere messe in atto e la velocità ideale
con cui si debbano intraprendere le riforme politiche ed economiche
necessarie per la transizione. Diversi studi hanno cercato di fornire
linee guida generali per condurre la transizione
1
, ma il tentativo di dar
vita a teorie generali valide per l’insieme dei paesi coinvolti nel
processo incontra ostacoli insormontabili dato che le situazioni non
sono affatto simili, come si potrebbe pensare, ma presentano importanti
differenze, soprattutto diverse condizioni di partenza. In particolare si
possono distinguere due realtà: una costituita dai paesi dell’Europa
centrale e orientale e dai paesi baltici e l’altra composta dalle
repubbliche dell’ex Unione sovietica.
La difficoltà d’analizzare il fenomeno deriva anche dal fatto che la
transizione non è un processo compiuto, ma tuttora in atto, nonostante
sia iniziato quasi quindici anni fa ed è ancora lontano dall’essere
portato a termine con successo, anche se innegabili sono i risultati
positivi già raggiunti.
La carenza o l’inaffidabilità delle statistiche relative all’andamento
economico di questi paesi rappresenta un ulteriore ostacolo. Infatti
queste informazioni scarseggiano soprattutto per il periodo precedente
al 1989 ed è quindi complesso stabilire con precisione quale fosse la
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Di studi sulla velocità ottimale con cui condurre il processo di transizione si sono
occupati numerosi economisti, in particolare Philippe Aghion e Olivier Blanchard
(1994), Michael Castanheira e Gérard Roland (2000), Bankhim Chadha e Fabrizio
Coricelli (1995) e Bankhim Chada, Fabrizio Coricelli e Krajnyak (1993).
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condizione di partenza di ciascun paese prima della transizione. Inoltre,
anche quando sono reperibili statistiche riguardanti tale periodo, queste
si basano su stime ufficiali che ignorano il peso che poteva avere
l’economia sommersa.
È a causa di tutte le difficoltà sopra citate che lo studio del processo di
transizione e la conseguente creazione di teorie della transizione sono
grandi sfide per gli economisti del nostro decennio.
In particolare dovremmo essere interessati allo studio del processo di
transizione delle economie dei paesi che sono entrati recentemente
nell’Unione europea in quanto questi, oggi più di ieri, possono
influenzare con il loro andamento positivo o negativo, l’andamento
economico di tutta l’Unione. La Commissione europea, negli ultimi
anni, ha monitorato i progressi fatti da questi paesi in direzione di
un’economia di mercato per assicurarsi che, al momento dell’entrata
nell’Unione, tali economie fossero abbastanza solide da poter essere
competitive in un mercato aperto e pressoché privo di barriere
protezionistiche come quello europeo.
A tal fine la Commissione europea aveva condizionato l’ingresso
nell’Unione di tali paesi al raggiungimento dei cosiddetti “criteri di
Copenaghen” (stabiliti dai paesi dell’Unione durante la conferenza di
Copenaghen nel 1993). Si tratta di tre criteri, uno politico, uno
economico ed uno relativo all’”acquis” comunitario. Il criterio politico
richiede al paese candidato di avere istituzioni stabili che garantiscano
la democrazia, lo stato di diritto, i diritti dell’uomo e la tutela delle
minoranze, quello dell’acquis comunitario richiede al paese candidato
la capacità di rispettare e porre in atto la normativa della Comunità. Ma
il criterio che più ha condizionato in alcuni paesi il processo di
transizione è senza dubbio quello economico in quanto comporta la
necessità per gli stati candidati di dotarsi di un’economia di libero
mercato capace di sostenere la pressione concorrenziale e le forze di
mercato all’interno dell’Unione europea.
Questo criterio, che impone il raggiungimento ed il mantenimento di
precisi parametri, ha inciso sullo svolgimento del processo di
transizione poiché ha limitato la possibilità di scelta dei paesi
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interessati ad aderire all’Unione. Essi, infatti, hanno dovuto adottare
alcune politiche economiche anziché altre che, seppur valide, sarebbero
state incompatibili con il rispetto di tali parametri
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.
Questo lavoro si occuperà delle problematiche della transizione che
investono tutti gli stati coinvolti in questo processo, ma focalizzerà
l’attenzione sull’esperienza della Repubblica Ceca, sui risultati da essa
raggiunti fino ad oggi e sulle sue prospettive di sviluppo futuro in seno
all’Unione europea.
La Repubblica Ceca fino ad ora è senz’altro uno dei paesi che meglio è
riuscito nel processo di transizione e gran parte del suo successo lo
deve al fatto di essere partita da condizioni alquanto favorevoli se
paragonate a quelle di numerosi altri stati. Infatti è stato uno dei primi
paesi a soddisfare le condizioni imposte dall’Unione europea per
l’adesione e la Commissione, già nella sua relazione del 2002, aveva
riscontrato che la Repubblica Ceca aveva completato l’allineamento
della sua legislazione sull’“acquis” comunitario relativo all’UEM.
La prima fase della transizione per questo paese dovrebbe essere
superata. Essa è stata caratterizzata da svariati fenomeni, alcuni previsti
dagli economisti ed altri del tutto inaspettati.
Nella prima categoria di fenomeni rientrano la privatizzazione di
numerose imprese statali, il ridimensionamento del settore industriale
che sotto il regime sovietico era il settore più sviluppato e che occupava
la maggior parte della forza lavoro, lo spostamento della porzione di
forza lavoro eccedente nel settore industriale verso il terziario, il
vertiginoso aumento degli investimenti diretti provenienti dall’estero, la
creazione di nuovi organi per colmare l’enorme vuoto istituzionale
lasciato dal crollo del comunismo, l’aumento del tasso di
disoccupazione (conseguenza, in gran parte, dei tentativi di contenere
l’inflazione per arrivare al soddisfacimento dei criteri di Copenaghen) e
la crescita della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza.
Nella categoria dei fenomeni non previsti dagli economisti si collocano
invece l’iniziale caduta del livello di produzione e la successiva ripresa
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Per un esempio di tali scelte vincolate si veda Frank Barry, John Bradley, Michal
Kejak, e David Vavra “The Czech economic transition”, Economics of Transition,
vol. 11, pagg. 552-553.
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(in contrasto con le esperienze di Cina e Vietnam dove invece lo
sviluppo è stato rapido e continuo) e la drammatica riduzione dello
stock di capitali quando invece ci si aspettava un aumento
dell’efficienza. Inoltre la transizione ha inciso su aspetti su cui non ci si
aspettava ripercussioni, come il tasso di mortalità (che è aumentato) e il
tasso d’istruzione (che è, invece, diminuito).
Nella prima parte di questo lavoro si condurrà un’analisi generale dei
fenomeni sopra elencati e si concentrerà l’attenzione sul caso della
Repubblica Ceca, verificando se questa, per il fenomeno di volta in
volta preso in considerazione, segua il trend degli altri paesi coinvolti
nella transizione (sempre che sia individuabile un trend generale) o se il
suo andamento costituisca un’eccezione e, nel tal caso, si cercherà di
fornire le possibili spiegazioni di tale anomalia.
C’è infine da occuparsi dei possibili sviluppi futuri delle economie in
transizione. Qui si affronteranno solo le teorie riguardanti la
Repubblica Ceca che ipotizzano il cammino che questo paese seguirà
per arrivare ad allinearsi agli standard di benessere, produzione e
ricchezza degli altri paesi dell’Unione.
In una certa misura, queste ipotesi possono essere estese agli altri paesi
da poco entrati nell’Unione. Tuttavia previsioni che pretendano di
essere valide per tutti gli stati coinvolti nel processo di transizione
sarebbero poco affidabili, in quanto cadrebbero inevitabilmente in
generalizzazioni difficilmente accettabili tenuto conto delle profonde
differenze esistenti (di cui in parte si è detto sopra e su cui ci si
soffermerà anche in seguito) nella struttura politica, economica e
sociale di tali paesi.