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lavoro, i prestatori di lavoro hanno una limitata disponibilità dei diritti, perché la
loro dismissione è disciplinata in modo restrittivo dall’art 2113c.c.
Infatti, tale disposizione, così come novellata dalla L.n. 533/1973, afferma
l’invalidità delle rinunce e delle transazioni del lavoratore sui diritti derivanti da
norme inderogabili di legge o dei contratti collettivi e sottopone l’impugnazione ad
un breve termine di decadenza(6mesi), decorrente dalla cessazione del rapporto o
dal momento in cui è intervenuta la rinuncia o la transazione. Tale termine di
impugnazione non può essere oggetto di diversa pattuizione collettiva oppure
individuale.
Questa disposizione è molto importante perchè pone sullo stesso piano la legge e la
contrattazione collettiva, equiparandone in questo modo il regime giuridico per
quanto concerne l’efficacia reale ed il potere dispositivo dei singoli.
L’art. 2113 c.c. rappresenta uno snodo essenziale del rapporto di lavoro subordinato
e tutela fortemente il lavoratore. Questa previsione della legge tutela il lavoratore
quale parte per antonomasia debole del contratto, impedendo che il lavoratore sia
obbligato dal suo datore di lavoro a rinunciare o a transigere sui suoi diritti.
Le disposizioni inderogabili hanno una funzione di tutela: minimale, circa gli
interessi collettivi rilevanti solo indirettamente; completa, circa l'interesse
individuale del singolo lavoratore.
La causa di invalidità della rinuncia/transazione è solo la lesione dell'interesse del
lavoratore. IL fondamento giuridico di tale invalidità è l'inderogabilità del minimo
trattamento economico/normativo imposto dal contratto collettivo che rappresenta a
tutti gli effetti un limite all'autonomia negoziale del lavoratore nel suo stesso
interesse; non come descriveva un superato orientamento dottrinale secondo cui le
norme inderogabili generavano diritti indisponibili per il lavoratore (in realtà non si
5
assiste ad una reale incapacità/indisponibilità ma si ha una parziale disponibilità
entro limiti minimi ben definiti.
L'art. 2113 è una vera e propria garanzia di livelli minimi imposti da norme
imperative ed esso rappresenta la norma cardine circa le controversie individuali di
lavoro.
Rinuncia e transazione sono due negozi dispositivi (limitano l'esercizio delle facoltà
di disposizione di diritti soggettivi).
La rinuncia (art. 1324 c.c.) è l'atto tendente alla dismissione di un diritto soggettivo
da parte del titolare; rappresenta il riconoscimento puro e semplice dell'altrui
rivendicazione o contestazione.
La transazione (art. 1965 c.c.) è il contratto mediante il quale le parti, facendosi
reciproche concessioni, rimuovono o prevengono una lite.
Le rinunzie e le transazioni possono essere impugnate dal lavoratore con qualsiasi
atto scritto, anche stragiudiziale, entro sei mesi.
Se il lavoratore omette di impugnare tempestivamente la rinuncia o la transazione
tale omissione provoca l'effetto di sanare il negozio inizialmente invalido.
Occorre tenere ben distinti i due momenti di impugnazione e azione di
annullamento.
L’impugnazione rende nota la volontà del lavoratore e si prefigge di aprire una
controversia verso il datore per accertare l'invalidità della rinuncia/transazione in
quanto lesivi di diritti soggettivi. Essa rappresenta la condizione di ammissibilità
dell'azione di annullamento e inoltre: 1) impedisce la decadenza dell'azione; 2) dà il
via al termine di prescrizione dell'annullamento che decorre dalla data
dell’impugnazione.
L'azione di annullamento è la vera e propria azione in giudizio. Il prestatore chiede
6
al giudice di annullare l'efficacia della rinuncia o transazione e ripristinare così i
diritti lesi. Bisogna notare che: 1) l'invalidità è sancita da parte del giudice tramite
sentenza di accertamento costitutivo; 2) durante l'accertamento di annullamento,
rinuncia e transazione sono provvisoriamente efficaci per un periodo massimo di
cinque anni.
Se la rinuncia o transazione avviene nella fase istitutiva del rapporto, essa è nulla. Se
avviene durante lo svolgimento del rapporto, a diritti già acquisiti, è annullabile.
Sono valide e quindi non impugnabili le rinunce o transazioni che siano avvenute o
stipulate innanzi al giudice, alle commissioni presso le direzioni provinciali del
lavoro, o secondo procedure previste dai CCNL, poiché il lavoratore in questa sede
perde il ruolo di contraente debole
In ambito di validità sono da ricordare le transazioni collettive (stipulate dal
sindacato nell'interesse di più lavoratori). Esse sono valide solo in presenza di un
mandato specifico conferito o nella successiva adesione dei singoli prestatori tramite
ratifica.
Differenti e distinte sono le quietanze a saldo, ossia documenti sottoscritti dal
lavoratore solitamente a fine del rapporto in cui, nel ricevere una certa somma,
evince la piena soddisfazione del prestatore che non ha più nulla da pretendere in
quanto a crediti di lavoro.
Infine di particolare importanza è la transazione novativa. Tenendo conto del
secondo comma dell’art. 1965 c.c. (“con le reciproche concessioni si possono creare,
modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto
della pretesa o della contestazione delle parti”), la dottrina ha distinto una
transazione semplice, nella quale le reciproche concessioni restano nell’ambito della
situazione giuridica dedotta in lite, da una transazione complessa, dove queste
7
trascendono la sfera del rapporto litigioso e coinvolgono rapporti estranei alla lite,
perdendo autonomia giuridica e divenendo elementi della transazione. C’è quindi un
assorbimento di questi rapporti. Sul lato pratico è utilizzato maggiormente lo schema
della transazione novativa rispetto a quello della transazione semplice.
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CAPITOLO I
LE RINUNCE E LE TRANSAZIONI: PROFILO STORICO
1.1: Origini e ratio dell’art 2113 c.c.
La possibilità per il lavoratore subordinato di disporre liberamente dei propri diritti è
limitata dall’art 2113 c.c.. Tale norma, nel testo vigente, stabilisce l’invalidità delle
rinunzie e delle transazioni su diritti derivanti da norme inderogabili di legge e dei
contratti collettivi, l’impugnabilità di un termine di decadenza di sei mesi (decorrenti
dalla cessazione del rapporto o dal momento in cui è intervenuta la rinuncia o la
transazione) e la validità delle rinunce e delle transazioni poste in essere in sede
giudiziale, amministrativa e sindacale. La ragion d’essere di tale disposizione è
generalmente individuata nell’esigenza di tutelare il lavoratore subordinato che, a
causa della debolezza economica e dell’inferiorità nei confronti del potere
gerarchico del datore di lavoro, potrebbe essere costretto a porre in essere dei negozi
dispositivi dei propri diritti.
Fra le prime disposizioni cui bisogna fare riferimento per operare una ricostruzione
storica, vi è l’art. 17 del R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825 sull'impiego privato,
convertito nella L. 18 marzo 1926 n. 562. Essa costituì l'unica fonte legale organica
dedicata alla rapporto di lavoro in genere, o meglio ad una species (l'impiego
privato), staccata dal più ampio tronco della locatio operarum. Tale disposizione
stabiliva l'inderogabilità delle norme poste a tutela dell'impiegato, infatti così
recitava: " Le disposizioni del presente decreto saranno osservate malgrado ogni
patto contrario, salvo il caso di convenzioni od usi più favorevoli all'impiegato e
salvo il caso che il presente decreto espressamente ne consenta la deroga
9
consensuale".
Se da un lato tale disposizione era chiara nel sancire l'inderogabilità in pejus della
disciplina legale ad opera del contratto individuale, dall'altro non risolveva il
problema sul modo di valutare eventuali negozi dispositivi o abdicativi di diritti già
acquisiti dal lavoratore, difformi da quanto garantito dalla legge.
Conseguenza dell'inderogabilità stabilita dall'art. 17 R.D.L. n. 1825/1924 avrebbe
dovuto essere l'indisponibilità di diritti derivanti da norme inderogabili. Infatti, a
nulla sarebbe valso stabilire l'inderogabilità della normativa, se poi fosse stata
riconosciuta al soggetto protetto la possibilità di rinunciare a quei diritti che
l'ordinamento esige gli siano garantiti
1
.
Secondo una prima tesi, dall'art. 17 R.D.L. 1825/24 doveva desumersi la forza di
legge degli usi in materia di impiego privato che acquistavano valore imperativo ed
erano dunque inderogabili ad opera di fonti subordinate alla legge: fu questa
l'opinione tenacemente sostenuta da una parte della dottrina. In questa prospettiva,
l'effetto prodotto dall’affermato principio dell'inderogabilità in pejus di cui all'art. 17
era duplice: da un lato, tale norma cristallizzava gli usi più favorevoli al momento
dell'entrata in vigore della legge, evitando che il ripetersi, pacifico e incontestato, di
una serie di deroghe peggiorative li facesse in breve tempo cadere in desuetudine,
dall'altro, essa favoriva la formazione spontanea di nuove consuetudini, nei limiti in
cui queste apportassero miglioramenti alle disposizioni di legge.
La tesi opposta considerava, invece, come unico, insormontabile, limite posto
all'autonomia privata, quello dei minimi di legge, quel minimo legale indefettibile,
oltre il quale altro ostacolo o divieto la legge speciale non ha posto alla convenzione
delle parti, cosicché questa, quando sia rispettosa del trattamento minimo legale,
1
Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, Art. 2113, Milano, Giuffrè, 1990
10
rimane, secondo il diritto comune, la vera legge delle parti.
Una soluzione intermedia tra quelle innanzi prospettate riconobbe solo al contratto
collettivo corporativo, la possibilità di prevalere sugli usi più favorevoli
all'impiegato, nel dichiarato intento di conciliare l'efficacia di una legge non
abrogata con le esigenze del nuovo sistema corporativo.
Fu a seguito dell'approvazione della legge sul contratto di impiego privato che si
cominciò a porre la questione dell'ammissibilità della dismissione dei diritti attribuiti
al lavoratore da norme imperative, e si provò a dilatare la nullità dei patti in deroga
alla legge, fino a ricomprendervi anche i negozi dispositivi. Infatti, almeno per gli
atti dispositivi come le rinunce, si ritenne di poter operare un immediato e
automatico collegamento fra inderogabilità della normativa di tutela ed
indisponibilità dei diritti in essa sanciti, senza, dunque, la mediazione di una norma
analoga all'attuale art. 2113.
Vi fu, invece, un netto contrasto sulla possibilità o meno di assoggettare a tale
regime anche le transazioni, giacché per queste ultime il rapporto di
conseguenzialità fra inderogabilità delle norme e invalidità del negozio era assai
meno evidente di quanto non lo fosse per le rinunce.
Si riteneva, infatti, che la sanzione di nullità, di cui all'articolo 17, si riferisse al caso
in cui il diritto dell'impiegato fosse incontestato e non desse luogo a discussione,
laddove il negozio transattivo vero e proprio, in cui l'abbandono reciproco di una
parte delle pretese avanzate è funzionale alla rimozione della lite, non appariva
intrinsecamente abdicativo ad un diritto concretamente configurabile
1
.
In effetti, su un piano più generale, non sembra che i due negozi possono essere
accomunati dalla medesima efficacia dispositiva e dismissiva di diritti appartenenti
1
Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, Giuffrè, 1990
11
al patrimonio delle parti, posto che nella transazione un simile effetto è meramente
potenziale e non anche tipico e naturale
1
, se è vero che le parti possono transigere
anche su diritti che reputano tali, ma che sono in realtà inesistenti.
Per di più, la reciprocità delle concessioni, anch'essa valutabile con riferimento non
alla realtà giuridica oggettiva, quanto alla rappresentazione soggettiva che ciascuna
delle parti abbia di essa, astrattamente può indurre a ritenere compensate eventuali
rinunce da parte del lavoratore, e quindi a configurare tale accordo come
potenzialmente vantaggioso per entrambi i contraenti
2
.
Ben presto, tuttavia, guardando alla reale sostanza del fenomeno, maturò in
giurisprudenza la consapevolezza della sostanziale affinità, nel campo del lavoro, fra
rinunzie e transazioni (che, infatti, saranno disciplinate unitariamente nel codice
civile), in considerazione del frequente squilibrio economico che finisce per
caratterizzare qualunque patto transattivo
3
: quest'ultimo nasce prevalentemente non
a fronte di pretese contestate, ma a fronte di pretese insoddisfatte, puntando non al
superamento dell'incertezza, ma alla liquidazione dei diritti del lavoratore.
Si rammenti, però, che già allora il legislatore escludeva l'impugnabilità della
transazione (art. 1772, 2comma, c.c. 1865, corrispondente all’art. 1970 dell'attuale
codice): dunque, la sproporzione economica, di per sè, non sarebbe bastata a
inificiare gli accordi conclusi fra le parti del contratto di lavoro.
La giurisprudenza del tempo, se in un primo momento accolse la tesi che
l'inderogabilità della norma comportasse anche l'irrinunciabilità dei diritti,
successivamente distinse fra rinunce e transazioni poste in essere in costanza di
rapporto, che dovevano considerarsi invalide, e quelle intervenute dopo l'estinzione
1
Palmieri, Transazione e rapporti eterodeterminati, Giuffrè, 2000
2
Giugni, Le rinunce e transazioni del lavoratore, 1970
3
Cester, Rinunzie e transazioni, 1989
12
del rapporto da considerarsi invece valide. La giurisprudenza argomentò tale
distinzione sulla base della c.d. teoria della presunzione legale della mancata libertà
di consenso del lavoratore. Secondo tale teoria, durante il rapporto di lavoro, il
lavoratore si trova in uno stato di soggezione e di debolezza nei confronti del datore,
mentre una volta estinto il rapporto il lavoratore, non essendo più sotto la minaccia
di perdere il posto di lavoro, recupera la propria libertà e non ha più nessuna remora
nei confronti del datore.
In realtà, si trattava di un’evidente, ma inconfessata, forzatura del dato positivo, in
base al quale vi erano solo tre figure tipiche di vizi del consenso, a nessuna delle
quali poteva ricondursi il timore reverenziale conseguente allo stato di
subordinazione di un contraente verso l'altro.
La stessa teoria del vizio del consenso servì poi a delimitare l'ambito di operatività
del principio della indismissibilità dei diritti del lavoratore e a temperare la
conseguenza della nullità assoluta dei negozi dispositivi in quanto contrastanti con la
tutela inderogabile.
Tale teoria fu aspramente criticata dalla maggioranza della dottrina e in particolare
da Greco, sostenitore dell'invalidità anche per i negozi successivi alla cessazione del
rapporto, proprio in relazione al fatto che il lavoratore, rimasto privo di occupazione,
si trova in uno stato di bisogno economico e quindi non è in grado di esprimere
liberamente la propria volontà. Più in generale, l'aspra critica dottrinale alla teoria
del vizio del consenso sosteneva l'assoluta irrilevanza del momento in cui fosse
effettuato l'atto di disposizione, perché reputava tale circostanza non influente di
regola sulla natura del diritto, che non muta solo perché il rapporto che vi diede
origine sia cessato, ne cambia connotati per effetto di stagionatura. In altri termini,
secondo questa opinione, nessuna indagine sulla genuinità del consenso prestato dal
13
lavoratore si sarebbe resa necessaria, in quanto l'unica vera ratio del principio posto
dall'art. 17, R.D.L. 1825/1924, non era da ricercarsi in una presunta menomazione
della capacità di agire del lavoratore, ma nella necessità di rispettare quei precetti
d'ordine pubblico, imposti a ogni costo alle parti.
In questa disputa è possibile riconoscere i germi del dibattito attorno al fondamento
della (parziale) indisponibilità delineata dall'art. 2113, con particolare riguardo alla
contrapposizione fra una teoria soggettivistica, che giustifica il particolare regime in
relazione allo stato di soggezione del lavoratore rispetto al proprio datore di lavoro,
che ostacolerebbe una libera disponibilità dei diritti acquisiti ed una teoria
oggettivistica, che sottolinea invece la peculiare rilevanza dei valori e beni tutelati
sottratti persino alla disponibilità del titolare, per una valutazione di priorità
rilevante per la collettività generale non meno che per il singolo.
Indubbiamente, la teoria del vizio del consenso inaugurò un'impostazione volta a
connettere le sorti dell’inderogabilità della norma a quella della disponibilità dei
diritti del lavoratore. Contemporaneamente, però, l'elaborazione di quella teoria è la
migliore dimostrazione di come l'inderogabilità della norma non basti di per sé a
determinare l'indisponibilità dei diritti: ciò che - prima del codice - toccò
all'interprete dedurre attraverso l'espediente del vizio del volere, si tradusse poi nella
regola codicistica dell’invalidità dei negozi di disposizione.
L'art. 2113 c.c. nella formulazione originaria del 1942, cercò di raggiungere un
compromesso fra le diverse posizioni. Infatti, stabiliva l'invalidità delle rinunce e
delle transazioni sui diritti derivanti da norme inderogabili della legge o delle norme
corporative, anche se intervenute successivamente alla cessazione del rapporto di
lavoro; veniva però previsto, per evitare il protrarsi di situazioni incerte, l'onere
dell'impugnazione da parte del lavoratore, nel termine di decadenza di tre mesi (a
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decorrere dalla data di cessazione del rapporto o, in caso di accordi stipulati
successivamente, dalla data dell'accordo). Erano invece ritenute valide le rinunce e
le transazioni avvenute in sede giudiziale o con l'assistenza dei sindacati corporativi.
A questo punto, accedendo all'idea - già avanzata nel periodo corporativo - che
l'inderogabilità attribuita dal legislatore ad una determinata norma ha, per
conseguenza naturale e necessaria, l'indisponibilità di diritti che da essa nascono,
non vi sarebbe scampo per la disciplina delle rinunzie e transazioni; essa, rispetto
all'assetto normativo già consolidatosi al tempo del codice civile, non solo non
aggiungerebbe alcunché, ma addirittura toglierebbe qualcosa, attutendo gli effetti
che l'inderogabilità dello statuto protettivo del lavoratore avrebbe sulla conseguente
indisponibilità dei diritti ivi riconosciuti.
In effetti, a chi riteneva che le norme inderogabili generassero diritti indisponibili,
l'art. 2113 finiva per apparire una piccola mostruosità giuridica, in quanto sembrava
porre una tutela limitata e meno incisiva rispetto alla nullità sancita dal legislatore,
in generale, per il contratto posto in violazione di norme imperative (art. 1418
1comma c.c.), e, in particolare, per la transazione relativa a diritti sottratti alla
disponibilità delle parti (art. 1966 2comma c.c.). Fu questa la conclusione a cui
pervenne una parte della dottrina, trovandone una giustificazione in termini di
politica del diritto nella necessità pratica di non creare dannose situazioni di
prolungata incertezza nei rapporti di lavoro
1
: nell’art. 2113, dunque, non si farebbe
questione di difesa del lavoratore, ma piuttosto si tutela la tranquillità economica del
datore di lavoro e le necessità organizzative dell'azienda.
Contrariamente a quanto sostenuto da tale orientamento, il richiamo alle parole della
Relazione al codice non conferma affatto una simile conclusione: infatti, la finalità
1
Prosperetti, L’invalidità delle rinunce e delle transazioni del prestatore di lavoro, 1950
15
di evitare il protrarsi di situazioni incerte e di escludere ogni malizioso
comportamento dilatorio è lì evocata esclusivamente a giustificazione del breve
termine di decadenza a cui è sottoposta l'azione del lavoratore, mentre alla norma
nel suo complesso si attribuisce il merito di aver risolto il grave e dibattuto problema
della validità o meno di rinunce e transazioni. Quest’ultimo inciso testimonia come
l'indisponibilità dei diritti del lavoratore (sotto forma di divieto di rinunziare e di
transigere) non fosse affatto scontata, perché non era considerata un semplice
corollario della inderogabilità.
Del resto, se la ratio dell'art. 2113 c.c. fosse quella di attutire, a vantaggio delle
imprese, un presunto regime di generale indisponibilità dei diritti del lavoratore, essa
risulterebbe del tutto incongrua rispetto alla tutela che la costituzione appresta ai
lavoratori subordinati.
Non a caso, allorquando tale problematica è stata trasferita sul piano della legittimità
costituzionale, al primo comma dell'art. 2113 c.c. è stato rimproverato di aver
assoggettato le rinunzie e transazioni al regime dell'annullabilità, anziché a quello
della nullità ex artt. 1418 e 1966 c.c.; si è pure contestata la scelta, operata dal
capoverso dell'art. 2113, di sottoporre l'azione di impugnazione dei predetti negozi a
un breve termine di decadenza, anziché di prescrizione.
Le relative eccezioni di incostituzionalità, tuttavia, non hanno trovato accoglimento.
Infatti, il giudice delle leggi ha escluso l'asserita violazione dell'art. 3 Cost.,
sostenendo che, mentre il termine di prescrizione riguarda l'estinzione dei diritti, il
più breve termine di decadenza posto dalla norma codicistica è relativo ad un aspetto
del tutto diverso, ossia quello della impugnazione degli atti con cui il lavoratore ha
già disposto con una precisa manifestazione di volontà.